Ricordi e riflessioni
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1929
Ricordi e riflessioni[1]
In memoria di Pasquale d’Aroma,Roma, Tip. della Banca d’Italia, 1929, pp. 51-58
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Insegnavamo tutti due, quando lo conobbi prima della guerra, finanze alla Bocconi di Milano: io quella che si usa comunemente indicare col titolo di scienza della finanza ed egli quell’altra che, non si sa perché, probabilmente per non elevarla alla dignità di «diritto», si costuma qualificare di «legislazione finanziaria». La Direzione della Bocconi aveva chiesto ai capi degli uffici finanziari milanesi l’indicazione di un funzionario che sapesse chiarire ai giovani le norme legislative tributarie, quasi come guida per dirigerli negli intricati misteri delle applicazioni pratiche delle imposte. Ma quel giovane, il quale veniva a noi in virtù della sua esperienza negli uffici, apparve subito, agli studenti ed ai colleghi, ben più di un semplice pratico. Testa chiara, semplificatrice, aveva dimostrato senz’altro di avere quelle che sono le qualità del maestro: astrarre dai minuti particolari le linee essenziali dell’istituto tributario; esporre ordinatamente la ragion d’essere, la logica intima, la costruzione sistematica delle imposte studiate. Rispettoso delle tradizionali linee di separazione tra la «scienza» e la «legislazione» tributaria non dissertava sui principii e si atteneva al chiarimento delle norme legislative. Tuttavia quella che egli ogni anno sempre meglio elaborava, se pure continuava a chiamarsi legislazione, era vera «scienza», tanto quanto l’altra; se è scienza astrarre il generale dal particolare, trovare la norma che regola i casi singoli, che è implicitamente contenuta nei testi legislativi od a cui i testi legislativi debbono alla lunga inchinarsi.
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Qualche anno dopo, quando il ministro delle Finanze Meda volle nominare una commissione per lo studio della riforma tributaria, parve naturale a chi scrive suggerire il nome del d’Aroma, allora divenuto capo dell’ufficio delle imposte di Torino, come quello di un prezioso collaboratore della commissione; ma fu gran merito del Meda di aver voluto che il d’Aroma, nonostante il suo grado minore nella gerarchia amministrativa, facesse parte della commissione non come segretario od aggiunto, ma alla stessa stregua degli altri, direttori generali, alti funzionari, magistrati ed insegnanti. Ed il d’Aroma si impose subito pari tra pari; e sotto parecchi aspetti maggiore. In quella ed in tante altre commissioni di cui fece poi parte, egli tenne sempre un posto singolarissimo: non mai parlava per il primo né a sfoggio di dottrina o di eloquenza ed anzi i dotti e gli eloquenti ed i vanesii e saccenti e prepotenti lasciava sfogare appieno, sicché avessero quella giusta soddisfazione a cui potevano aspirare; ma, quando egli prendeva dappoi la parola, il vano, l’inutile, l’ingarbugliato, l’astratto svanivano e tutti si dichiaravano disposti ad affidare a lui la traduzione in precetto legislativo delle conclusioni a cui si era giunti. Gli articoli dei disegni di legge e dei decreti approntati da d’Aroma hanno uno stile.
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Egli che vedeva sovratutto l’impossibilità di applicare sempre il principio generale, amava congiungere la norma e l’eccezione o riserva; epperciò taluno che non amava gli aggettivi ed i periodi lunghi, avrebbe desiderato che i suoi articoli di legge fossero spezzati in due o parecchi. Ma quegli articoli non si possono appuntare di poca risolutezza nell’esprimere la norma; ché la lunga meditazione nei casi complicati, che gli era accaduto dover sbrogliare, lo faceva aborrire dal creare nuovi nodi e nuove complicazioni.
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Non aborriva tuttavia dalle formule le quali lasciassero un certo margine di arbitrio alla amministrazione; poiché egli era profondamente convinto che quel margine fosse necessario per garantire la giustizia giusta a tutti. Su questo punto egli, conversando, teorizzava quello che, nel comune funzionario delle imposte, è spesso semplice istinto; la lunga esperienza della media natura italiana avendolo fatto persuaso che la giustizia scritta nella legge è disadatta a tutelare le ragioni dello Stato contro l’astuzia della gente risoluta a non pagare il debito suo all’erario. Sicché quando gli si facevano presenti talune iniquità della legge fiscale, per cui si dichiaravano redditi, a cagion d’esempio, somme che erano mere parvenze monetarie di reddito, egli, che era fino ragionatore, non negava l’iniquità , ma la spiegava come arma di ritorsione in mano della finanza per riparare alla impossibilità di raggiungere per le vie normali la nozione del vero reddito.
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Ad un margine di arbitrio aveva forse diritto egli, che era una eccezione rarissima di servitore devoto dello Stato, difensore severissimo del denaro pubblico, eppure capace di apprezzare, a ragion veduta, le esigenze dell’economia nazionale. Ma sarebbe pericoloso attribuire ad altri un siffatto margine di arbitrio; poiché tempre di dominatori, come era egli, dalla mente agilissima e dalla volontà ferma, padroni, nei più minuti particolari, della amministrazione ad essi sottoposta e delle leggi da applicare, sono eccezioni mirande a capo di una grande branca della pubblica amministrazione.
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Avere consentito, a chi glie ne faceva proposta, a nominare d’Aroma di botto direttore generale delle imposte è il maggior vanto del gabinetto e del ministro (Tedesco) dell’ottobre del 1919. Probabilmente il Tedesco, coscienzioso e scrupoloso com’era, ebbe, quella sera, qualche apprensione, che non diede poi a divedere mai, di fronte alla sua burocrazia nel far fare così gran salto ad un funzionario del ramo «esecutivo»; e, pur essendo ben consapevole del grande vantaggio che ne sarebbe derivato alla pubblica cosa, forse non vide pienamente che egli, con quella nomina, decretava la maggiore delle riforme tributarie che in Italia si sia compiuta dalla guerra in poi; e si potrebbe aggiungere anche per gran tempo prima. Non le leggi difettavano o la possibilità di mutarle agevolmente. Era fiacco l’impulso primo alla applicazione della legge; faceva d’uopo un uomo che quelle leggi antiche e quei decreti nuovi facesse vivere, per la salvezza della finanza dello Stato. Perciò si poté fondatamente dire che d’Aroma era, per sé stesso, l’ottima tra le riforme tributarie che si potesse fare in Italia. Contribuenti, funzionari, ministri venuti di poi ben lo seppero. Si seppe che a guardiano della più delicata branca dell’amministrazione tributaria, di quella che richiede la maggior somma di iniziativa, di rettitudine, di comprensione delle necessità dell’erario e dell’economia era stato posto un uomo, degno erede di coloro che avevano costruito sessanta anni prima il meccanismo dell’Italia unificata tributariamente.
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L’idea fondamentale che, dal 1919 in poi, lo inspirò, fu di ricostruire l’edificio tributario che il trascorrere del tempo e le urgenze della guerra avevano guasto. «Ricostruire» è un’idea complessa ed io non ricordo, tra i funzionari posti a capo di una grande amministrazione pubblica, chi, al par di lui, fosse meglio capace a tradurla in realtà vivente. Ricostruire significa avere in cospetto le costruzioni proposte dai riformatori. Ascoltava con ossequio le idee geniali espostegli dai suoi ministri e dai professori che i ministri avevano chiamato a consiglio; ma piano piano poi le demoliva, lasciando, se non il professore, certo il suo ministro persuaso che egli mai aveva pensato ad attuare quella idea, anzi aveva visto fin dal principio le critiche che il d’Aroma gli aveva suggerito presentandogliele come contenute nella idea stessa primitiva.
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Non lasciò mai attuare, pur avendovi collaborato attivamente, nessun progetto «di riforma tributaria»; e se qualcheduno tra essi giunse fino al momento del decreto legge, vi inserì una clausola che ne rinviava l’applicazione a tempi migliori, che non vennero mai.
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Ma, fin dal 1919, il suo piano era di attuare medesimamente quelle medesime riforme tributarie col metodo del pezzi e bocconi, metodo che maneggiò con arte finissima. Quel metodo consiste di due parti: nel demolire ad uno ad uno i falsi soffitti, i tramezzi posticci, il che vuol dire le pseudo-imposte, le sovrastrutture ingombranti che durante la guerra e prima della guerra avevano trasformato l’armonico edificio creato tra il 1860 e il 1870 in una capanna d’affitto per povera gente acciabattata, riscoprendo così, tra la polvere delle demolizioni, le linee pure dell’edificio originario; e nell’aggiungere nuovi piani o maniche laterali armonizzanti col vecchio edificio e capaci di renderlo adatto alle esigenze nuove.
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Non avrebbe potuto attuare quel piano se fosse stato affezionato agli istituti vecchi solo perché fruttavano milioni all’erario dello Stato. Il calcolo del costo e del reddito delle imposte è altrettanto difficile quanto il calcolo del costo e dei redditi in una qualunque impresa produttrice di beni congiunti. Le imposte del tempo di guerra costavano spesso assai più di quanto rendevano per il disturbo che recavano all’amministrazione, alla quale impedivano di curare le imposte fondamentali permanenti. D’altro canto l’abolire di colpo gli imbrogli poco produttivi e il creare un nuovo ordinamento sarebbe stato causa di disorientamento nei contribuenti e nei funzionari e avrebbe dato luogo ad una crisi transitoria gravissima. Il problema che il d’Aroma dovette risolvere era delicatissimo e rassomigliava a quello che deve affrontare l’ingegnere architetto, incaricato del restauro di un antico monumento guasto dalle ingiurie del tempo e dalle manomissioni degli uomini; il quale, mentre lo si restaura, non può essere abbandonato dai suoi inquilini, e deve continuare ad essere utilizzato dal pubblico, richiamatovi dai consueti festeggiamenti, da periodiche solennità o quotidiani affari.
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Quando egli lasciò la direzione delle imposte per la Banca d’Italia l’opera della ricostruzione era chiusa; e nessun augurio migliore potrebbe farsi alla cosa pubblica di quello che i suoi successori si tengano stretti, come finora si fece, alla regola da lui posta: resistere alle novità formali, alla moltiplicazione dei nomi tributari, avere ferma fiducia che il massimo rendimento si ottiene da una macchina fiscale semplice, adeguata ai suoi fini, lavorante senza attriti, con ossequio rigido alla giustizia.
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Questo della giustizia tributaria fu sempre il suo tormento. Conversando con lui, ebbi l’impressione che il suo ideale fosse di abolire il bisogno di ricorrere alla magistratura ordinaria ed alle medesime commissioni amministrative; poiché giustizia sostanziale doveva essere resa dai funzionari, sicché i contribuenti, sapendo di essere giustamente trattati, non avessero ragione mai di lamentarsi. La giustizia, ordinaria od amministrativa, deve procedere per regole uniformi; non può avere la sensazione del caso per caso, non può cercare la verità di fatto, che non è una media, ma è un caso singolo, ognuno dei quali è differente dagli altri. Perciò egli avrebbe voluto che il corpo dei funzionari tributari fosse in sé medesimo una magistratura finita e fosse circondato dell’alta estimazione e dell’autorità che ai magistrati sono dovute. L’esperienza, parmi, lo aveva persuaso che questo era un ideale ultra terreno. A malincuore aveva dovuto rinunciare a richiedere ai candidati alla carriera degli uffici tributari il grado dottorale: troppo grande il numero dei chiamati, troppo modeste le condizioni materiali e morali ad essi offerte, troppo ripugnanti i giovani di tanta parte d’Italia ad entrare nelle carriere burocratiche, perché fosse possibile a lui di trasformare tutti i funzionari tributari in uomini forniti della dottrina, della imparzialità , della forza d’animo che si devono riscontrare nei magistrati. Ad un certo momento, egli aveva vagheggiato di essere il capo di un corpo indipendente dagli altri poteri dello Stato, incaricato di fare osservare di fronte a tutti, ai privati ed allo Stato insieme, la legge tributaria. Ideale per fermo altissimo; ma che non si può attuare per la impossibilità di trovare noi – e sarebbe la stessa cosa in qualunque paese fuor del nostro – il materiale umano compiutamente atto all’ufficio e per la contraddizione che è insita tra l’essere una branca dell’amministrazione pubblica e l’indole della magistratura che deve essere fuori ed indipendente dagli organi esecutivi e legislativi dello Stato. L’avere avuto una concezione siffattamente alta dei compiti della burocrazia di cui egli era a capo dimostra quanto nobile fosse l’ideale a cui si inspirava. Servitore dello Stato, egli fu sì, tra i maggiori che abbia avuto lo Stato italiano dopo il 1860. Ma fu servitore di uno Stato inaccessibile all’arbitrio degli uomini, alle pressioni dei partiti, alle lotte delle classi e delle fazioni, incarnazione della legge vivente come giustizia resa a tutti, anche contro il momentaneo interesse dello Stato.
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Volendo conchiudere con l’espressione di una verità generale, dirò che d’Aroma incarnò l’aspirazione, sorta nel 1864 con la creazione dell’imposta mobiliare e riaffermatasi nell’ultimo quarto di secolo con la tendenza legislativa verso le imposte personali e fu, per antonomasia, colui che vuole attuare la giustizia nella distribuzione delle imposte, intendendo per giustizia il far pagare ognuno in relazione a ciò che egli di fatto guadagna e possiede. Ahimè! che tale giustizia, come la magistratura che la dovrebbe attuare, è un ideale ultra terreno perché si fonda sulla possibilità di conoscere l’inconoscibile.
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Discorrendo con lui negli ultimi anni, ebbi talvolta l’impressione che egli andasse avvicinandosi ad un’altra concezione della giustizia tributaria, che io avevo finito per reputare praticamente superiore, la giustizia delle medie, che non presume di conoscere la verità dei casi singoli, ma si contenta di una approssimazione di verità , propria dell’uomo comune od ordinario e la applica a tutti, anche a quelli che ne stanno di fatto lontani in più o in meno; ma la applica a tutti con uniformità non arbitraria di criteri.
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L’esperienza non felice della tassazione dei redditi agrari lo aveva persuaso che nel vecchio sistema catastale di tassazione dei redditi fondiari, che in fondo è il trionfo del medio, del costante, del regolare, c’era il germe di una verità feconda; e già prima nessuno era stato più pronto di lui a buttare a mare il proposito, accolto in uno dei disegni di riforma tributaria, di sostituire per i terreni, al catasto il metodo di accertamento dei redditi o fitti correnti effettivi. Non ebbe tempo di scrivere le sue memorie; se avesse potuto, non dubito che tra le pagine più memorabili si sarebbero dovute noverare quelle in cui egli narrasse i modi tenuti, nella impossibilità di conoscere l’inconoscibile, per attuare quella giustizia media, comparativa, dell’ugual peso per condizioni somiglianti, in cui soltanto può concretarsi l’ideale della giustizia assoluta.
[1] Parzialmente ristampato nel 1954 col titolo La ottima tra le riforme tributarie in Il buongoverno, pp. 49-51 [Ndr.].