Prefazione – U. Nobile, L’umanità al bivio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1947
Prefazione – U. Nobile, L’umanità al bivio
Umberto Nobile, L’umanità al bivio, Mondadori, Milano, 1947, pp. XIX-XXIX
Leggendo i fogli di stampa del libro di Umberto Nobile involontariamente risalivo col pensiero a cose scritte trent’anni addietro in alcuni articoli sul Corriere della Sera e raccolti poi in un volume pubblicato da Laterza col titolo Lettere politiche di Junius. Dicevo allora, quando la «Società delle nazioni» non era ancora nata, ma già operavano nei paesi associazioni intese a propugnarne l’idea ed a Milano se n’era fatto banditore colui che poi, divenuto dittatore in Italia, tanto fece per vilipendere e distruggere l’istituzione ginevrina, dicevo che l’idea della società delle nazioni non era vitale ed era destinata al fallimento. Gli stati esistenti erano invero, anche i maggiori, divenuti oramai anacronistici, sì come all’epoca del rinascimento erano anacronistici i principati e le città libere e dovevano necessariamente dar luogo ai grandi stati moderni. Le ferrovie, la navigazione a vapore, il telegrafo, il telefono, l’aereoplano, la radio, il sottomarino stavano cancellando le distanze e riducendo il mondo intero ad un solo paese.
Ma una mera società di stati, simile all’Anfizionia greca, al Sacro romano impero del medioevo, alla Santa alleanza della restaurazione era strumento adatto non a risolvere il problema, ma a promuovere nuove guerre fra stati sovrani soggetti, nella loro lotta contro la guerra, al veto di uno solo di essi. La soluzione non doveva cercarsi in una novella confederazione di stati sovrani, come quella che le 13 colonie nord- americane avevano costituita nel 1776; ma nella creazione di un vero stato federale, simile a quello che, sotto la minaccia imminente della guerra fratricida, Washington, Jefferson, Madison e Jay erano riusciti a fondare nel 1787 e vive e giganteggia ancora oggi. Il vero nemico, il nemico numero uno, il fomentatore necessario e sufficiente delle guerre è l’idea dello stato sovrano.
Fa d’uopo distruggere questa idea malvagia; riconoscere che gli stati singoli non sono sovrani perfetti e debbono abdicare ad una parte della loro sovranità e fin dall’inizio rinunciare al diritto di guerra, a quello di rappresentanza diplomatica ed alle dogane a beneficio dello stato federale sovranazionale. Sinché vi saranno stati nazionali forniti di eserciti e di flotta, capaci di porre impedimenti al libero transito delle persone e dei beni e di stipulare trattati internazionali, le guerre saranno inevitabili e nessuna società delle nazioni vi si potrà opporre. In mezzo a tanto ingenuo entusiasmo per l’idea wilsoniana la mia nota non conformista non ebbe alcuna eco; ed ancora oggi vi ha chi si ostina a credere che l’idea della Società delle nazioni fallì per la inettitudine degli uomini a farla trionfare, non perché essa fosse ombra senza corpo.
Oggi, con tanta maggiore esperienza e ricchezza di dati, Umberto Nobile per altra via riesce alla medesima dimostrazione. Non riassumerò qui le pagine appassionate che egli ha dettato per mettere in luce la profonda trasformazione verificatasi nel mondo durante gli ultimi cento anni. Ma la conclusione è certa ed è una sola: le nuove conquiste che l’uomo ha compiuto negli ultimi trent’anni, i meravigliosi avanzamenti nella tecnica in genere e nei mezzi di comunicazione in ispecie, le terribili invenzioni nell’arte della distruzione, di cui quella della bomba atomica è solo la più spaventosa, hanno posto gli uomini dinnanzi al bivio: o unificazione politica ed economica del mondo intero o la distruzione della civiltà, anzi dell’umanità medesima.
Al luogo della «Società delle nazioni» abbiamo le «Nazioni unite»; ma poiché esse non hanno una propria forza armata e proprie entrate, esse sono altrettanto impotenti come la morta istituzione ginevrina. «Il concetto di sovranità nazionale è oggi il nemico più grande del genere umano. Per proteggere quella sovranità gli stati si armano; né possono fare diversamente, perché con i potentissimi mezzi di distruzione moderni, ciascuno di essi si sente minacciato. L’Unione sovietica ieri si temeva di essere aggredita dalla Germania; oggi pensa che il futuro aggressore possa essere l’Inghilterra o l’America. Queste, a loro volta, vedendo che la Russia prende le sue precauzioni contro una possibile aggressione futura, si sentono da quelle misure minacciate e così via di seguito. È un circolo vizioso dal quale non si può uscire, se non rinunciando al concetto di sovranità nazionale».
Queste ultime parole conclusive di Nobile pongono la domanda: perché gli uomini non sono pronti a rinunciare al falso idolo della sovranità degli stati a favore della sovranità della federazione mondiale? Nobile risponde che una istituzione la quale si propone di rimuovere le cause della guerra deve essere inspirata ad una sola ideologia e che questa non può essere se non il collettivismo mondiale. Ed anche qui vi è un vero che deve essere accettato da tutti: la rinuncia alla sovranità nazionale può essere compiuta dagli uomini solo quando essi abbiano una comune credenza, si ispirino ad un medesimo ideale di vita, abbiano fede nei medesimi valori spirituali.
Rispondendo, in sull’inizio del 1940, ad un questionario dell’Accademia americana di scienze politiche e sociali di Filadelfia, dicevo che la guerra, alla quale gli Stati Uniti e l’Italia ancora non partecipavano, era una guerra di religione, la quale non poteva chiudersi innanzi alla distruzione intera di uno dei due avversari. Le guerre di religione non tollerano infatti compromessi e vittorie parziali; ma esigono che una delle due religioni (combattevano allora le due religioni della libertà e del totalitarismo) sia fatta scomparire dalla faccia della terra. Se noi vogliamo che l’umanità si salvi dalla minacciata distruzione, se noi vogliamo che si costruisca la nuova città di tutti i viventi, fa d’uopo perciò che, innanzi al momento fatale, gli uomini si accordino in una sola fede.
Il dilemma che Nobile pone fra collettivismo e capitalismo, fra forme economiche collettivistiche adatte alle nuove condizioni, così bene da lui descritte, del vivere umano, e forme individualistiche, in contrasto evidente con quelle condizioni, non è atto a risolvere il problema. Gli uomini possono riporre una fede in un ideale morale, non mai in una esigenza economica, la quale , se è connessa con il fine morale, non ne è mai la causa.
Infinite sono inoltre le definizioni che si possono dare del collettivismo, del comunismo, del socialismo, così come del capitalismo, dell’iniziativa individuale, dell’impresa libera; e dal tenore stesso delle osservazioni dell’autore, su questo punto, traspare che egli ispira a qualche maniera non ben definita non di volgare conciliazione, ma di sintesi razionale dei due principi opposti. I propugnatori dei quali sono concordi del resto solo in ciò che ognuno di essi ritiene l’opposto principio reazionario, creatore di ceti privilegiati e dannoso al bene comune ed unicamente il proprio atto a far progredire gli uomini sulla via del progresso. Ognuno dei due principii reputa di essere meglio in grado di unificare economicamente il mondo, di ridurre al minimo i guadagni dei monopolisti, di eliminare la disoccupazione, di aprire la via dell’ascesa a tutti i giovani capaci e volenterosi, di esaltare le virtù morali e spirituali di tutti i viventi.
Poiché gli assertori dei due principii sono veramente convinti di essere, ognuno di essi, i depositari della verità, e poiché la unificazione della fede è premessa necessaria alla costruzione di una volontaria federazione mondiale, dobbiamo dunque rassegnarci al dominio della forza? Solo la guerra potrà decidere quali dei due principii debba trionfare e quale di essi debba generare lo stato mondiale garante della pace? e questo potrà dunque nascere solo su una terra divenuta una triste landa deserta di uomini civili?
Visitavo un giorno un museo di cose preistoriche ed osservando arnesi di guerra e di pace, domandai: quando le armi incominciarono ad essere usate dagli uomini per soggiogare ed uccidere altri uomini, invece che per procacciare ad essi cibo e vestimenta? La risposta, inaspettata, dell’etnografo fu: l’uso delle armi a scopo di guerra tra uomini è contemporanea alla nascita dello stato, del primitivo stato inteso ad organizzare a forma di tribù gli uomini viventi prima in sparsi gruppi familiari. Ignoro se la risposta risponda ad una verità storica generale; ma essa mi ha fatto sempre meditare. Forse non basta dire che l’idea dello stato sovrano è il nemico numero uno della pace. Non basta dire che lo stato deve essere spogliato delle sue prerogative di guerra e di pace, di trattati internazionali e di rappresentanze diplomatiche a favore della federazione mondiale.
Non basta trasferire alcuni attributi dello stato dal comune al principato, dal principato piccolo allo stato grande, dallo stato grande a quello nazionale, dallo stato nazionale a quello europeo od americano od asiatico e da questo allo stato mondiale. Dobbiamo far di più: distruggere l’idea stessa dello stato onnipotente, dello stato che può far tutto, salvo mutare l’uomo in donna. Gli uomini hanno combattuto lunghe secolari guerre che dicevansi di religione, al fine di far trionfare l’idea che la religione è cosa privata; privata non nel senso che essa non debba interessare tutti gli uomini, che non debba informare di sé tutta la vita del credente ed informarla sia nell’intimo foro della coscienza e nella pratica religiosa, come nelle manifestazioni della vita familiare civica e politica; bensì nel senso che essa non può essere comandata da nessuna autorità, che su di essa non ha impero il legislatore.
Gli uomini hanno condotto guerre per affermare il principio della abolizione della schiavitù; ossia il principio che il legislatore non può, neppure col voto unanime dei suoi rappresentanti, negare la libertà dei cittadini; ed i popoli europei hanno assistito con raccapriccio ai tentativi recentissimi compiuti in taluni paesi di ridurre nuovamente i cittadini in genere od alcuni gruppi di essi al lavoro forzato. La guerra ultima fu condotta dagli uomini appunto per affermare il principio che agli stati non è lecito far tutto, e debbono essere posti limiti alla loro azione. Essa non fu combattuta fra tedeschi ed anglosassoni; ma fu una guerra civile anzi una guerra di religione combattuta nel seno di ogni paese per sapere che cosa sia lecito allo stato di fare e di comandare. Oggi quella guerra più non si combatte per il momento con le armi; ma dura colla penna e con la parola e durerà sin quando gli uomini non si siano messi d’accordo sui limiti dell’azione dell’uomo operante liberamente e dell’uomo organizzato coattivamente.
Non si deve sperare, anzi non si deve augurare che la guerra condotta con la parola e con la penna, sui giornali e nelle assemblee politiche, sulle piazze o nelle chiese debba finir mai; ché la fine della guerra di pensiero vorrebbe dire la morte del pensiero e quindi dell’uomo. Dobbiamo sperare ed operare affinché gli uomini, pur seguitando a battagliare per il trionfo dei loro ideali, si mettano di volta in volta provvisoriamente d’accordo sui limiti di quel che essi giudicano terreno lasciato alla libera determinazione del singolo e terreno riservato al comando degli stessi uomini organizzati coattivamente. Se uno stato sovranazionale dovrà sorgere, esso dovrà fondarsi su un patto comune, su una carta dei diritti dell’uomo, la quale consacri il minimo di libertà religiosa civile economica garantito ogni dove dalla forza, armata di giustizia, dello stato mondiale. L’avvento della federazione mondiale non è legato al trionfo di una di una organizzazione collettivistica o individualistica della società economica, anche perché sarebbe legato al trionfo di principi di impossibile definizione precisa e quindi legato ad una condizione assurda.
Esso è legato invece, per rimanere per un istante nel campo economico ed a cagion d’esempio, al diritto dell’uomo di fare propaganda, in una organizzazione individualistico-capitalistica della società economica, a favore dell’ideale collettivistico ed, al contrario, in una organizzazione collettivistica, a favore dell’impresa privata. E per diritto di propaganda s’intende diritto di dare opera all’attuazione dell’ideale opposto a quello generalmente accolto; e cioè di fondare imprese cooperative o collettivistiche in una società capitalistica ed imprese private in una società collettivistica. Cosa oggi lecita nelle società dette capitalistiche; ma illecita, a quanto sembra, nelle società dette comunistiche.
L’avvento di una stabile federazione mondiale è dunque legato al trionfo di ben altri e più alti principii di quelli proprii della mera società economica; al trionfo dei principi della libertà di religione e di pensiero, della libertà di associazione e di stampa, del riconoscimento del diritto di ogni uomo a scegliere la propria via, a mutare residenza, professione, opinioni politiche e religiose, a spostarsi senza impedimento da paese a paese, da lavoro a lavoro, a perseguire le proprie inclinazioni nello spendere le proprie risorse senza alcuna costrizione o limitazione all’infuori di quelle dettate dall’ossequio all’ordine pubblico ed al buon costume.
Non possono unirsi insieme i popoli i quali non osservino questi principi fondamentali del vivere libero; i quali tollerino che l’uomo possa essere incarcerato e punito per una sentenza diversa da quella del magistrato ordinario, i quali ammettono l’esistenza di una magistratura dipendente dal potere politico ed incapace a mettere nel nulla le leggi violatrici della Costituzione e delle norme eterne del diritto naturale. A parole, tutti questi principii sono proclamati nelle costituzioni moderne; ma nella più parte dei paesi sono di fatto misconosciuti, talvolta per asserite necessità transitorie derivanti dalla guerra e più spesso perché la loro osservanza farebbe venire meno l’impero della classe politica dirigente, non monta se oligarchica o plutocratica o comunistica, sui cosiddetti cittadini, rimasti sudditi. Il giorno nel quale i principii scritti nella lettera delle costituzioni di tutti i paesi civili del mondo saranno diventati carne della carne e sangue del sangue dei viventi, la federazione mondiale sarà cosa fatta. Forse sarebbe bene che quei principii non fossero mai stati scritti nelle costituzioni; ché, scrivendoli, i legislatori li hanno ridotti a formule politiche, utili a fini di dominazione dei gruppi politici che li affermano, ben sapendo che la loro persistenza al potere dipende dall’osservanza del comando: vulgus vult decipi, ergo decipiatur.
Gli uomini vogliono essere ingannati dall’affermazione di principii che i dirigenti useranno come meri strumenti della propria volontà di dominazione. Non importa che quei principii siano incisi su tavole di bronzo. Importa invece che gli uomini si persuadano che non vale la pena di vivere là dove essi sono violati. Temo assai che, sino a quando ciò non accada, i mirabili avanzamenti nelle scienze e nella tecnica, così efficacemente descritti da Umberto Nobile nel suo libro, siano destinati non a costruire la città felice immaginata dai filosofi, ma ad eliminare gli uomini dalla faccia della terra.
Ciò nonostante, giova costruire faticosamente argini contro il male; giova continuare a tessere la trama delle istituzioni ed associazioni internazionali, delle quali pure l’autore narra il moltiplicarsi ed il crescere incessante, volto ad instaurare rapporti economici e spirituali tra uomini divisi da sudditanze, da credenze, da costumi diversi. Argini e rapporti sono, entrambi, strumento di conoscenza tra uomini ed uomini; di quella conoscenza che, se può generare odi, genera altresì amore e persuade alla tolleranza, e cioè alla virtù prima ed essenziale, mancando la quale non vi può essere pace tra gli uomini.