Prefazione – R. Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1947
Prefazione – R. Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea
Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea, Einaudi, Torino, 1947, pp. XI-XIV
Non so perché l’amico Tremelloni abbia chiesto proprio a me di scrivere una prefazione alla sua Storia dell’industria italiana. Non so, perché egli doveva prevedere che io mi sarei accostato con diffidenza alle sue pagine. Appartengo ad una generazione la quale ha dimostrato quali erano i suoi ideali nello scrivere non so se storie o cronache economiche. Ci dedicammo a compilare monografie regionali e ristrette, sia che Giuseppe Prato si occupasse delle idee e dei fatti economici in Piemonte verso la metà del secolo XVIII o delle idee e dei fatti medesimi nello stesso Piemonte nell’età carlalbertina dal 1830 al 1848, sia che il Pugliese attendesse a scavare a fondo nella storia dei prezzi e dei fitti dei terreni, dei prezzi delle derrate agricole e dei salari in una sola grande proprietà agricola del Vercellese, sia che io narrassi le vicende della finanza sabauda dal 1700 al 1713.
Oggi, quella storiografia mi pare fin troppo ambiziosa e, per soddisfare gli istinti di frugatore nelle carte vecchie, per otto anni dedicai un paio di mesi all’anno allo studio di un piccolo problema di un piccolo comune piemontese per il periodo dal 1793 al 1914, e avendo dovuto interrompere quell’indagine quando ero appena all’inizio della fatica, rimasi convinto che per essere in grado di dire qualcosa di sicuro su quel piccolo problema – che sarebbero poi le vicende della distribuzione della proprietà terriera – in quel piccolo comune in un limitato spazio di tempo, molti altri anni di lavoro assiduo e continuato sarebbero necessari. Dunque, non si possono scrivere libri di sintesi? Dovranno succedersi generazioni a generazioni di eruditi fastidiosi ed affaticati su minuscoli tratti di tempo e di paese, prima di scrivere storie economiche? Sarà necessario che il territorio italiano sia scandagliato in ogni suo minimo punto, prima che qualcuno si accinga a scrivere storie economiche generali? Sarebbe, da parte nostra, da parte cioè di uomini pronti più a guardare alle moltissime cose che non si sanno nella storia economica passata che non alle poche note, una pretesa grandemente eccessiva. Giorni addietro, un amico mi chiedeva consiglio a chi ci si dovesse rivolgere per un capitolo sintetico sulla storia della proprietà fondiaria in Italia. «Quella storia, replicai d’impulso, non si può scrivere. Non sappiamo quasi nulla in proposito».
Eppure, qualcuno scriverà quel capitolo e probabilmente sarà una egregia introduzione alla conoscenza del problema. Così è del libro di Tremelloni che ho l’onore di presentare al lettore. Posso bene brontolare sulla audacia di narrare vicende intorno alle quali tanto poco in verità si conosce; posso bene affermare che siamo a malapena all’inizio della fatica la quale dovrà essere sostenuta per raccogliere i documenti utili alla conoscenza della storia economica italiana; posso ben lamentare che troppe poche carte siano accumulate in proposito negli archivi statali e ancor meno gli archivisti, sopraffatti dalla inondazione dei fondi ad essi devoluti per legge, si curino di costituire archivi economici; posso bene deplorare che nessuno si affanni a ricevere e custodire i fondi archivistici delle banche, delle società e delle imprese cessate, liquide o fallite; posso ben piangere sui registri di conti famigliari mandati al macero o venduti a bottegai per involtare derrate; ma solo alla fine dei piagnistei fa d’uopo riconoscere che ha pur diritto, chi abbia il coraggio, di utilizzare le fonti esistenti e di cercare di rendere partecipe il pubblico dei risultati della propria fatica. Tremelloni ha avuto quel coraggio che i timidi, che i fastidiosi non hanno. Non ha perso tempo a frugare archivi, ché non gli sarebbe bastata la vita. Ha letto e studiato quasi tutto e certo la più gran parte di quel che abbiamo a stampa sulla storia dell’industria italiana e ne ha fatto la sintesi.
Dopo tutto, non bisogna farsi un feticcio delle carte manoscritte e non si deve immaginare che un rapporto ufficiale rimasto inedito valga di più di un libro stampato. Nove volte su dieci val di meno, specialmente se il tempo ha fatto giudizio della più parte della cartaccia stampata dagli analfabeti economici, che sempre imperversarono in ogni tempo e paese, e sono rimasti a galla solo gli scritti di coloro i quali avevano riflettuto sui problemi di cui si attentavano a discutere. Salvo rarissime eccezioni – e noverei fra queste il libro di Tarlè, che quando lo lessi mi parve un centone di notizie messe insieme senza critica – le fonti utilizzate dal Tremelloni sono buone e molte sono degne della grande reputazione che hanno acquistato con il tempo.
Che cosa è uscito fuori dal lungo studio durato negli anni nei quali l’unico modo di sottrarsi per un momento alle ansie del presente era il tentativo di tuffarsi – ahi! solo a tratto a tratto – nel passato? Un bello e leggibile libro sul travaglio faticoso attraverso al quale l’Italia passò dalla economia patriarcale, agricola, artigiana, spezzettata della seconda metà del settecento alla economia moderna industrializzata, un po’ per iniziativa di imprenditori coraggiosi ed un po’ grazie alla protezione (oggi si direbbe «ai piani») offerta dallo stato ai più procaccianti ed abili a provocare ed a giovarsi delle influenze politiche. Il libro del Tremelloni è, a tratti, pervaso da un senso umano di impaziente rimpianto su quel che si sarebbe potuto fare prima del tempo in cui si fece, e di querimonia affettuosa sulla situazione arretrata della economia italiana in confronto alle economie forestiere. Sono sentimenti, che io non oserei dire antistorici, perché rispecchiano fedelmente le lagnanze e le aspirazioni dei contemporanei. Chi scrive e stampa è quasi sempre un critico del presente ed un eccitatore a cose nuove; e lo storico moderno è tratto a guardare i fatti passati con gli occhi del contemporaneo il quale antevedeva l’avvenire, particolarmente se l’avvenire auspicato dal contemporaneo divenne poi realtà.
Tuttavia, nel libro del Tremelloni, i rimpianti, le aspirazioni e le critiche non giungono quasi mai a solidificarsi in uno schema generale di interpretazione della storia economica. Talvolta affiorano spunti di schemi marxistici, sombartiani, economistici. Ma, per fortuna, l’Italia è un paese troppo vario e ricco di fatti singolari; le fonti utilizzate si inspirano a ideologie così differenti, che lo schema non ha tempo di inaridire la narrazione e renderla noiosamente scolastica. Tutto al più lo spunto eccita a negare e più raramente a consentire; e la varietà degli spunti critici stimola a pensare ed a discutere.
Per un libro di storia economica la virtù stimolatrice è gran pregio; probabilmente, come per i libri di teoria, quello di più ardua consecuzione. I libri i quali non stimolano a nulla, non a consentire, non a riflettere, non a correggere, e neppure a contraddire o ad approfondire, è come non fossero mai stati scritti. Chi legga le pagine di Tremelloni non può non sentire lo stimolo della curiosità scientifica. Che è la generatrice della sapienza.