Prefazione – Nitti, Scritti sulla questione meridionale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1958
Prefazione – Nitti, Scritti sulla questione meridionale
Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, vol. I, Saggi sulla storia del Mezzogiorno, emigrazione e lavoro (1888-1909), a cura di Armando Saitta, Bari, Laterza, 1958, pp. IX-XIV
I primi rapporti miei con Nitti risalgono alla fine del secolo scorso quando egli, fondatore nel 1894 e direttore, insieme con Luigi Roux, della rivista “La riforma sociale”, volle, dopo qualche anno, che io mi occupassi della cucina della rivista, la quale si stampava a Torino dalla casa editrice di Roux e Viarengo. Poi, lui e Roux, distratti da altre cure, mi dettero nome di redattore e poi di direttore della rivista, la quale, senza mutar nome, mutò a poco a poco di indirizzo, apprezzò maggiormente l’economia classica e, pur non trascurando i problemi di riforme nella distribuzione della ricchezza, prese ad insistere maggiormente sui problemi di convenienza nella produzione e di lotta contro le tante specie di protezioni, di vincoli e di monopoli, i quali tendevano e proseguono ancor oggi nel tentativo di appropriarsi e così di ridurre la torta comune che si tratta di dividere fra i vari gruppi produttivi.
Ai rapporti quasi d’ufficio seguirono poi i rapporti quasi personali; ed io lo ricordo quando, entrambi giovani liberi docenti, ed egli, già pubblicista di bella fama soprattutto a causa del libro sul “Socialismo cattolico”, uno dei best-sellers di quel tempo, venne a Torino a tenere in un teatro una conferenza. Il pubblico non era numerosissimo, ma bastevole; e la conferenza fu un successo a cagione della eloquenza di Nitti, tutta diversa da quella piemontese di allora. Il pubblico nostro, sebbene già addestrato dalla pratica asciutta e semplice di Giolitti ad entrare subito nell’argomento e chiudere quando si era finito di trattarlo (si sa che ad un deputato nuovo, il quale gli chiedeva consiglio sul modo di comportarsi la prima volta che avesse aperto bocca a Montecitorio, Giolitti rispose: chiel, quand c’a l’ha quai’cosa da di, c’a ciama la parola, c’a s’aussa e quand l’a fornì d’spieghesse, c’as seta), era però ancora attaccato alle forme e costumato all’esordio, al discorso propriamente detto ed alla mozione degli effetti; e fu perciò sorpreso e lieto nel vedere quel giovane meridionale, rosso in viso e familiare nel tratto, parlare a periodi staccati; senza esordi e conclusioni, quasi discorresse fra amici; allietando gli uditori con allusioni scherzose e benevoli punture. Uscendo ci accompagnammo ed a meassuefatto alla reverenza dovuta agli uomini politici di cartello ed ai maestri più acclamati nelle cose economiche, seppero di nuovo e di fresco i ritratti dal vero che egli mi andò facendo spregiudicatamente di coloro che allora erano i nostri giudici nei concorsi universitari.
Il concorso egli lo vinse prestissimo in quella Napoli che era allora, prima che nascesse Bari, la sola città universitaria del mezzogiorno continentale. Fu una lotta epica, in cui si batterono colossi della polemica scientifica. Chiamato Augusto Graziani alla scienza economica e Napoleone Colajanni alla statistica, rimasero in lotta Francesco Nitti e Ugo Mazzola per la scienza delle finanze. Chi sfogli i quaderni de “La riforma sociale” e del “Giornale degli economisti” di quell’epoca troverà le tracce stampate dei colpi senza quartiere che si scambiarono i due lottatori (altri erano in lizza, ma non contavano). Erano amendue meridionali; amendue forniti di ingegno prontissimo e di penna dalla punta acuminata. Nessuno dei due aveva, in un epoca nella quale correva voce i titoli si valutassero a peso, grossi malloppi nel proprio bagaglio. Il fatto dimostrò che la leggenda del peso era inventata; che i giudici si fermarono subito sui nomi del Mazzola, meglio quotato come teorico, e del Nitti, più apprezzato per la analisi di problemi contemporanei; e la palma, con onore di entrambi, rimase al Nitti, il quale, finché visse, salvo l’intervallo della tirannia fascistica, coprì onoratamente la cattedra di finanza del grande ateneo napoletano.
Lo rivedo, anni dopo, deputato e subito, in un gabinetto Giolitti, ministro di agricoltura, industria e commercio, di nuovo a Torino, ad occasione di non so che discorso politico, che, naturalmente, per la maggior fama e carica dell’oratore, ebbe un successo notabilissimo, anche di pubblico.
Eravamo alla vigilia della discussione del disegno di legge che Nitti aveva proposto e Giolitti fece suo, di monopolio dell’assicurazione sulla vita; e, nel discorrere, l’amico ministro insisté soprattutto, con la consueta bonomia ironica, sulla necessità di dare un colpo d’ascia sul tronco di talune grosse organizzazioni feudali le quali si erano impadronite dell’industria assicurativa. Io, che avevo visto crescere in Italia, come altrove, in poco meno di cent’anni quei grossi feudi sul fondamento del mettere da parte del tutto gli utili industriali – che è la condotta ancor oggi seguita dalle imprese assicuratrici le quali non vogliono fallire – e del distribuire in dividendi solo il reddito dei patrimoni così lentamente formati, ero scettico sull’attitudine di un Istituto statale ad imitare una pratica così austera; e pensavo: sparagnini si nasce o si diventa per educazione in imprese rimaste di generazione in generazione nei medesimi gruppi ristretti, e non per virtù di concorsi in impieghi semipubblici. E per tutto quel tempo ci trovammo, Nitti in parlamento ed io sul “Corriere della sera” ai lati opposti della lotta pro e contro il monopolio; che poi finì in un compromesso, come accade in paesi dove la discussione non mira alla morte della tesi opposta, sì alla vittoria del vero, il quale di rado è il privilegio di una sola delle parti.
Presidente del Consiglio nel 1919, Nitti ricevette, una mattina di primavera, il senatore Luigi Albertini, il quale si era persuaso, in seguito alla mia descrizione degli uomini, che la più urgente riforma tributaria fosse di fatto la mutazione del direttore generale delle imposte dirette e ciò, per parlare in linguaggio appropriato, senza usare parole prive di senso, come dirette o indirette, delle imposte sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile, sui sovraprofitti di guerra e sulla complementare allora esistente. Di leggi di imposta ce n’erano già allora fin troppe e col passare del tempo e dei regimi son cresciute invece di diminuire, ed erano divenute, dopo le prime chiare e semplici del decennio dopo il ’60, sempre meno redditizie. Quel che bisognava non era e non è farne delle nuove ad imbrogliare la matassa; ma applicarle per mezzo di uomini capaci ed operosi. Il direttore generale in carica era un brav’uomo, il quale desiderava finire i suoi giorni di funzionario come consigliere alla Corte dei Conti. Così fu fatto; ed al luogo suo Nitti chiese, dietro consiglio di Albertini, al collega delle finanze, on. Tedesco, di passar sopra alla gerarchia ed alle consuetudini e di nominare direttore generale Pasquale d’Aroma, giovane direttore di un semplice ufficio esecutivo, quello di Torino. Tedesco non badò al malcontento dei suoi funzionari e il mattino seguente il ministero delle finanze era a rumore e d’Aroma insediato nella carica.
Fu scelta felice; la quale durò poco, ché il valore dell’uomo ne consigliò la nomina a vice direttore generale della Banca d’Italia con Stringher direttore generale, non ancora governatore, carica allora ignota. D’Aroma sarebbe salito ancora, se la malattia, dovuta anche alla diuturna fatica, non ne avesse stroncata la vita in fresca età. Con quella nomina, Nitti dimostrò che egli non solo era il titolare della cattedra napoletana e autore del diffusissimo trattato di scienza delle finanze, ma conoscitore del congegno vero della amministrazione finanziaria, che sono gli uomini ad essa preposti. In quel colloquio Nitti, dimenticando la mia ostinata opposizione al suo disegno di legge per il monopolio delle assicurazioni sulla vita – discussione e compromesso non sono forse la sostanza medesima dei governi liberi? -, aveva promesso altresì ad Albertini che sarei stato nominato senatore. La infornata tardò sino al novembre; ma nell’elenco era incluso il mio nome, del quale nessuno aveva parlato ed egli avrebbe potuto benissimo dimenticare.
Per la nomina a senatore, gli fui sempre grato, sicché quando vennero giorni tristi ed egli dovette andare in esilio, la prima visita che feci, ad occasione di una seduta dell’Istituto internazionale di statistica in Parigi, fu a casa sua. Dove lo riscontrai sempre sereno e fiducioso nella non lontana caduta del regime. Derivava questa sua fiducia dallo studio assiduo del conto del tesoro, da cui deduceva la dimostrazione del peggioramento crescente della situazione finanziaria italiana. Non era il solo a professare siffatta ragionata persuasione; ed a Torino viveva un altro attento lettore di quell’istruttivo foglio mensile, che poi il regime, sospettoso che altri chiarisse la verità, che il conto del tesoro poteva mascherare, ma non tacere – i conti dello Stato, come quelli di una qualsiasi impresa economica, debbono per avventura quadrare, ed è impossibile inventare scritture le quali vietino agli uomini periti di scorgere l’artificio nella quadratura – non soppresse ma più non divulgò; e quel lettore, peritissimo nella lettura dell’arido documento, era anche lui persuaso della impossibilità per il regime di durare a lungo in una situazione finanziaria artificiosa; ed aveva comunicata la sua convinzione ad un amico, anche lui senatore, il quale avrebbe voluto persuadere me. Ero e rimasi sempre scettico; ché le vie le quali conducono all’inferno sono moltissime e sarà sempre possibile ad un dittatore di alimentare, con opportune non chiare taglie sui sudditi, un nerbo sufficiente di giannizzeri armati e di caudatari turibolanti capaci di tenere a segno la popolazione e di persuaderla di vivere nel migliore dei modi possibili. Il che non vuol dire che sia sempre necessaria la disfatta militare per mandare a spasso i dittatori, come accadde per Mussolini e per Hitler; vuol dire che non bastano le due e forse neanche le tre generazioni perché all’interno nascano le forze necessarie a restituire libertà ai popoli. Su di che si continuò a discutere quella sera sino ad ora tarda; e, poiché la discussione era pacata ed a voce tranquilla, le nostre due buone signore a fatica resisterono, sicché ad un certo punto, con un pretesto, chiesero licenza di allontanarsi e ridottesi in altra stanza decisero di buon accordo, avendo dopo la mezzanotte esaurito la capacità del discorrere, di non resistere al sonno, il quale durò sino a quando le richiamammo perché potessimo, noialtri, ritornare all’albergo.
E, nel giardino di un albergo a Fiuggi lo rividi nel 1945 al ritorno in patria e sedetti poscia spesso vicino a lui durante le sedute della Consulta e della Costituente. Alla quale fummo eletti, io in due e lui forse in tre collegi elettorali; che fu un giusto riconoscimento della stima amplissima che di lui avevano gli elettori e un doveroso riconoscimento per le ingiuste accuse a lui rivolte da poeti immaginosi e da nazionalisti provinciali.
L’uomo non era mutato; e se prima del 1922 l’amico Ruffini aveva potuto dirmi che Nitti era il solo parlamentare capace, con motto appuntito o con ironia appropriata, di ridurre al silenzio l’uomo impronto o di demolire un ministro o anche un ministero, dopo il 1945 la parola sua, in un mondo di uomini nuovi, venuti alla ribalta od entrati nella vita politica per vie diverse da quelle consuete nei collegi uninominali, non tramortiva più sebbene fosse ascoltatissima. Gli avversari, i quali lo avrebbero eccitato alla lotta, erano oramai pochi ed annegati in grosse o piccole formazioni compatte, dette partiti; quanto diverse dai gruppi mutevoli di un tempo, i quali consentivano all’uomo di marca di trarre consensi e di togliere amici all’emulo! In una situazione nuova, nella quale era difficilissimo riuscire ad avere un seguito personale, la voce di Nitti ebbe risalto soprattutto per l’appello alla concordia, all’unione degli uomini di buona volontà per perseguire fini comuni, vantaggiosi all’universale. L’appello alla concordia riscuoteva bensì pienezza di plausi; ma scarso era il consenso degli atti e dei vuoti. Anche quando, per il nuovo Senato, egli riuscì a far approvare il principio del collegio uninominale, i partiti riuscirono a far scempio di quel voto opponendo ad esso riserve siffatte da ridurlo a mera ombra.
Eppure, se quel proposito di Nitti fosse stato attuato, Il Senato della Repubblica avrebbe avuto un volto suo proprio; e molte critiche che ora, non senza fondamento, si rivolgono al quasi doppione dell’altra Camera, cadrebbero con vantaggio della cosa pubblica.