Prefazione – M. Soleri, Memorie
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1949
Prefazione – M. Soleri, Memorie
Marcello Soleri, Memorie, Einaudi, Torino, 1949, pp. 11-14
La lettura di queste Memorie dà un’idea viva di quella che era la miglior parte della classe politica la quale governò l’Italia durante il tempo giolittiano.
La politica era una carriera, che si sviluppava durante parecchie generazioni: il bisnonno di Soleri agricoltore, di quelli che noi piemontesi della provincia di Cuneo chiamiamo «particolari», e cioè contadini i quali coltivano la terra propria e talvolta, trovando tra i figli uno più degli altri voglioso di imparare, gli fanno proseguire gli studi oltre le elementari. Il nonno di Soleri era così diventato notaio a Dronero, in un’epoca in cui di notai nei più grossi borghi ve n’erano tre o quattro e tutti vivevano decorosamente, senza la pretesa di far abolire le altre «piazze» di notaio, per concentrare in sé tutti gli affari – come oggi accade per notai e farmacisti – ; e riuscivano a far studiare convenientemente i non pochi figli.
Così il padre di Soleri, Modesto, divenne ingegnere capo della provincia di Cuneo; adempì onorevolmente all’ufficio, guadagnandosi la stima universale; partecipò alle discussioni su problemi locali (di lui conservo una monografia sulle vie di comunicazione nella nostra provincia); accolse il nuovo verbo socialistico del periodo evangelico deamicisiano; difese i perseguitati da Crispi nel 1895 e subì procedure e minacce di confino. Dei figli, Elvio e Marcello, il primo, ingegnere, tenne incarichi di insegnamento nel Politecnico di Torino ed è ancor oggi professionista distinto; il secondo, sin dai primi anni si palesò predestinato alla vita politica.
Lo ricordo studente alto, prestante, il volto maschio e bello, gli occhi penetranti, i folti capelli al vento, passare di esame in esame strappando i trenta e le lodi a professori che non osavano dubitare neppure un istante che quelli non fossero i voti dovuti a chi, dal consenso unanime dei compagni, era indicato come il primo fra tutti. Ritornato a Cuneo nel 1904, un anno dopo la laurea, percorre ad una ad una le tappe della carriera politica: quasi subito membro della Giunta provinciale amministrativa, nel 1912 consigliere comunale capolista e perciò a trent’anni sindaco della sua città natale; nel 1913, deputato al parlamento, dopo una campagna rimasta memoranda nella provincia, contro il deputato uscente
Tancredi Galimberti, ex ministro e uomo di varia cultura e d’impetuosa eloquenza. L’avanzamento nella carriera politica, non improvviso come usò poi durante il ventennio, bensì meritato per la buona prova data in ognuno degli uffici coperti, è narrato con verità e semplicità dall’autore e non accade di ritornarci sopra. Quel ch’egli non dice, se non per fugaci accenni, sono le ragioni del suo ascendere. Tra esse l’ambizione non era, come in troppi di quel tempo ed ahimè! di tutti i tempi, l’unica spiegazione del desiderio di cariche più alte di quelle coperte.
Chi non ha aspirazioni di salire, è inutile intraprenda, come ogni altra, la carriera politica. Ma l’ambizione era resa legittima dalla soda preparazione, dal fervore posto nel far bene il lavoro proprio del sindaco, così da rendersi degno della deputazione, dallo studio consacrato alla elaborazione dei discorsi prima di ambire al compito di relatore di disegni di legge, dalla diligenza nelle sedute delle commissioni parlamentari innanzi di aspirare alla carica di sottosegretario o di commissario, dal duro lavoro compiuto per provvedere all’alimentazione del paese in tempi calamitosi prima di presumere di salire al posto di ministro, due volte conquistato, prima del fascismo, alle finanze e alla guerra, e riavuto al tesoro, dopo la caduta del regime. L’ambizione era nutrita di buoni studi.
Nel tempo giolittiano, i «teorici» erano per lo più tenuto in poco conto; e gli spregiatori avevano ragione di scansare i dottrinari, ripetitori di teoremi libreschi e lontani dai necessari legami con la realtà; ma avevano torto quando pretendevano di compensare col senso «comune» la mancanza di ogni preparazione scientifica. Soleri non affettava, come non pochi suoi contemporanei, di essere un «pratico»; e, rispettoso della scienza e avido di apprendere, col «buon» senso traeva dalle discussioni e dalle proposte dei teorici utili insegnamenti per il suo operare pratico. Ossequente alle tradizioni, chiudeva l’avviato studio forense durante gli uffici ministeriali; né si lagnava quando, nel dopoguerra, la esiguità delle retribuzioni assegnate all’ufficio di ministro lo costringeva a consumare parte dei risparmi messi insieme grazie all’operoso lungo esercizio della professione.
Due fatti della vita di Soleri non potranno essere dimenticati, Le Memorie, avvincenti per la semplicità del dettato e per i frequenti riferimenti di bonarie ironiche osservazioni di uomini politici su sé stessi e sui colleghi, fanno rapida menzione del primo: che fu l’abolizione del prezzo politico del pane, voluta da Giolitti, ma fatica peculiare di Soleri, il quale riuscì, dopo defatigante discussione, a farla approvare con la legge del 27 febbraio 1921. Si sarebbe potuto allora dire con verità – ma fu detto poi, arrogandosi il merito altrui, dai fascisti – che la finanza italiana era salva e il disavanzo scomparso; e invero i pochi miliardi di disavanzo ancora esistenti riguardavano spese residue belliche, destinate a scomparire gradatamente. Il secondo non dimenticabile fatto fu il consapevole sacrificio di se stesso alla cosa pubblica, sino alla morte, durante il suo ultimo ministero al tesoro.
Chi gli era vicino, sapeva che egli troppo spesso attendeva all’estenuante lavoro quotidiano, partecipava ai consigli dei ministri, convocava comitati consultivi, discuteva con i controllori alleati in stato febbrile; ma né la constatazione di temperature sui 38, 39 e persino sui 40 gradi centigradi, lo distoglievano dall’adempimento di quello che egli reputava dovere. Intuiva di essere vittima di una malattia inesorabile; e tuttavia, illudendosi, riceveva, pur tenendo il letto, funzionari, capi di amministrazioni finanziarie, ministri.
Erano, quelli del 1945, giorni paurosi per il tesoro italiano: con le entrate quasi nulle e le spese formidabili e crescenti ed incalzanti. Il lancio del primo prestito postbellico fu seguito, grazie alla sua parola precisa resa avvincente da un fervido «pathos» patriottico, da un successo insperato. Chi lo udì invocare, bianco in volto e quasi morente, ma con la calda appassionata voce di sempre, il concorso di tutti per la salvezza del paese, ebbe netta la sensazione che quel discorso fosse l’ultimo messaggio agli italiani di un uomo probo, ansioso soltanto di servire la patria sino all’ultimo respiro. Se martiri sono quelli i quali si immolano per la causa giusta, quello di Marcello Soleri bene può essere detto il sacrificio di un martire.