Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – E. Abate, La diversificazione tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1918

Prefazione – E. Abate, La diversificazione tributaria

Ettore Abate,La diversificazione tributaria e l’imposta sul reddito, Borgo S. Lorenzo, Tip. Mazzocchi, 1918, pp. 7-12

 

 

 

L’autore di questo libro ha voluto farmi l’onore di chiedermi alcune righe di presentazione. In verità queste non sono necessarie, poiché è universalmente noto come la diversificazione delle imposte sia uno degli argomenti più importanti e più suggestivi della scienza tributaria e nel tempo stesso uno di quelli su cui le idee sono non di rado meno chiare e su cui fa difetto in Italia una trattazione ampia e precisa.

 

 

L’Abate ha studiato il problema con passione e con profondità; ha fatto suo pro della legislazione tributaria nei paesi e nelle epoche più diverse e presenta al lettore una messe amplissima di fatti, i quali giovano a correggere dottrine pacifiche ed a criticare vecchi e nuovi provvedimenti di governo.

 

 

Egli non si limita a studiare il concetto della diversificazione nelle classiche applicazioni che ne furon fatte per distinguere nel medesimo tributo i redditi a seconda della loro indole, di cui l’esempio più vicino a noi e meritamente più celebre è quello della distinzione in redditi di capitale, misti e di lavoro, accolta nella italiana imposta di ricchezza mobile; ma lo persegue nelle sue più svariate ed inopinate forme, nelle imposte singole e di sovrapposizione ed anche ne indaga l’operare nel complesso di un sistema tributario e nelle correzioni che l’una imposta, se anche non dicasi di sovrapposizione o complementare, apporta all’incidenza delle altre, per il solo fatto di coesistere con esse nello stesso tempo e nello stesso luogo.

 

 

Né – come ben dimostra l’A. – si diversifica soltanto in rapporto all’origine del reddito: di lavoro o di capitale, guadagnato o non guadagnato, ma anche rispetto all’uso del reddito (a favore delle migliorie agricole), al luogo dove il reddito si consuma (contro gli assenti), alle classi sociali che ne godono (case popolari, metropoli e colonie, cittadini e contadini, affittuari o mezzadri), all’appartenenza politica (cittadini e stranieri), agli ideali di organizzazione sociale (piccoli e grandi magazzini.)

 

 

Due capitoli oltremodo interessanti ha dettato l’Autore sui precedenti legislativi della diversificazione in Inghilterra ed in Italia. Ritornando sulla controversia dibattuta dal 1830 al 1860 in Inghilterra e che già era stata fatta conoscere agli Italiani dal Di Broglio, nelle sue classiche lettere al conte di Cavour sull’imposta sulla rendita in Inghilterra e sul capitale negli Stati Uniti (Torino, 1856-1857), assai opportunamente l’Autore la riesuma e la fa rivivere, sottoponendo ad accurata critica le soluzioni poscia adottate a gran distanza di tempo, nel 1907. Sovratutto è merito dell’Abate di avere riesumato le discussioni parlamentari avvenute in Italia al momento della introduzione dell’imposta di ricchezza mobile (1864): tra le più alte di cui si onori il Parlamento italiano. Sul fondamento storicamente assodato della diversificazione adottata in Italia, l’Autore confuta le obbiezioni che contro di essa furono elevate da scrittori anche insigni.

 

 

Ma la conclusione più importante a cui giunge l’Autore – corredandola di ampie prove nei due ultimi capitoli del suo libro, il IX e il X – è questa: la diversificazione non solo deve applicarsi nelle imposte particolari sui redditi, ma benanco nella imposta generale e personale sul reddito complessivo del contribuente. E qui egli si addentra entro i meandri dei molteplici e sottili problemi che l’applicazione del criterio diversificativo alla imposta personale sul reddito complessivo (la cosidetta globale) fa sorgere. Coloro i quali pensano che la costruzione di una buona imposta sul reddito sia cosa agevole, leggano e meditino le pagine dell’Abate.

 

 

Io rimango persuaso che il modo praticamente o tecnicamente migliore per applicare il criterio diversificativo all’imposta personale sul reddito sia di non tener conto della diversa natura dei redditi – salvo casi particolarissimi e salvo le detrazioni per assicurazioni, carichi di famiglia e simili – in sede di imposta sul reddito; ma di sovrapporre a questa una imposta patrimoniale. Se ben regolati i rapporti tra le due imposte, se esatti i metodi di accertamento, la sovrapposizione sembra a me il metodo di gran lunga più perfetto, pieghevole e corretto di attuare il concetto diversificativo; come quello che riesce a far variare, a parità di reddito, il carico tributario non soltanto in funzione di tre o cinque o dieci categorie arbitrariamente scelte dal legislatore, ma in funzione di un numero indefinito di categorie, ognora cangianti a seconda delle valutazioni del mercato. La diversificazione conseguita in seno all’imposta medesima sul reddito è imperfetta perché suppone che davvero le differenze fra reddito e reddito siano solo quelle tre o cinque o dieci che il legislatore ha determinato, fissandole, per giunta, per un periodo praticamente lunghissimo di anni. Mentre invece le differenze e quindi le ragioni di trattare diversamente redditi del medesimo ammontare sono assai più e variano continuamente. La sovrapposizione di un’imposta patrimoniale risolvenel modo più elegante e perfetto il problema; poiché, mentre l’imposta sul reddito tassa il complesso dei redditi, data l’altezza sua, col 5%, ad esempio, senza preoccuparsi della loro diversa indole, l’imposta patrimoniale, sebbene in apparenza costante, supponiamo del 2 per mille, torna a tassare gli stessi redditi con aliquote diversissime, le quali digradano, ad esempio, dal 0 al 5%, per differenze infinitesime. Il zero per cento corrisponderà ai redditi di lavoro, a cui non corrisponde verun capitale; il tasso del 5% ai redditi dei capitali più sicuri, più stabili, più apprezzati dal mercato. E tra i due vi è una infinita varietà di aliquote sul reddito, determinate dalla valutazione che ad ogni singolo momento il mercato dà del valore dei capitali in rapporto al reddito che ne fluisce. A parità di reddito sarà massima la valutazione del capitale per le cartelle di credito fondiario, minima per il bottegaio, il cui fondo di magazzino è poca cosa in confronto alla sua energia di lavoro, come fonte produttiva di reddito. Ed il possessore di cartelle per ogni 4 lire di reddito pagherà 20 centesimi di imposta patrimoniale, ossia il 2%. sul capitale 100 ed il 5% sul reddito 4; il bottegaio per ogni 4 lire di reddito a cui il mercato fa corrispondere soltanto 10 lire di capitale, pagherà 2 centesimi di imposta patrimoniale, che è sempre il 2%. sul capitale, ma è solo il 0.50% sul reddito. Sembra a me impossibile ed assurdo che il legislatore possa con sue più o meno arbitrarie classificazioni avvicinarsi neppure da lontano alla perfezione della diversificazione operata dal mercato coi valori diversi capitali attribuiti allo stesso reddito; e sembra quindi a me che la diversificazione attuata mercé una complementare patrimoniale sia assai più corretta di quella ottenuta classificando il reddito in categorie nella stessa imposta sul reddito. Il metodo da me preferito evita inoltre taluno dei sottili problemi che l’Abate si indugia a discutere e risolvere; e colloca finalmente nella sua vera luce quella imposta patrimoniale che tanti storditi reclamano oggidì solo perché le gazzette discorrono delle sue presenti o divisate applicazioni forestiere. Ma questa, che è una semplice divergenza tecnica intorno al modo migliore di applicare il concetto informatore della diversificazione, non vuol essere una critica all’opera dell’Abate. Anzi suona lode per lui che il suo scritto possa fornire alimento a discussioni feconde e recare luce nella soluzione di taluno dei più gravi problemi che il dopo guerra ci apparecchia.

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