Prefazione – A. Filipic, La Jugoslavia economica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1922
Prefazione – A. Filipic, La Jugoslavia economica
Antonije Filipic, La Jugoslavia economica, Treves, Milano, 1922, pp. VII-X
Il libro, che il dottor Antonije Filipic scrisse prima come dissertazione di laurea nella Università Commerciale Bocconi e pubblica ora ampliato e arricchito di nuovi dati, merita di avere molti lettori in Italia. Noi abbiamo visto sorgere accanto a noi questo nuovo Stato, conglomerato di province avulse in pochi anni da quattro Stati differenti – Austria, Ungheria, Montenegro e Turchia – e riunite intorno ad un piccolo Stato nazionale, la Serbia, che era come il Piemonte della nuova Nazione. Altri ha descritto le ragioni etniche, linguistiche e culturali della nuova formazione statale.
Il Filipic ne descrive le ragioni economiche. In verità, dal libro risulta evidente quanto lungo cammino debba ancora percorrere la Jugoslavia per diventare uno Stato economicamente uno e compatto. Statistiche, istituzioni, strade, ferrovie, porti hanno ancora tendenze centrifughe. I vecchi Stati li avevano foggiati per raggiungere scopi propri, contrastanti a quelli degli altri vicini; ed il nuovo Stato deve compiere un’opera gigantesca per dare unità a forze create per osteggiarsi.
Dal punto di vista scientifico, il libro del Filipic è una illustrazione interessante della grandissima influenza che le formazioni statali esercitano sulla struttura economica di un paese. I vecchi Stati favorivano, a cagion d’esempio, le aristocrazie mussulmane, tedesche o devote, nonostante le origini slave, alla Monarchia Absburghese. Mentre la Serbia indipendente era un paese di contadini serbi proprietari, nella Vecchia Serbia e nella Macedonia dominavano i latifondisti mussulmani, e nella Bosnia-Erzegovina la Monarchia si serviva della preponderanza fondiaria mussulmana per tenere a segno i coloni slavi.
In Dalmazia, sebbene la proprietà fosse frazionata, una parte non indifferente della terra spettava alla borghesia italiana delle città; e nella Croazia erano largamente rappresentati i grandi possessi organizzati industrialmente. Il nuovo Stato vide che era interesse politico suo cattivarsi la grande massa dei contadini slavi; di qui una legge sulla espropriazione coattiva dei latifondi ed in genere dei terreni non coltivati direttamente dai proprietari, la quale d’un tratto mise i coloni al posto dei vecchi padroni del suolo. Probabilmente fu questo un errore economico grave, specie laddove, come nella Croazia, nella Dalmazia e nella Vojvodina, il medio e grande possesso erano stati causa di importanti e benefiche trasformazioni culturali, a cui il contadino serbo è impreparato. Il Filipic, pur sperando nell’avvenire, è tratto a confessare che la produzione agraria è diminuita in conseguenza della violenta rivoluzione agraria, ma, come in Irlanda, il fatto politico prevale sul fatto economico. è lo Stato Jugoslavo, il quale vuole indebolire le aristocrazie proprietarie allogene e rafforzare il potere della classe contadina, non tanto perché contadina, quanto perché etnicamente serba.
Per noi italiani il libro è soprattutto degno di essere letto per le informazioni abbondanti ed attinte a fonti di prima mano sulla produzione agricola, industriale e mineraria, sui commerci e sulle vie di comunicazioni del vicino Stato. Egli crede che Italia e Jugoslavia siano due Stati economicamente conglomentari, più che concorrenti. Il che non è in tutto vero; e ne sono prove gli stessi giudizi dell’autore sfavorevoli all’antica clausola di favore per i vini italiani introdotti nell’Austria-Ungheria ed ai diritti accordati dall’Antica Monarchia ai pescatori chioggiotti. Ma in gran parte è vero: la Jugoslavia, colla sua prevalente produzione forestale, con i suoi prodotti cereali e animali, colle sue miniere può diventare un ottimo nostro provveditore; ed a sua volta può essere un grande consumatore di cotonate, lanerie, canapa ed altri prodotti italiani. La situazione commerciale della Jugoslavia va sistemandosi; mentre nel 1919 l’importazione stava all’esportazione come 4,34 a 1, nel 1920 le importazioni toccarono 3465 milioni di dinari contro 1230 milioni di esportazioni e nei primi nove mesi del 1921 le due cifre furono 3076 e 2460 milioni rispettivamente. A questo traffico l’Italia ha interesse di partecipare ottimamente.
Ma per sfortuna, mentre nel 1920 l’Italia teneva il primo posto col 36,59 per 100 delle importazioni totali nella Jugoslavia, e venivano in seguito l’Austria Tedesca col 20,60 per 100, la Cecoslovacchia col 9,28 per 100, la Grecia col 9,11 per 100, l’Inghilterra col 7,05 per 100 e la Francia col 3,82 per 100, nei primi nove mesi del 1921 l’Austria Tedesca balza al primo posto col 26,60 per 100, noi discendiamo al secondo col 21,76 per 100, la Cecoslovacchia ci stringe da presso col 20,54 per 100, e la Francia sale al 5,04 per 100.
Scemano, con noi, l’Inghilterra al 6,30 per 100 e la Grecia al 6,38 per 100. La penetrazione nei Balcani, attraverso la Jugoslavia, è dunque da intraprendere nuovamente con sforzi perseveranti e con accordi fecondi, lealmente mantenuti da ambo le parti, intorno ai porti, alle dogane, alle procedure commerciali, alle tariffe ferroviarie. Perché questi accordi siano stipulati e migliorati, fa d’uopo però conoscerci reciprocamente. A questa conoscenza reca un contributo importante il libro che ho il piacere di presentare al pubblico italiano.