Opera Omnia Luigi Einaudi

Introduzione – H. Wallace, Che cosa vuole l’America?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1934

Introduzione – H. Wallace, Che cosa vuole l’America?

Henry A. Wallace, Che cosa vuole l’America?, Einaudi, Torino, 1934, pp. 11-37

 

 

 

Il piccolo libro che qui si presenta al pubblico è di singolar pregio. Scritto da un ministro in carica del gabinetto del presidente Roosevelt, ha suscitato negli Stati Uniti interesse grandissimo, perché rispondeva al desiderio degli americani di capire finalmente qualcosa della nuova politica, inaugurata col nome di New Deal, il 4 marzo del 1933. Il Wallace, che, prima di essere ministro per l’agricoltura, insegnò economia agricola e diresse cooperative ed organizzazioni agricole, fa parte in verità del gruppo dei consiglieri (brain trust) di Roosevelt, al quale l’opinione pubblica degli Stati Uniti e quella mondiale imputano talune stravaganze e parecchia incertezza misteriosa di propositi. Il ricordo della missione Moley a Londra e della politica dell’acquisto di oro a prezzi crescenti del Warren mi avevano perciò reso diffidente quando cominciai a leggere. A mano a mano che andavo innanzi il compiacimento invece crebbe, sicché alla fine mi decisi a tradurre il libretto.

 

 

In verità noialtri economisti dovremmo serbare qualche rancore al Wallace. Non ci tratta con i guanti ed ha l’aria di dire che complichiamo le cose semplici per il gusto di imbrogliare la testa dei lettori. Riespone, quasi egli le scoprisse, verità anticamente scritte nei trattati elementari della scienza. Chi legge potrebbe anche immaginare che, innanzi al 4 marzo 1933, nessuno avesse negli Stati Uniti capito nulla della via da seguire per dare prosperità al paese.

 

 

Dico che gli economisti, i quali non sanno perdonare queste innocentissime arti di governo agli uomini politici e soprattutto a chi, come il Wallace, si distingue fra gli uomini politici perché sa ciò che vuole e conosce le ragioni del suo volere, non comprendono nulla delle vie del mondo. A torto od a ragione, il pubblico diffida degli uomini nati e vissuti tra libri; li reputa «professori» buoni per insegnare agli studenti cose inutili per la vita, teorici disadatti alla pratica. Camillo di Cavour, che osava far appello in Parlamento ai classici economisti inglesi, fu un miracolo, forse unico nella storia; ma forse anche gli ascoltatori si rassegnavano alle lezioni impartite da tanta cattedra parlamentare perché si sapeva che egli, da cadetto povero di famiglia nobile, s’era fatto da sé milionario e dubitavasi che dietro le citazioni di Smith, di Ricardo e di Say ci fosse qualche ricetta per arricchire.

 

 

Poiché sui miracoli non si può fare assegnamento, conviene che gli economisti si rassegnino ad essere saccheggiati e svillaneggiati per giunta. Gran mercé quando villania ci è detta garbatamente, come fa il Wallace. Importa che la verità sia detta, non importa affatto che sia detta in nome dei sacri testi economici. Il libro del Wallace ebbe fortuna straordinaria negli Stati Uniti perché l’autore spiega agli americani, con linguaggio aprofessorale ed antiaccademico, l’errore della loro condotta economica, la assurdità ingenua del volere conseguire fini contradditori e pone apertamente e brutalmente dinanzi ai loro occhi le due politiche che essi possono seguire, ammonendoli che essi non possono seguirle amendue contemporaneamente e non possono neppure di nessuna delle due pretendere di ottenere i vantaggi senza sopportare i costi. Naturalmente, il Wallace nel compiere la sua opera di predicatore serio onesto sincero adopera i mezzi oratori proprii al suo paese: citazioni bibliche, tono sentimentale romantico, pathos religioso. L’oratoria italiana non è quella anglosassone. Quella del Wallace soddisfa alla esigenza essenziale di essere sentita.

 

 

Credo al lettore italiano piacerà la lettura a cui lo invito. Giova conoscere quel che altri pensa, principalmente quando lo scrittore è tra coloro i quali fanno la politica del proprio paese e questo paese è uno dei maggiori stati del mondo. Dubito che tra noi corrano idee molto precise su quel che gli Stati Uniti vogliono; e come potrebbero correre se neppure oltre Atlantico si sa bene che cosa si deve fare? Frattanto, poiché l’azione commerciale doganale industriale agricola nostra è in funzione di quella straniera, come questa della nostra, è di importanza somma sapere quel che gli americani vogliono, conoscere la meta a cui essi sono indirizzati.

 

 

Qualunque sia il giudizio che di quel moto noi vorremo fare, fa d’uopo prima sapere in che esso consista, quale sia la meta che gli americani vogliono raggiungere o quali le mete fra le quali essi rimangono incerti. Potrebbe darsi che a spingerli lungo la via a noi più favorevole giovasse anche la nostra condotta; ma questa sarà tanto più consapevole e ragionata quanto meglio noi sapremo valutare le forze e le idee tra le quali essi si dibattono. Il libro del Wallace ha avuto l’ufficio di chiarire agli americani medesimi il dilemma tra cui essi sono posti. Se il New Deal, se la nuova politica rooseveltiana fosse tutta così, essa consisterebbe in uno sforzo di chiarificazione, in una consapevole posizione di problemi, in un severo esame di coscienza.

 

 

Voi americani – dice il Wallace ai suoi concittadini – siete ciechi nazionalisti e ciechi internazionalisti. Siete, in economia, nazionalisti quando si tratta di trarre vantaggio dal chiudervi in voi stessi, di far fiorire l’industria nazionale serrando i confini all’importazione straniera; ma rifiutate di pagare il conto della vostra politica nazionalistica, e supponete che l’estero da cui voi rifiutate di comprare continui ad acquistare le vostre merci.

 

 

Siete internazionalisti quando volete esportare il sovrappiù della produzione della vostra industria nazionale e sognate mercati di smercio all’estero, dimenticando che gli stranieri non possono comperare se non nella misura in cui vendono. Dividete il mondo economico in due sezioni: il vendere e il comperare ed, immaginando l’una separata dall’altra, vi illudete di potere fare affari senza limiti nella prima sezione ignorando la seconda. Questa è la vecchia politica assurda, l’Old Deal, il quale vi ha condotto alla crisi presente. è giunto il tempo di aprire gli occhi e di guardare la verità in faccia.

 

 

Le vie sono tre; due estreme ed una di mezzo. Tutte devono essere consapevoli. Tutte devono commisurare costi a risultati, mezzi a fine. Gli Stati Uniti possono, se vogliono, fare una politica nettamente nazionalistica. Possono chiudersi in sé stessi, ridurre al minimo le loro importazioni dall’estero, assicurare all’industria nazionale il mercato interno. Ma, così operando, debbono ben ricordare che gli stranieri i cui prodotti industriali noi rifiutiamo di acquistare, rimarranno sprovvisti dei mezzi di comprare le nostre derrate agricole. Non potendole più vendere, non potremo più produrle. Già alla fine del 1934 gli Stati Uniti saranno stati costretti ad abbandonare la coltura di 15 milioni di acri di cotone, 20 milioni di acri di granoturco, 7,5 milioni di acri di frumento, mezzo milione di acri di tabacco, in totale 43 milioni di acri per le sole principali nostre derrate di importazione, circa un ottavo della nostra terra arabile.

 

 

Se noi abbracciamo definitivamente la politica nazionalistica, noi dobbiamo essere pronti a rinunciare per sempre alla coltivazione di 40 a 100 milioni di acri di terra arabile: 40 milioni se vorremo lasciare incolta terra buona, 100 milioni se rinunceremo a terra cattiva. Converrà inoltre ridurre da 40-45 a 25-30 milioni di acri la superficie coltivata a cotone. Voi non valutate forse a fondo la portata di questa politica. Essa vorrà dire spostare e trovare lavoro per milioni di piccoli proprietari e di contadini forzati ad abbandonare la terra. Poiché gli agricoltori non si persuaderanno facilmente a pagare essi le spese di una politica che il popolo americano avrà deliberato nell’interesse collettivo, voi dovrete indennizzarli a carico del tesoro, ossia delle imposte.

 

 

Poiché, nonostante gli indennizzi, l’agricoltore rimarrà attaccato sino all’ultimo alla sua terra, voi dovrete impedire colla forza ad una parte di essi di coltivarla. Voi dovrete istituire permessi di coltivazione, creare una politica agricola. Voi ricordate l’insuccesso del tentativo fatto da voi in passato di applicare la legge della proibizione delle bevande alcooliche. Tenetevi pronti ad affrontare difficoltà ben maggiori nel tradurre in atto una vera politica nazionalistica. Tutto si può fare, ma tutto si paga.

 

 

Voi potrete, volendo, produrre pressoché tutto ciò di cui avete bisogno nel vostro estesissimo e naturalmente ricco territorio nazionale. Potrete consumare solo zucchero nazionale; ma vi costerà il doppio di quello importato. Potrete far senza caffè e consumare solo tè indigeno. Potrete persino prendervi il lusso di produrre in casa gomma elastica al costo di 30 centesimi di dollaro la libbra, invece di pagare 12 quella importata. Ma per far ciò e per dare nel tempo stesso lavoro a tutti, dovrete sottoporvi ad una disciplina rigidissima. Non potrete più lavorare produrre commerciare a vostra posta. Dovrete sottoporvi ad una direttiva unica, lasciarvi comandare da noi ministri dell’agricoltura e dell’industria, dittatori del commercio e del consumo di Washington. So che a molti di voi, americani, nonostante le nostre tradizioni di libertà e di individualità, piace essere comandati. Se vorrete, noi comanderemo a tutti quel che ciascuno dovrà fare. Ma non lo faremo, se voi consapevolmente, ben sapendo quel che vi fate, con una visione chiara delle conseguenze della vostra decisione, non ce lo ordinerete.

 

 

Gli Stati Uniti possono, volendo, essere internazionalisti. Possono cioè disfare la fatica di alcune generazioni di protezionisti; i quali hanno recato l’industria manufatturiera nazionale alla grandezza attuale. Grandi risultati si possono ottenere se gli Stati Uniti si decidono ad abbassare la propria tariffa doganale in modo da consentire la importazione di un miliardo di dollari di merci di più, non di quelle poche che si importano oggi, ma di quelle che si importavano nell’ultimo anno normale, il 1929, prima della crisi. Importare un miliardo di dollari di merci di più vuol dire dare in mano agli stranieri un miliardo di dollari di più. Vuol dire consentire ad essi in primo luogo di farci il servizio anche ridotto, dei prestiti commerciali[1] e in secondo luogo e sopra tutto di acquistare da noi più frumento, più cotone, più tabacco, più lardo, più automobili di quanto non ne acquistassero nel 1929.

 

 

Abbracciare la politica internazionalistica significa perciò far a meno di ridurre la superficie coltivata a frumento, a cotone, a tabacco, a granoturco, fare a meno di spostare milioni di lavoratori agricoli, significa vedere ripopolati gli stabilimenti i quali vivevano di esportazione. Non immaginate però, americani miei, di non essere chiamati, facendo politica liberistica internazionalistica, a pagare conti. Io, Wallace, sono tendenzialmente internazionalista in materia di politica commerciale; ma so che bisogna di qualunque politica pagare il conto. Se voi lascerete introdurre un miliardo di dollari di merci di più, i risultati saranno certo magnifici, per il mondo e per voi; ma quel miliardo di merci importate dall’estero prenderà il posto di un miliardo di merci che prima si produceva all’interno.

 

 

Qualcuno dei vostri industriali dovrà chiudere lo stabilimento. Un decimo, un ottavo dei vostri stabilimenti dovrà chiudersi. Siano pure i più arretrati, quelli che lavorano a costi più alti; voi dovrete decidere quali siano le industrie da sacrificare di preferenza. La decisione sarà penosa; ma dovrete decidervi. Noi eseguiremo la vostra decisione. Voi, allettati dal vantaggio ma ancor più spaventati dal dolore, non vi risolverete decisamente, né per l’una né per l’altra delle due politiche. Sceglierete una via di mezzo. Anche questa è politica ragionevole, purché consaputa.

 

 

Si può essere nazionalisti ed internazionalisti a metà. Voi potrete decidervi a lasciare introdurre dall’estero solo mezzo miliardo invece di un miliardo di dollari di merci di più che nel 1929. In questo caso ridurrete a metà le chiusure di stabilimenti industriali, ma nel tempo stesso dovrete rassegnarvi a vendere all’estero solo un mezzo miliardo di derrate agricole di più di quelle normalmente vendute. Invece di abbandonare la coltura di 40-100 milioni di acri (40 se terre buone, 100 se terre cattive), voi dovrete abbandonare la coltura di soli 20-50 milioni. Voi potete scegliere una qualsiasi altra combinazione delle due politiche; ma toglietevi ben bene dalla testa l’idea storta che esista una politica, la quale vi consenta di avere tutte le terre coltivate come nel bel tempo della guerra, quando la Russia era scomparsa dalla faccia del mondo economico e quando i terreni dei paesi belligeranti non bastavano alla richiesta ansiosa degli alleati, e vi permetta nel tempo stesso di tenere tutti gli stabilimenti aperti in piena pressione, come quando si lavorava per le forniture di guerra e del dopoguerra.

 

 

Questa era la politica del paese di bengodi; ed è tramontata per sempre. L’Old Deal, la vecchia politica degli anni dal 1921 al 1929, vi diede l’illusione che una siffatta politica di cogliere la rosa senza la spina, di guadagnar sempre e non perdere mai, di esportare senza importare, esistesse. Ma era un’illusione, di cui ora gli Stati Uniti soffrono le conseguenze. Quella illusione aveva un nome: prestiti esteri.

 

 

Dal 1921 al 1929 la vostra agricoltura fioriva, i vostri stabilimenti battevano in pieno perché voi americani con la vostra foga consueta avevate dato inizio e seguito alla più pazza politica economica che immaginar si potesse. Siccome il vostro nazionalismo in fatto di importazioni vi proibiva di accettare merci estere in pagamento e nel tempo stesso il vostro internazionalismo in fatto di esportazioni vi urgeva ad esportare il sovrappiù dei prodotti della vostra agricoltura e della vostra industria, così voi prendeste una decisione eroica: dare agli stranieri a mutuo tanti dollari quanti occorrevano affinché essi potessero comperare i vostri prodotti esuberanti. E cioè, voi per anni ed anni seguitaste a consegnare il vostro buon frumento, il vostro cotone, il vostro tabacco, il vostro lardo, le vostre vetture automobili contro pezzetti di carta, chiamate obbligazioni di debito con relative promesse di pagamento. La vostra agricoltura prosperò, la vostra industria arricchì, perché e finché riuscì a vendere a qualcuno negli Stati Uniti quei pezzetti di carta.

 

 

Ad un certo punto l’Europa ed il mondo si stancarono di indebitarsi; e si avvidero anzi, onestamente, che era meglio finirla di far debiti, che non si sarebbero mai potuti rimborsare perché voi, americani, rifiutavate il solo possibile logico modo di pagamento, che erano le merci prodotte dai debitori. Fu il crollo; prima della borsa, la quale si avvide di negoziare in pezzetti di carta privi di valore per volontà dei creditori, e poi via via dell’industria e dell’agricoltura, che si erano abituate ad esportare sul falso. C’è una esportazione sanamente promossa da prestiti fatti ai paesi stranieri importatori; e questo si fa quando il prestito serve a sviluppare energie latenti in paesi nuovi ed il paese creditore prevede ed è deciso ad accettare in pagamento le derrate e le merci che il paese nuovo produrrà grazie all’attrezzatura agricola od industriale creata con i prestiti. Ma la vostra esportazione, fondata su prestiti esteri, era, concittadini americani, la più pazza cosa che si sia mai inventata nel mondo dei rapporti internazionali.

 

 

Che cosa potevate sperare dai prestiti, posto ché voi eravate decisi a non esser pagati in merci?. La soddisfazione di diventare creditori di nazioni da voi fatte insolventi? il gusto di aggiungere interessi a capitale indefinitamente e di diventare gli usurai dell’universo? il piacere di eccitare l’odio degli stranieri contro voi, creditori tiranni, che rifiutate di essere pagati e nel tempo stesso pretendete con boria di assoggettare a controllo le industrie altrui fatte vostre mancipie? Le cose pazze non durano. Il risultato lo vedete e si chiama crisi mondiale, fallimenti e moratorie dei debitori pubblici e privati. Questo era l’Old Deal, questo era il vangelo della prosperità illimitata, delle rose senza spine, delle esportazioni senza le importazioni, del nazionalismo quando volete chiudere le vostre frontiere alle merci altrui, dell’internazionalismo quando volete aprire le frontiere altrui alle vostre merci.

 

 

Così parla Wallace. Maschie parole. Se questo è il New Deal americano, il mondo è per il New Deal, per la nuova politica chiara, sincera, la quale sa che rosa non si coglie senza spine, che non si esporta senza importare. Noi italiani, che facciamo rispetto agli Stati Uniti parte del mondo esteriore, siamo le spine cui gli americani si debbono rassegnare se vogliono trovare in Italia un mercato per le loro merci. Ben venga Wallace, il quale così recisamente e brutalmente dice ai compatrioti: con che faccia pretendiamo noi che gli italiani comprino il nostro cotone, le nostre automobili, il nostro tabacco, se noi non comperiamo le loro sete, i loro agrumi, il loro vino?

 

 

Se il Wallace si limitasse a porre agli americani il dilemma fra le due vie aperte ad essi: chiudersi in sé stessi, coltivare il proprio giardino, grande in sé, piccolo rispetto al mondo; ovvero aprirsi al mondo ed assurgere a quel livello più elevato di benessere economico al quale la divisione del lavoro internazionale conduce; il suo libro sarebbe stato non solo un’onesta ma anche una perfetta arma di propaganda. Forse sarebbe stata opportuna, come dicesi in linguaggio americano, una maggiore «enfasi» nel dimostrare che la seconda via, alla quale il Wallace inclina, è più conveniente economicamente; che il nazionalismo economico, vulgo protezionismo, è un errore; e non solo richiede rigidissima disciplina, non solo è fecondo di corruzione politica e rivaleggia con il proibizionismo antialcoolico nell’inculcare nell’animo degli americani il disprezzo della legge, ma in sostanza è il frutto del prevalere di vociferanti interessi particolaristici contro l’interesse generale. Il Wallace dice tutto ciò; ma a chi, straniero, è al di fuori della mischia talvolta pare egli tratti un po’ troppo coi guanti i difensori dell’ideale diverso dal suo.

 

 

Forse anche nasce il dubbio se convenisse in uno scritto il quale pone così vigorosamente il programma della politica economica internazionale del New Deal – scelta consapevole tra le due vie liberistica e protezionistica, pesando di ognuna il vantaggio ed il danno contro la politica dello struzzo dell’Old Deal, la quale nel tempo stesso pretendeva di vietare le importazioni e di promuovere le esportazioni, accordando, con prestiti, ai compratori esteri la facoltà di non pagare subito, ossia, in fatto, invitandoli a non pagare mai; può dubitarsi, dico, se convenisse introdurre accenni ad altri punti del programma del New Deal i quali sono assai meno limpidi e più controversi. Il New Deal, si trovò di fronte ad una situazione di crisi di economia interna, oltreché internazionale: le merci e le derrate prodotte dall’industria e dall’agricoltura non richieste, sebbene offerte a prezzi calanti, perché le due classi consumatrici, operai ed agricoltori, avevano vista diminuire la propria potenza d’acquisto; gli operai perché in parte disoccupati e in parte occupati a salari calanti; gli agricoltori perché il prezzo basso del frumento e delle altre derrate non consentiva ad essi neppure di pagare le imposte e gli interessi dei debiti, rimasti invariati.

 

 

La potenza d’acquisto erasi concentrata, per converso, nei creditori pubblici, a cui favore andava parte del provento delle imposte, e nei creditori privati e percettori di redditi contrattuali, i quali riscuotevano interessi e fitti, fissi. Ma era potenza d’acquisto spettante prevalentemente a ricchi, i quali non acquistavano prodotti di massa e, molto risparmiando, in tempo di crisi tesaurizzavano. Perciò il New Deal si volge a trasferire la potenza di acquisto dai capitalisti creditori agli operai ed agli agricoltori; e nel tempo stesso ad aiutare imprenditori e capitalisti imprenditori, i quali anch’essi soffrivano della crisi, perché vendevano i loro prodotti a prezzi bassi ed erano gravati da imposte e da interessi fissi. Epperciò:

 

 

a)    svalutò il dollaro, allo scopo di ridurre l’onere dei debiti e delle imposte a carico degli agricoltori e degli imprenditori;

 

b)    ed allo scopo altresì di provocare un aumento nei prezzi all’ingrosso fin verso il livello del 1929;

 

c)    cercò di sostenere i prezzi all’ingrosso, senza crescere i prezzi al minuto; ed emanò all’uopo «codici», i quali dovrebbero impedire la concorrenza detta «eccessiva» o «sleale» fra agricoltori, fabbricanti e negozianti, garantendo nel tempo stesso ai consumatori un prezzo «equo», che sarebbe uguale al prezzo di origine aumentato dalle spese di distribuzione al minuto;

 

d)    cercò di crescere la capacità di acquisto degli operai, imponendo coi codici riduzioni di ore di lavoro, col che si dava lavoro ad una massa maggiore di operai ed a tutti aumento di salario;

 

e)    all’uopo forzò gli imprenditori a riconoscere le associazioni operaie, dando maggior forza alle leghe di mestiere, contro quelle costituite esclusivamente fra operai dello stabilimento;

 

f)     e poiché l’opinione pubblica attribuiva la responsabilità della crisi a borse, banche e banchieri, condusse inchieste pubbliche sul loro operare ed iniziò legislazione rigida di controllo sugli affari bancari e finanziari.

 

 

Nel libro di Wallace si sente l’eco commossa di questi altri punti del programma del New Deal. Nonostante la crisi, in alcuni vecchi paesi europei, fra cui l’Italia, non abbiamo avuto, come si ebbe per qualche anno negli Stati Uniti, la sensazione del crollo. Il contadino, l’artigiano, il piccolo industriale italiano non passò anni lieti; ma seguitò a coltivare il campo, a lavorare per i soliti clienti. I prezzi ribassarono; si dovettero fare molte rinunce, ma non fu la fine del mondo. Negli Stati Uniti, milioni di uomini si trovarono improvvisamente sotto l’incubo del non sapere come mangiare l’indomani.

 

 

Conosco valorosi giovani italiani, i quali negli Stati Uniti avevano conquistato posizioni brillanti e guadagnavano diecimila e più dollari l’anno, quando il dollaro valeva 19 lire; ne ricevetti lettere in cui si diceva l’angoscia di cercare e non trovare impiego a 50 e neppure a 20 dollari la settimana. A due passi dalle grandi città della costa dell’Atlantico, a due passi da Boston, da New York, da Filadelfia vi sono migliaia di poderi abbandonati. Nell’ovest il deserto riguadagna rapidamente terreno su milioni di acri. In così disperati frangenti la folla si rivolta e chiede giustizia; e l’uomo di stato deve promettere giustizia e cercare di inspirare fiducia. Il New Deal in fondo è un nobile tentativo di far qualcosa, non perché si sappia che quel qualcosa sarà fecondo di risultati vantaggiosi, ma perché urge il dovere di lottare contro la disperazione, di infondere coraggio, di impedire che milioni di uomini si rivoltino contro la società e distruggano, nell’impeto dell’ira, il risultato di tre secoli di sforzo laborioso.

 

 

È probabile che, se la crisi andrà, anche negli Stati Uniti, lentamente attenuandosi, se un riassestamento nei prezzi, nei salari, negli interessi, nei fitti a poco a poco rinascerà, scarso sarà stato in proposito il merito delle manovre sul dollaro, dei codici, dell’insegne all’aquila azzurra e delle leggi anti speculative. Non perciò dobbiamo condannare Roosevelt e il New Deal. Si trattava di guadagnar tempo; di impedire che, innanzi al giorno del riassestamento, le moltitudini disperate avessero distrutto, per farla andar meglio, la macchina della civiltà americana.

 

 

Poiché, tuttavia, nessuno potrà mai dare una risposta decisiva al quesito: la crisi è finita per merito o a dispetto dei provvedimenti inspirati al New Deal; poiché nessuno potrà mai dimostrare che un fatto cronologicamente venuto prima – svalutazione del dollaro, codici, aquile azzurre, ecc., – non sia stata causa di un fatto cronologicamente posteriore, fine della crisi; poiché la scienza economica, che è scienza astratta, dà risposte ipotetiche a domande astratte, ma non può e non potrà mai dare risposte categoriche a problemi storici; così l’esperienza del New Deal darà sicuramente un frutto: di persuadere molti americani, soprattutto uomini politici, ai quali fa d’uopo dimostrare di essere capaci a far qualcosa, e uomini dal temperamento progettistico, i quali non son contenti se ogni giorno non apprestano un metodo nuovo per salvare l’umanità, che il mondo economico va male perché lo si lascia andare e che esso può andar bene solo se lo si faccia andar bene.

 

 

Wallace, testa chiara, ministro capace di spiegare agli americani il dilemma tra cui necessariamente debbono scegliere in materia di politica economica internazionale, è però uomo che oggi, in frangenti terribili per il suo paese, si trova a capo di un ministero importante. Egli ha avuto la rarissima capacità di dire ai suoi concittadini: «voi dovete scegliere, consapevolmente scegliere una via e, scelta, non dovete arretrare dinanzi ai sacrifizi che la scelta vi imporrà».

 

 

Ma, inavvertitamente, egli si è lasciato scivolare verso una proposizione tutt’affatto diversa, soggiungendo: «noi, quando avrete deciso, tradurremo in atto la vostra volontà. Se deciderete di chiudervi entro il vostro guscio nazionalistico, noi sceglieremo i 40 od i 100 milioni di acri che dovranno ridiventar deserto; noi sposteremo i milioni di contadini che dovranno essere spostati; noi diremo agli agricoltori rimasti che cosa e quanto dovranno produrre. Se voi deciderete di riaprire i vostri confini al commercio internazionale, noi studieremo accuratamente quali industrie siano meno progredite, quali meno necessarie e vi proporremo di uccidere queste e non altre. Noi redigeremo il piano per indennizzare agricoltori ed industriali estromessi e per procacciare lavoro a contadini espulsi e ad operai licenziati».

 

 

Il frutto del New Deal si chiama economia manovrata; ed è frutto che pare destinato a durare a lungo. Non ho aggiunto l’avverbio «fortunatamente» o «purtroppo»; perché esso importerebbe un giudizio di merito sulla attitudine dei «programmisti» ad attendere alle promesse, il quale non potrà essere dato se non dall’esperienza. È ammirabile fin d’ora l’ingenua fede dei programmisti nel nuovo verbo. Essi sono siffattamente persuasi che un fine economico non possa essere raggiunto se non attraverso ad un piano ordinatamente attuato da una volontà superiore che non immaginano neppure che la meta possa essere toccata invece in seguito all’azione di molte volontà, le une inconsapevoli dell’azione altrui, ed unicamente tra loro coordinate e costrette dalla norma giuridica la quale abbia segnato i limiti dell’operare individuale.

 

 

Il Wallace intende ristabilire nella economia americana un equilibrio fra industria ed agricoltura, fra i capitali investiti speculativamente e quelli investiti improduttivamente, fra investimenti interni ed investimenti esteri, così da ridurre la disoccupazione al limite minimo tecnico? Ristabilire, notisi, perché ci fu nella storia passata almeno un momento in cui quell’equilibrio esisteva. Egli non s’indugia a chiedersi perché «allora» un equilibrio esistesse. Non vale la pena di chiederselo. Se anche esisteva, trattavasi di fatto accidentale: «At the opening of the World War, our farm production chanced to be pretty well in hand» (pag. 4 dell’originale). All’aprirsi della guerra mondiale capitò che la produzione agricola era tra noi discretamente bene equilibrata (pag. 52 della presente traduzione).

 

 

«Chanced to be», (capitò ad essere), stupenda espressione della ingenua meraviglia di chi constata che le cose andavano abbastanza bene senza un programma, senza il proprio programma, e conclude che, essendo ciò accaduto per caso, non si può sulla ripetizione dello stesso caso fare alcun affidamento ed occorre perciò programmare. «Non esisteva prima della guerra, una disparità troppo evidente fra i prezzi che gli agricoltori ricevevano per i loro raccolti ed i prezzi che essi pagavano per le cose che dovevano acquistare. La legge per il riequilibramento nell’agricoltura ha per iscopo di ristabilire la condizione di equilibrio o parità fra i nostri più importanti gruppi produttivi, che era stata raggiunta più o meno accidentalmente negli anni dal 1909 al 1914» (cfr. sotto pag. 52). Abitavamo una volta nel paradiso terrestre. Ma ci eravamo capitati non si sa come, per caso. Bisogna fare una bella legge la quale ci riapra le porte del paradiso perduto.

 

 

La persuasione che non ci si debba neppure porre la domanda: esiste forse qualcosa dietro al caso? è così radicata nei programmisti che le disgrazie proprie e le fortune altrui sono istintivamente e spontaneamente attribuite alla mancanza negli Stati Uniti alla osservanza nei paesi stranieri di un consaputo programma.

 

 

La politica dei prestiti esteri condusse gli Stati Uniti dopo la guerra mondiale al disastro ed aveva invece dato prosperità alla Gran Bretagna dopo le guerre napoleoniche? Ma quest’ultima aveva un programma a lunga veduta: accettare importazioni future di merci estere in rimborso dei prestiti (pag. 43). Ma l’Inghilterra quando mutuò all’Argentina i capitali necessari per costruire ed istruire ferrovie, aveva il piano definito di accettare in seguito frumento e bestiame in cambio (pag. 110). Allo scoppio della crisi, scomparsi i mercati esteri che noi avevamo alimentato con i prestiti, noi fummo costretti a chiuderci con altissime barriere doganali entro di noi stessi?

 

 

Ma noi ciò facemmo in fretta e furia, laddove le nazioni estere perseguirono quella stessa politica gradualmente e deliberatamente fin dai primi anni del dopoguerra (pag. 62). Alla tesi principale: conviene scegliere una politica commerciale liberistica internazionalistica od una protezionistica nazionalistica e quali sono i danni ed i vantaggi da mettere sui due piatti della bilancia per ognuna delle due politiche? si accompagna dunque e si sovrappone un’altra tesi: la politica scelta deve essere programmata, attuata con azione coordinata da un’autorità consapevole che sappia quel che vuole ed indirizzi e guidi e costringa gli individui a camminare nella direzione voluta. La scelta deve essere consapevole; ma, soprattutto, occorre un piano per attuare la scelta.

 

 

Con gli uomini di fede non si discute. Bisogna lasciarli agire. Sia lecito osservare sommessamente al Wallace che nei tre casi da lui ricordati la esistenza di un piano non fu in passato condizione necessaria per giungere alla meta. Solo un americano può immaginare che l’Europa avesse nel dopoguerra un piano nazionalistico da proseguire e l’attuasse con ferma tenacia di propositi.

 

 

Noi sappiamo che quel piano non esisteva e che l’Europa si inoltrò sulla via del protezionismo e della chiusura dei mercati nazionali alle importazioni estere nella stessa precisa maniera degli Stati Uniti: trascinata dalla circostanze, spinta da un gran numero di forze economiche sentimentali contrastanti. Quasi tutti gli uomini di stato che elevavano barriere doganali, moltiplicavano ed inasprivano dazi, ciò facevano controvoglia, affermando di agire soltanto per ritorsione contro le proibizioni straniere. Di anno in anno il commercio internazionale si riduceva a mera ombra di sé stesso e la voce unanime di governanti, di industriali, di commercianti, di pubblicisti segnava il fatto a sventura somma del mondo intiero e delle singole nazioni in particolare. Eppure ogni giorno si stringevano i freni. Piani? L’unico sembrava quello di non averne alcuno.

 

 

L’Inghilterra praticò dopo le guerre napoleoniche una politica lungimirante di prestiti esteri collegata colla previsione e colla volontà di future importazioni di merci e derrate dai paesi nuovi sorti coi prestiti a rigoglio economico? Vero il fatto; pura fantasia la politica lungimirante. I banchieri londinesi contrattarono e concessero prestiti per proprio conto all’Argentina, all’Australia, alla Nuova Zelanda, all’India, al Canadà, agli Stati Uniti medesimi.

 

 

Quando contrattarono avvedutamente, badando alla solvibilità dei debitori, alla sanità delle imprese aiutate, alla liquidità degli investimenti, quando insomma operarono come puri banchieri, senz’altre fisime per il capo, ottennero il giusto guiderdone per l’opera compiuta e furono ripagati di sorte capitale e di interessi; quando si lasciarono montare la testa da grandiosi e complicati programmi di collaborare al progresso del mondo o dell’impero britannico, si pigliarono atroci suonate, perdendo i denari propri ed altrui. Altri, indipendentemente dai banchieri, importò, quando convenne, dai paesi nuovi frumento e bestiame, cotone e lardo.

 

 

Fu affare di negozianti, aiutati dalle case d’accettazione londinesi, collegate, ma indipendenti dai banchieri. Le cose andarono bene se e finché banchieri e negozianti fecero affari buoni e non cattivi. Non ci fu nessun piano legislativo o governativo o pubblico di prestiti contro importazioni. L’unico piano fu quello di perfezionare progressivamente la legislazione nel senso di consentire viemmeglio che chi volesse esportar capitali lo potesse fare a suo rischio e pericolo e chi volesse importare merci e derrate fosse nell’opera sua sempre meno impacciato da dazi doganali.

 

 

Se si vuol chiamarlo piano, diremo che ci fu anche il piano di formulare ed applicare leggi sempre più precise e severe contro chi malversasse i denari altrui, non rendesse i conti, profittasse con false promesse della dabbenaggine dei risparmiatori e dei clienti. Oggi questi piani «negativi» paiono poca cosa e ci si sputa sopra. In verità, quel che più sicuramente resterà della legislazione rooseveltiana del New Deal saranno appunto le leggi rivolte contro i filibustieri, i falsificatori di conti, gli accalappiatori dei denari altrui. Se i giudici, confortati dall’opinione pubblica, applicheranno quelle leggi, un gran passo sarà stato fatto sulla via della moralizzazione della finanza americana, ossia sarà stato grandemente agevolato il savio impiego del nuovo risparmio a profitto dell’economia nazionale.

 

 

Prima della guerra «capitò» che industria ed agricoltura fossero negli Stati Uniti in equilibrio. Capitò? Il Wallace non si chiede il perché di questo «capitare». Pare l’assurdo, l’inverosimile, l’incredibile, fatto realtà inopinatamente per mero gioco del caso. Non v’è forse un’altra spiegazione? Una spiegazione semplice, poco macchinosa, ma vera e persuasiva? Non è forse probabile si trattasse di cosa «capitata» necessariamente per l’intreccio di determinate cause? Anche allora gli uomini di stato americani, per un insieme di circostanze, che qui non occorre indagare, avevano un piano. A torto od a ragione, a torto secondo il Wallace e secondo lo scrivente, erano protezionisti. Avevano deliberato la loro brava tariffa doganale. Il presidente Wilson aveva qua e là un po’ tarpato le ali ai voli protezionistici; ma una tariffa doganale esisteva ed era una tariffa alta.

 

 

Politica e piano prevalentemente nazionalistici; non così fieri come quelli che oggi invalsero, ma tuttavia abbastanza nazionalistici. I governanti americani dell’avanti-guerra avevano però il buon senso, una volta deliberata la tariffa, di lavarsene le mani e di dire ad industriali e ad agricoltori: ora tocca a voi a trarne tutto il partito possibile. Industriali e agricoltori si arrangiavano. Quelli protetti ampliavano le loro fattorie agricole ed i loro stabilimenti; ed i non protetti e gli esportatori si restringevano o facevano un altro mestiere. L’adattamento al piano era un affare privato.

 

 

Non si usava dare premi a chi si restringeva, mettere cartelli col «permesso produrre», autorizzare l’uso di aquile azzurre o bianche o verdi per chi si conformava al desiderio del governo. L’adattamento aveva luogo perché industriali ed interessati avevano interesse ad adattarsi. Chi non ha interesse a correre dietro ai prezzi più remuneratori? Perché creare una macchina costosissima e complicatissima, a difficilissimo maneggio, quando esiste una macchina la quale agisce da sé, senza spesa ed è l’interesse individuale?

 

 

Par dunque che la politica dei piani sia vecchia come la barba di Noè. Sempre i legislatori intesero al bene della collettività, a quel bene che era inteso al tempo in cui essi legiferavano. Va da sé che il «bene» odierno è probabilmente più alto, meglio rivolto a vantaggio dell’universale degli uomini viventi in una collettività nazionale di quanto non fossero i piani antichi. Non di ciò si discute. Come spesso accade, gli uomini si accapigliano non intorno alla «sostanza» del bene, ma intorno al «metodo» osservato per tradurlo in atto.

 

 

La differenza di metodo di attuazione fra piani antichi e piani nuovi pare consiste in ciò; che gli antichi piani – antico è tutto ciò che accadde od operò prima del 1914 – si limitavano a creare forze od interessi conformi al piano che intendevano attuare, e confidavano che le forze e gli interessi così creati avrebbero condotto al risultato voluto; i moderni intendono assicurarsi direttamente per mezzo di organi proprii, con incoraggiamenti o divieti, con autorizzazioni, inchieste, periti, sorveglianti che il piano sia attuato. In fondo, a ben guardare, è un problema di costi comparati. Dato un fine, quale è il metodo meno costoso di raggiungerlo ?

 

 

Se esiste un fine che il legislatore reputa dannoso all’interesse pubblico, il vecchio metodo lo avrebbe reso di difficile consecuzione con mezzi propri al potere pubblico, multe o imposte. O più semplicemente, poiché quel fine è in concorrenza economica con altri fini che il legislatore reputa più adeguati o propizi all’interesse pubblico, si reputerebbe, secondo quel metodo, bastevole a farlo trascurare, rendere questi ultimi più remuneratori. Gli uomini, a cui non interessa perdere ed a cui anzi piace guadagnar relativamente di più, accorreranno da sé verso i fini reputati più remuneratori.

 

 

Se il popolo americano sceglierà ancor più di quanto non faccia oggi la via del chiudersi entro sé stesso, basterà elevare una tariffa doganale tanto ferocemente protezionista quanto occorra. Da sé gli americani si ridistribuiranno, nel modo più adatto, all’ideale scelto. Si creerà più ricchezza, come dicono i protezionisti o meno ricchezza, come affermano i liberisti? La ricchezza prodotta sarà quella che deve essere in funzione della politica scelta. Il vecchio metodo non capisce la convenienza di sottrarre da quella poca o molta ricchezza una percentuale del dieci o del venti – il linguaggio del Wallace lascia prevedere prelievi ancor più forti – allo scopo di creare e mantenere un esercito di funzionari e di periti occupati ad assicurarsi che gli americani facciano quel che devono fare, filino al posto loro assegnato, ossia si comportino come il piano protezionistico esige.

 

 

Da che mondo è mondo, gli uomini non hanno forse avuto l’abitudine non che di filare ma di correre a gambe al posto dove sperano di guadagnare un soldo di più? Perché mai, se i dazi protettivi renderanno più conveniente di produrre vino e meno conveniente produrre frumento, gli americani dovrebbero ostinarsi a produrre con perdita frumento negli stati dell’ovest e rifiutarsi a coltivar vigna nella California? Sarà una disgrazia per noi italiani: ma possiamo essere sicuri che gli americani disferanno terre a frumento e pianteranno vigne. Da sè, senza pungoli di cartelli e di permessi, senza bisogno di stipendiare periti e pagar mance alle guardie incaricate di sorvegliare i contravventori alle leggi.

 

 

Il nuovo metodo non vuole invece lasciare nulla al volontario, allo spontaneo. Sembra che gli americani d’oggi siano dalla crisi stati fatti incapaci a comprendere la filosofia del caso, delle cose che capitano. Pare che abbiano preso il gusto di stare sotto la ferula del maestro di scuola, o del sergente istruttore, e di sentirsi ordinare: a destra! a sinistra! al passo! di corsa! È un andazzo, mormorano i vecchi, che passerà, come passarono tanti altri andazzi. Ma finché dura, bisogna imitare il villano della novella del Sacchetti, il quale al capo della famiglia dei Medici rammostrava che se era andazzo i Medici portassero via le vigne ai villani, egli non ci aveva nulla a ridire; ma, finché era in tempo, esponeva che quello pareva a lui un brutto andazzo.

 

 

Forse il Wallace è persuaso anch’egli che quello dell’applicare piani per forza, con gran rinforzo di periti, di guardie, di proibizioni, di premi, di cartelli bianchi e azzurri è un andazzo non bello; che quello che monta è unicamente di avere un buon piano e di creare le forze e le leggi in virtù delle quali quel piano sarà spontaneamente attuato col minimo sforzo. Egli dubita però che il buon piano riesca ad imporsi senza un apparato di prediche, di comandi, di propaganda, di minacce. In tal caso l’apparato costruito sopra al piano sarebbe un mito politico, necessario a creare lo stato d’animo religioso che spinge i popoli ad agire. Può darsi. Gli americani hanno talvolta l’anima dei primitivi ed occorre la «drive», il rumore, l’assordamento per eccitarli a fare cosa che, ragionando a mente fredda, farebbero da sé. Forse perciò l’autore della presente mirabile spiegazione delle vie tra cui gli Stati Uniti sono chiamati a scegliere ha ritenuto di dovere aggiungere che, scelta la via, gli americani converrà si rassegnino a percorrerla a forza sotto la dura sferza degli uomini che essi all’uopo avranno scelti. Per deciderli a scegliere, forse fa d’uopo dipingere ad essi la scelta come l’ultimo sforzo da compiere, dopo il quale la fatica sarebbe assunta da altri.

 

 

Se questa è la spiegazione della preferenza che ora si dà al metodo di gestione diretta statale dei piani in confronto al vecchio metodo della semplice creazione di norme e di stimoli atti a provocare la spontanea attuazione di essi, la discussione non è più economica ma politica. Essa tocca il problema fondamentale della partecipazione di tutti al governo del paese. Quando il potere era di pochi, bastava porre stimoli e norme perché le classi dirigenti interessate ne profittassero. L’allargarsi della partecipazione al potere delle moltitudini ha reso necessario formular piani che non solo siano ma paiano ad esse vantaggiosi ed ha cresciuto nel tempo stesso a dismisura le difficoltà di abbandonarne l’attuazione alle moltitudini medesime. Quando i piani erano semplicemente di politica doganale, potevano bastare dazi. Se i piani diventano sociali e toccano la distribuzione della ricchezza e suscitano invidiosi confronti è ancor possibile l’automatismo?

 

 

Il nuovo «metodo» di attuazione del piano è dunque reso necessario dalla scelta fra nazionalismo e internazionalismo o non piuttosto dall’altro scopo che il New Deal si propone: mutare la distribuzione della ricchezza a favore dei poveri ed a danno dei ricchi? Ed è davvero tanto urgente mutare con tanto costo e tanto attrito la distribuzione, quando si pensi che la scienza moderna consente di crescere la produzione a limiti a cui la fantasia umana quasi non giunge? Il Wallace ha scritto parole inspirate intorno alla abbondanza meravigliosa di beni che la scienza promette agli uomini in avvenire. Ma a godere di quella abbondanza gli uomini non arriveranno forse mai se essi continueranno a rissare ferocemente per sapere chi più e prima degli altri abbia diritto al paradiso terrestre.

 



[1] A quelli di guerra, fra stato e stato, il Wallace sembra accennare là dove dice che «tutti gli americani hanno interesse a tornare negoziando coll’estero ai semplici metodi dettati dal buon senso sul mercato dei cavalli, e dar di frego a tutti i complicati contratti e debiti sulla carta che ci condussero al punto a cui ci eravamo ridotti il 4 marzo 1933» (pag. 108).

Torna su