Intervento al III Congresso nazionale del Partito Liberale Italiano (Roma, 1° maggio 1946)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1946
Intervento al III Congresso nazionale del Partito Liberale Italiano (Roma, 1° maggio 1946)
PLI, III congresso nazionale, Atti, Roma, Ufficio resoconti del PLI, 1946, vol. III, pp. 25-39
Dopo il discorso così vigoroso, incisivo e appassionato dell’amico Corbino, la mia parola avrà per voi forse un sapore alquanto accademico. Ma questa parola ha avuto in me una necessità direi quasi di coscienza, di rendere pubblica ragione del voto che andrò a dare quando dovrò mettere nell’urna la scheda relativa al referendum. Questo voto io lo darò a favore della monarchia.
Noi vogliamo render ragione del nostro voto. I liberali devono essere pluralisti, devono essere opposti a qualunque forma di governo la quale possa condurre ad una tirannia. Noi, i germi della nostra dottrina politica li dobbiamo sempre ritrovare in quelle parole che il relatore della Commissione per la riforma giudiziaria ha voluto ricordare nella sua relazione dal testo del Montesquieu.
Montesquieu nel 1748 scriveva: «Allorché nella medesima persona e nel medesimo corpo di magistratura il potere legislativo è riunito a quello esecutivo non vi è libertà. Né vi è libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo o lo stesso corpo esercitasse i tre poteri». Oggi, a distanza di due secoli, la dottrina di Montesquieu deve essere integrata. A noi non basta più la libertà formale la quale era stabilita nella dottrina dei tre poteri che quel grande autore aveva ricavato dalla pratica inglese; noi vogliamo anche una libertà sostanziale, vogliamo cioè che lo Stato non sia onnipotente, che in una sovranità libera esistano forze contrarie, contrastanti, molte forze dalla coesistenza delle quali soltanto potrà derivare la libertà dei cittadini.
Noi perciò non abbiamo bisogno di ricorrere a nessun’altra dottrina, di nessun tipo per poter ricavare quelli che devono essere i principi informatori della costituzione che dovremo darci. Noi, in quanto liberali, siamo necessariamente contrari allo Stato leviatano. Noi crediamo che, se tutte le forze politiche ed economiche di un Paese sono riassunte nello Stato, non vi è più terreno per la libertà e siamo quindi destinati a cadere nella più truce tirannia. Noi liberali non siamo contrari a che volontariamente si costituiscano delle società comunistiche; noi abbiamo ammirato, ammiriamo ed ammireremo coloro che, mossi da una fede sia religiosa sia politica, costituiscono delle società informate ai principi comunisti. I monasteri sono un esempio di vita comunistica e meritano tutto il nostro rispetto. Alcune società che si sono costituite oggi nella lontana Palestina, sono società comunistiche e anche queste meritano tutto il nostro rispetto perché sono composte da uomini che, fuggendo la schiavitù e la morte, hanno costituito delle società libere alle quali essi volontariamente e liberamente aderiscono. Ma noi non crediamo nelle società comunistiche le quali siano imposte dall’alto; e quando noi sentiamo che in certe elezioni si è avuto il 99 e più per cento a favore di un governo, siamo persuasi che quella non sia una società liberale.
Come siamo contrari allo Stato leviatano, siamo altresì contrari ai Leviathan privati, comunque essi si chiamino. Noi non vogliamo che la tirannia ci venga imposta, invece che dallo Stato, da quei pochi i quali abbiano il possesso delle fonti principali della ricchezza. Noi non diciamo, non dobbiamo dire insieme con Proudhon che la proprietà è un furto, ma diciamo e dobbiamo dire invece che il monopolio è un furto; è un furto ed una appropriazione da parte di coloro che impediscono, sia per legge, sia per circostanze naturali, di usufruire dei beni che devono essere messi a disposizione di tutti e devono essere controllati da tutti.
Perciò noi liberali vogliamo non solo abbattere e contrastare tutti i monopoli legali, distruggere quelle leggi le quali costituiscono il monopolio (e la maggior parte dei monopoli deriva dalla legge non dalla natura), ma se poi, distrutti tutti quei monopoli i quali derivano dalla legge e che ci sono stati tramandati dal regime scorso e qualche volta anche sono eredità di anni più lontani, qualche monopolio dovesse durare ancora, noi dovremo essere contrari a questo monopolio e anche questo dovremo abbattere. Siano monopoli dei datori di lavoro, siano dei lavoratori. La maggior parte dei monopoli più pericolosi è quella che proviene dalla categoria degli imprenditori e degli industriali. Sono essi i quali hanno, con dazi protettivi, contingenti e favori governativi, costituito situazioni di privilegio in loro favore che noi liberali dobbiamo contrastare e dobbiamo sforzarci di abbattere.
Ma se anche dall’altra parte tentativi di monopolio ci saranno, anche questi dovranno essere da noi combattuti. Noi siamo non dico indifferenti, ma ammettiamo e consideriamo come conquista delle classi lavoratrici la formazione di un sindacato unico, ma ad una condizione: che questo sindacato sia volontario e non obbligatorio e quindi imposto dalla legge. Perché se uno Stato qualunque, sia di datori di lavoro, sia di lavoratori, è imposto dalla legge, e non è volontario, non è il frutto spontaneo dell’adesione di coloro i quali vogliono far parte di un corpo, quello Stato è un’arma di oppressione, inizio e fondamento di tirannia.
Noi, in virtù della nostra dottrina, vogliamo anche che le situazioni sociali siano varie, ricche e molte. Noi siamo contrari alle situazioni sociali le quali da un lato diano una notevole parte della ricchezza, della proprietà fondiaria ad alcuni, mentre gli altri restano completamente privi di proprietà. Siamo contrari ad una situazione sociale in cui le masse siano prive di qualsiasi parte della proprietà. Tutto ciò vogliamo in quanto che riteniamo che una società prospera, una società sana non possa esistere se vi siano troppo grandi differenze di fortune tra i molti e i pochi. Ma noi non vogliamo la politica di Tarquinio il Superbo, il quale abbatteva i suoi avversari e insegnava agli altri il metodo del taglio dei più alti papaveri, perché anche i grandi papaveri devono esistere, anche le grandi fortune devono esistere se sono state conquistate col lavoro e col risparmio. Ciò che è contrario alla dottrina liberale é che possano continuare le fortune senza una continuità di sforzi; e quindi dobbiamo essere favorevoli a quei sistemi tributari i quali, nel succedersi delle generazioni, collaborino a quell’eliminazione spontanea che avviene in tutte le società, per cui parecchi arricchiti finiscono col perdere le loro fortune e scomparire nella massa di coloro che non le possiedono. Noi vogliamo che il sistema tributario collabori all’eliminazione di coloro che non contribuiscono alla produzione, a conservare ed accrescere la ricchezza stessa. Noi vogliamo far sì che questa eliminazione sia resa più rapida dal sistema tributario.
Noi vogliamo che lo Stato provveda, ma vi provveda in maniere giuridiche, senza interventi quotidiani negli affari della società, a garantire un minimo di vita a tutti i cittadini. Questa garanzia noi la vediamo forse in una maniera differente da coloro che la vedono nell’imitazione di legislazioni che godono oggi di molta popolarità in tutti i paesi del mondo.
Io dubito se convenga assicurare questo minimo per mezzo di sussidi, di pensioni; preferisco, per la formazione di una società veramente libera, che tale garanzia sia data sotto altre forme: che sia reso possibile a tutti, ad esempio, il possesso della casa, dell’orto, del piccolo campo vicino alla casa, nella quale casa l’uomo si sente libero e indipendente, la casa che è il castello in cui il birro non può mai penetrare se non accompagnato da un’ordinanza del magistrato. Una casa nella quale l’uomo si costruisce la sua famiglia e spera di darle un carattere che vada oltre alle generazioni presenti.
Ma non è tollerabile che in una società civile vi siano uomini i quali senza loro colpa, pur con la maggiore volontà di lavorare, non abbiano i mezzi per poter elevarsi. La società deve dare il modo a tutti di poter elevarsi. Perciò i liberali devono essere favorevoli, e sono favorevoli a tutte quelle forme di gratuità nell’istruzione, non solo elementare ma media e superiore. E non ho nessuna preoccupazione per il giorno – che sarà necessariamente lontano, perché non si improvvisano insieme con gli scolari anche i maestri – in cui con l’aiuto dello Stato, in istituzioni completamente gratuite, i giovani più meritevoli che abbiano dimostrato capacità di studio e di lavoro, possano arrivare sino alle Università. E se per avventura il numero degli studenti universitari, il quale oggi è sulle diecine di migliaia, salisse alle centinaia di migliaia, io non sarei preoccupato affatto per l’avvenire di questi giovani, in quanto ché in quel giorno sarebbe diversa la società in cui quegli uomini vivrebbero; non sarebbe più la società attuale con poche opportunità di lavoro, ma una società diversa con molte opportunità di lavoro.
Perciò l’idea liberale implica l’esistenza non solo di persone che siano libere e indipendenti; implica anche l’esistenza di molti corpi, di molte piccole società; ognuna delle quali sia entro i propri limiti libera e indipendente.
Perciò l’idea liberale è contraria allo Stato accentratore; favorisce tutte le forme non solo regionali, ma anche istituzionali di corpi autonomi i quali contribuiscano non solo alla legislazione, ma anche alla vita comune della società intera. Noi vogliamo che la Chiesa sia indipendente e sia libera; noi vogliamo che anche nello Stato vi siano regioni, comuni, associazioni, sindacati, ognuno dei quali abbia una propria forza, perché riteniamo che soltanto in una società dove vi siano molte forze indipendenti possa essere garantita la libertà. Noi sappiamo che una società è destinata alla morte se il potere politico ed economico si concentra in un luogo solo.
Vi fu uno scrittore, il padre di Mirabeau, uno degli oratori massimi della Rivoluzione francese, il quale quarant’anni prima della Rivoluzione predisse quali sarebbero state le conseguenze di una società nella quale tutto il potere venisse dall’alto, tutto il potere fosse concentrato nello Stato. Se mi permettete, vi leggerò un breve brano di Mirabeau padre: «In una società consimile non vi sarebbe che un centro di distribuzione della ricchezza e non vi sarebbe che una città nel reame» – Noi non vogliamo che a Roma si accentri tutta la vita del Paese. – «Tutti i cittadini non sarebbero occupati ad altro che ad ottenere impieghi e posti alla Corte ed a sollecitare la liberalità del Principe, ad evitare il lavoro, a raggiungere la fortuna con tutti i mezzi di intrigo che la cupidigia dell’uomo può suscitare. Ma ogni agente, il quale pensi solo a sé stesso, è forzato ad usare connivenza con le depredazioni altrui; dal che segue che tutto alla Corte designerebbe il brigantaggio. Tutto dipendendo da un unico centro ed essendo morta ogni forza di vita propria ed indipendente, i quadri dello Stato e della società non sarebbero se non uno scheletro vuoto, agevole a rompersi al minimo sforzo esterno. Lo Stato in verità sarebbe in piena anarchia, senza alcuna consistenza ed alcuna durata».
Pochi decenni dopo gli avvenimenti davano la prova migliore della verità del principio che era stato posto dal Mirabeau padre. Una società come quella francese in cui tutti i privilegi, tutti gli onori dipendevano dalla capitale, non era una società viva e meritava di morire, e morì sotto i colpi della Rivoluzione francese. Perciò, noi liberali, non vogliamo una costituzione che sia fondata su un luogo solo, su una forza sola. La costituzione che noi dobbiamo respingere, ad esempio, è una costituzione simile a quella che è stata presentata pochi giorni fa in Francia. Una costituzione nella quale tutto il potere dipende da un unico capo, sarebbe una costituzione instabile. Una costituzione nella quale tutto il potere fosse concentrato in cinque o sei cento deputati, non per questo sarebbe una costituzione meno propensa alla tirannia: sarebbe il prodromo, la necessaria anticipazione di una tirannia. Perciò, non volendo noi una costituzione che sia fondata sul dominio di un organo solo, sia pure quest’organo il Parlamento, non possiamo volere neppure un presidente il quale non abbia una forza sua, indipendente da quella del Parlamento. Un Presidente fantoccio ci porterebbe ancora una volta alla conclusione cui è arrivata la Francia sotto la terza Repubblica, alla fine della cui vita si è visto il Presidente Lebrun firmare l’atto di morte della Repubblica.
Noi non vogliamo neppure una costituzione la quale sia ispirata a principi astratti, come furono quelli della costituzione di Weimar, la cui fine noi l’abbiamo vista. Sarà stato un caso fortuito che Hindenburg consegnasse il potere al moderno Attila, ma questo è stato il fatto: la morte della costituzione repubblicana tedesca è stata determinata da colui che aveva il compito di salvaguardare la costituzione medesima.
Noi non possiamo volere neppure un Governo presidenziale. Il Governo presidenziale ha funzionato bene solo negli Stati Uniti d’America; ma non esistono in altri paesi le condizioni straordinariamente complesse che hanno reso possibile il perpetuarsi di questo regime. In altri paesi le probabilità maggiori sarebbero non di avere un governo presidenziale del tipo nord americano, ma di avere un Governo presidenziale del tipo sud americano con rivoluzioni a getto continuo, con l’alternarsi al potere di alcuni generali o uomini politici i quali eserciterebbero temporaneamente una tirannia se non simile, non molto diversa da quella inflittaci nel ventennio scorso.
Dunque non un Presidente fantoccio e non un Presidente all’americana. Che cosa dunque dobbiamo volere? Un tipo di Governo stabile, ordinato e veramente libero. E qui noi non possiamo chiudere gli occhi dinnanzi alle esperienze moderne, alle esperienze più recenti, che noi possiamo considerare appartenenti a tutti i paesi, le quali ci dicono che la fonte del potere deve essere diversa. Non ci deve essere una sola fonte di potere; deve esistere un Presidente, ma non si chiama Presidente della Repubblica: quel Presidente si chiama Capo del Governo. In Inghilterra e in tutti i Dominions anglosassoni il vero Capo dello Stato è il Capo del Governo, il quale non deve la sua carica puramente e semplicemente al Parlamento, ma è designato da una elezione popolare. Churchill prima e Attlee adesso non hanno ottenuto la loro carica perché eletti dalla Camera: essi sono stati imposti alla Camera dalla volontà popolare, manifestatasi nella maniera più chiara a loro favore.
Sono le elezioni che designano alla carica, non le Camere che designano dopo colui che è il Capo del Governo. Non è possibile che vi sia un Governo stabile dove i capi del Governo siano soggetti a crisi continue, a continue variazioni, come quelle che si verificavano in Italia prima del 1922, o come quelle che si sono verificate in Francia sino alla caduta della terza Repubblica.
Per conseguenza deve esistere qualche altra forza la quale possa, in certi determinati momenti, far sì che il Capo del Governo possa essere mutato. Questa forza non è la Camera. La Camera, nei paesi nei quali il Governo deve funzionare, e deve funzionare in maniera veramente libera, è legata al Capo del Governo. Non è essa che può farlo dimettere. Sono i grandi avvenimenti storici che hanno portato al Governo il Signor Churchill; sono altri rivolgimenti di opinione che hanno portato al Governo il Signor Attlee, non sono stati i voti della Camera. Necessità, quindi, di un organismo, di un congegno il quale in questi grandi momenti storici possa, ascoltando la voce del popolo, riuscire a determinare quelle variazioni nel Governo che altrimenti dovrebbero essere imposte con la forza o sarebbero il frutto di una rivoluzione. La Monarchia, ai miei occhi, è questa forza. La Monarchia è qualche cosa la quale normalmente non deve farsi mai sentire. Non è vero (o almeno non è esatto) quello che si dice: che il monarca inglese esista soltanto perché esso è l’unico simbolo che riunisce le diverse parti della consociazione delle comunità britanniche. Questa è una verità, ma è una verità parziale. C’è un’altra verità che gli inglesi conoscono, ed è questa: che il monarca è quella tale istituzione della quale non si parla mai, della quale si può dire che essa è e deve rimanere dormiente, e soltanto risvegliarsi in momenti eccezionali della vita nazionale, quando sia evidente che gli istituti parlamentari non sono in grado di esprimere dei nuovi capi, ma la volontà del popolo esiste, esistono chiare correnti unanimi le quali fanno sì che si chieda un mutamento di rotta. In quei rarissimi momenti storici, i quali possono verificarsi soltanto a distanza di decenni, è necessario che esista un congegno che permetta il trapasso del potere da un capo del Governo ad un altro capo del Governo il quale ha avuto la sua designazione non dalle Camere, ma dal popolo, al quale le Camere non possono ribellarsi.
Noi abbiamo avuto due esempi classici di questo intervento rarissimo dell’istituto monarchico nella nostra storia. L’uno fu nel maggio 1915 quando, contro la volontà della Camera, il popolo riuscì ad imporsi. E come si sarebbe potuto imporre il popolo in quel momento, se non fosse esistito un congegno il quale, dormiente negli altri momenti, ossequiente negli altri momenti alla volontà delle Camere, poté sentire quella che era la volontà del popolo?
Disgrazia volle che in un altro momento, nel giugno del 1940, la voce del popolo non fosse sentita. Ciò non vuol dire che si debba far piazza pulita di quello strumento il quale può ancora rendere dei servigi, e li renderà se noi vorremo: giacché è da dubitare se l’istituto monarchico, il quale aveva adempiuto alla sua missione storica di andare contro la volontà apparente delle Camere nel 1915, avrebbe potuto, nel giugno 1940, adempiere ancora con successo alla sua missione. È dubbio, perché questo è un problema il quale non può essere sciolto oggi, sapere se in quel momento la volontà del monarca avrebbe potuto avere quel seguito che era necessario che avesse, e che ebbe invece nel luglio del 1943.
Questo congegno la cui utilità non è venuta meno, questo congegno il quale, come ho detto, deve rimanere dormiente per la maggior parte del tempo, e deve soltanto adempiere a non inutili funzioni di carattere sociale e rappresentativo, questo congegno è, e può ritornare ad essere, una forza storica. Gli Stati si costituiscono bensì sulla base di una idea, e senza l’idea della nazionalità, e senza la volontà del popolo italiano di rimanere unito, anzi di unirsi, l’Italia non sarebbe certamente sorta. Ma io farei torto alla storia se dicessi che soltanto l’idea basta e che accanto all’idea non debba esistere anche una spada.
L’idea della nazionalità italiana ha potuto trionfare in quanto essa ha avuto una spada al suo servizio. Questa spada fu foggiata ai piedi delle Alpi occidentali. Fu foggiata ai piedi delle Alpi occidentali non perché i piemontesi avessero virtù maggiori in confronto alle altre popolazioni italiane. Io sono piemontese, ma debbo ricordare che prima del 1559, prima della pace di Château-Cambrésis, i piemontesi erano rinomati per essere poltroni, ignavi, aborrenti dalle armi. Non è dunque per spontanea virtù maggiore che avessero i piemontesi se ai piedi delle Alpi occidentali si foggiò la spada che fu poi messa nel secolo scorso al servizio dell’idea nazionale. Fu per virtù di lunga educazione, la quale cominciò con Emanuele Filiberto, e riuscì via via a trasformare quegli uomini ignavi e rifuggenti dalle armi in soldati magnifici i quali respinsero ripetute volte spagnoli e francesi. E lasciatemi ricordare che l’unità d’Italia non ha corso mai nessun pericolo maggiore che nel quindicennio che volse dal 1800 al 1815 quando tutto il Piemonte era unito all’Impero francese e quando le leggi e la lingua dominanti erano diventate francesi. E se l’astro napoleonico non fosse caduto, è da dubitare se il Piemonte non sarebbe diventato una provincia francese. Non lo diventò perché troppo radicata era stata nella dinastia regnante l’idea della indipendenza nazionale, l’idea di essere qualche cosa di indipendente dalla vicina Francia la quale per tanti secoli era rimasta al di qua delle Alpi ed aveva minacciato l’unità d’Italia. Non dimentichiamo che per due secoli, dal 1559 al 1759, la Francia arrivava con i suoi tentacoli alle porte di Torino, a Carmagnola, a Susa, a Pinerolo. Furono necessari due secoli di guerre incessanti perché il confine sabaudo, e quindi il confine italiano, fosse spostato sulla displuviale delle Alpi, confine che oggi ci è nuovamente conteso, non per quella estensione di territorio alla quale si era giunti allora, ma per una estensione di territorio minore, ma non per questo meno pericolosa per la difesa del territorio nazionale.
Mi auguro che la prudenza degli statisti francesi non voglia creare un dissidio che sarebbe insanabile fra le due nazioni sorelle che sono destinate a camminare insieme per sempre sulla via della civiltà. Quello che ho definito il pericolo più grave della nostra storia poté essere evitato per la coscienza alla quale, in secoli di prove, erano arrivati i popoli del Piemonte, i quali, soli in Italia, soli in Europa, senza alcun sussidio di eserciti stranieri, mentre l’Austria stava temporeggiando per vedere se poteva, venendo a patti con la Francia, dividersi il Piemonte, seppero servendo anche con le armi il loro paese resistere sulle Alpi ad ogni pressione esterna, conservandogli l’indipendenza.
Voglio qui ricordare l’esempio storico di quel colonnello che licenziò i soldati del suo reggimento dando loro commiato fino al giorno dopo quello di Pasqua, nel quale avrebbero dovuto volontariamente convenire nella piazza d’armi di Susa. Quel colonnello si recò per tempo al convegno, poco sperando nell’arrivo dei suoi soldati, i quali invece, per più di due terzi del reggimento, si presentarono, pur avendo dovuto, in molti casi, attraversare le Alpi impiegando intere giornate di cammino, bivaccando durante la notte fra la neve. Questo ricordo storico, che vuole significare la creazione di uno spirito militare al servizio della nazione, non mi sento di dimenticarlo, come non mi sento di dimenticare otto secoli di storia, a causa di una esperienza recente, nella quale lo strumento militare ha pure adempiuto ai suoi doveri.
Ma l’esperienza recente ci dà il diritto di dire che quella che noi vogliamo non è la monarchia degli altri, è la monarchia nostra, che noi dobbiamo creare e alla quale dobbiamo imporre la volontà del popolo.
Due anni fa mi è accaduto di tenere delle lezioni alla Università di Ginevra.
Dinanzi alla Università vi è un monumento che ricorda la riforma protestante, nel cui basamento sono scolpite le parole che Lord Halifax indirizzò nel 1688 al Re d’Inghilterra, accusandolo di avere tradito il suo giuramento di rispetto verso le libertà popolari, per non avere il Re voluto dare esecuzione a leggi approvate dal Parlamento, senza il consenso del Parlamento stesso; per avere istituito con ordinanze tribunali speciali; per avere oppresso la libertà di parola e di discussione. Il nuovo Re d’Inghilterra, Guglielmo Maria, succeduto a Carlo I, a chi gli presentò le dichiarazioni di Lord Halifax disse che gli piacevano e che voleva vederle sanzionate dal Parlamento onde fossero perpetuate nel Regno. Sono passati 256 anni da quel giorno e le guarentigie parlamentari e liberali che furono allora concesse sotto la pressione della volontà del popolo dal regnante sono state rispettate. È in conseguenza di quelle dichiarazioni e di quella accettazione del regnante che in Inghilterra era ieri al potere un Governo conservatore, vi è oggi un Governo laburista, vi sarà domani quell’altro Governo che sarà stato espresso dalla volontà popolare. Preferisco quelle dichiarazioni e quella leale accettazione di Re agli immortali principi della rivoluzione francese, che non valsero a risparmiare alla Francia due successive dittature, del primo e secondo Napoleone e che oggi hanno portato ad una Camera unica con poteri di Convenzione, i cui risultati auguro possano essere buoni, ma che potranno anche essere risultati di tirannia. In Italia fra il 1848 e il 1922 abbiamo vissuto una esperienza simile a quella inglese, e non dimentichiamo che lo statuto elargito da Carlo Alberto nel 1848 subì delle trasformazioni che furono altrettante conquiste della volontà popolare. Nel 1848 furono istituite due Camere. Un giorno in cui il Senato manifestò velleità di crisi ministeriale, il Presidente del Consiglio del tempo, De Pretis, affermò che il Senato non può provocare crisi, e da allora fu tolta al Senato ogni possibilità di rovesciare il Governo. Il Governo del 1922 era molto diverso da quello del 1848. Il Re accettava le designazioni dei ministri e lasciava che il Governo esplicasse liberamente la sua attività.
I tempi moderni non consigliano di ripetere esperienze antiche ma noi che siamo fautori dell’istituto monarchico per convinzione abbiamo il dovere di dire al monarca che egli sia quello che noi vogliamo e di ripetere soltanto la forma del monito che i fueros spagnoli rivolgevano al loro sovrano.
Se mi permettete io leggerò una formula di ideale monarchico quale si dovrebbe rivolgere al re:
«Noi, ognuno dei quali è uguale a te e che tutti insieme siamo più di te, dichiariamo e vogliamo che tu sia re per la difesa di tutti noi contro chiunque di noi si eriga ad oppressore nostro e contro la follia di noi stessi se, per avventura, ci persuadessimo a rinunciare alla nostra libertà. Se tu sarai re per difendere noi e la nostra libertà noi ti saremo fedeli, perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi, ai nostri avi e ai nostri figli. Ma se tu non sarai il re che noi vogliamo, sappi che non basterà più l’oblio a lavare le tue colpe».
Così ha il dovere di parlare chi si accinge a dare il suo voto per la conservazione della monarchia.