Inaugurazione sede Istituto tecnico “Luigi Einaudi”
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1959
Inaugurazione sede Istituto tecnico “Luigi Einaudi”
Provincia di Torino, Istituto tecnico “Luigi Einaudi”, Torino, 1959, pp. 11-15
Ringrazio i presenti della così cortese accoglienza e ringrazio gli amici Grosso e Medici per le buone parole che hanno voluto dire a mio riguardo. Certamente questa giornata è per me di commozione.
L’inizio del mio insegnamento, non qui ma nel vecchio edificio di corso Oporto, risale al principio di questo secolo. Quelli i quali, giovani come sono, vedranno il sorgere dell’altro secolo rivedranno ancora le polemiche che in quel tempo, nell’anno 1900, si combatterono per discutere se quello fosse l’ultimo anno del secolo XIX o il primo del secolo XX. Io non le rivedrò quelle polemiche, ma sono ancor fisse nella mia mente e nel mio ricordo.
L’Istituto Tecnico Sommeiller, come era allora, era cosa assai più modesta di quello che è oggi, ma gli uomini che vi insegnavano non erano uomini di poco conto. Io ne ricordo parecchi: l’insegnante di letteratura italiana Molineri, che aveva dato alla poesia italiana ed alla poesia piemontese un contributo notevole ed era annoverato tra i migliori di una scuola piemontese letteraria la quale aveva fiorito fra il 1880 e il 1900. Insieme con lui, insegnanti nel ramo di storia, erano Bragagnolo e Bettazzi, che scrissero una Storia di Torino la quale emulò quella antica del Cibrario e ancor oggi merita di essere letta. Professore di matematica era il padre di una nostra allieva, la Prof. Bizzarri, morta, troppo giovane, all’Università di Siena; egli era un valoroso uomo, il quale nell’insegnamento della matematica nelle scuole medie aveva lasciato una traccia. E insieme con lui vi erano altri nomi: ricordo, fra tutti, colui che era in quel tempo considerato il principe dei ragionieri (allora non esisteva ancora il ceto dei dottori commercialisti, e la carriera scolastica degli aspiranti ragionieri, che eran poi i commercialisti di oggi, si limitava a questo istituto tecnico); il Prof. Gitti aveva fama non solo in Torino ma in tutta Italia di uno dei primi cultori di questa materia e uno dei primi esercenti la professione. Tutti, forse, ancora hanno qualche volta consultato il vocabolario italiano-francese e francese-italiano dei professori Ghiotti e Dogliani; questo vocabolario credo che corra ancora per le scuole, ed era stato scritto da insegnanti dell’Istituto Tecnico. E ricordo pure il Prof. Aimonetti, tuttora vivente, valoroso insegnante di topografia.
Da quanto ho sentito qualche mese addietro dall’egregio preside di questo istituto, l’insegnamento di oggi è una cosa più pratica, forse più efficace di quello che non fosse l’insegnamento, in gran parte solo verbale, di quell’epoca. Io sento dire che oggi sono usati metodi di insegnamento delle lingue per mezzo di dischi, cosicché gli studenti possono imparare dalla dizione diretta di persone appartenenti alla Francia, all’Inghilterra o alla Germania, dalla viva voce di queste persone, come si studi una lingua. Quindi io credo che i metodi che sono usati oggi negli istituti tecnici per questo insegnamento fondamentale siano assai più efficaci di quel che non fossero gli insegnamenti di un tempo. E hanno bisogno di essere più efficaci; non so se a me tocchi di fare una predica, che forse è inutile, in questa occasione, ma queste mie osservazioni sono mosse da una antica ripugnanza che io sento per le grammatiche e le sintassi; qualche volta dei miei nipotini mi han fatto vedere dei terrificanti libri di grammatica e di sintassi, trecento pagine, duecentocinquanta pagine; erano libri di latino ed italiano, ma le stesse osservazioni si possono fare per l’insegnamento delle lingue straniere vive: francese, inglese e tedesco.
Ogni volta che io apro una di quelle grammatiche, di quei volumi di trecento pagine destinati ad insegnare regole ed eccezioni, io resto terrorizzato. Quando mai per imparare l’italiano io ho studiato delle grammatiche così lunghe, ho imparato tutti quei nomi, tutte quelle eccezioni, quelle regole, quei casi e quei non casi, quei verbi ecc., tutte cose che nessuno di noi nella vita ricorda? Ognuno di noi ha imparato a parlare ed a scrivere italiano senza bisogno di ricorrere alla grammatica. E questo mio convincimento è un convincimento non soltanto mio ma di uomini che nella letteratura lasciarono una traccia assai profonda.
Io ho già riprodotto, – ma lo voglio rileggere, – un brano di Montaigne, il grandissimo scrittore francese, il prototipo di tutti coloro che hanno scritto saggi e pensieri. Egli, in una di queste pagine dei suoi Saggi immortali, parlando del latino – ma la stessa cosa si può dire di qualsiasi altra lingua – scrive sul modo che fu tenuto da suo padre, che non era un latinista, che non era un dotto, ma era un uomo pratico, un commerciante, uno che attendeva alle cose proprie, ma era fornito di molto buon senso. Sapeva, il padre, che a quei tempi era necessario imparare la lingua latina, ma non gli piacevano i metodi scolastici, e non piacquero mai neanche a Montaigne in tutta la vita. Quale fu l’espediente che usò il padre di Montaigne per insegnargli il latino?
«L’espediente fu che, essendo io ancora a balia e innanzi la lingua mi si sciogliesse, mi affidò ad un tedesco, morto poi in Francia in fama di medico reputato, ignorantissimo della nostra lingua e versatissimo nella latina. Costui, chiamato all’uopo con grosso soldo, mi teneva di continuo in braccio. Con lui stavano, per essermi sempre vicini, a sollievo suo, due altri men dotti, i quali mi discorrevano sempre in latino. Nella casa, era poi regola inviolabile che né lui stesso, né mia madre, né i valletti, né la cameriera mi facessero motto se non in latino, nel gergo appreso all’uopo. Tutti ne trassero meraviglioso frutto. Mio padre e mia madre appresero tanto latino quanto bastava per intenderlo e per servirsene all’occorrenza; e così pure i domestici, più direttamente applicati al mio servizio. Tanto fecimo, ciangottando latino, che ne furono pieni i villaggi dintorno; dove si radicarono e rimasero nell’uso, per indicare artigiani e arnesi, non pochi vocaboli latini. Quanto a me, passati i sei anni, sapevo di francese o di dialetto perigordino tanto quanto di arabo. Così, senza bisogno di scuola, di libri, senza grammatica e senza regole, avevo imparato a parlare in un latino puro come quello del mio pedagogo; né potevo averlo mischiato od alterato. Se mi volevano dare un tema da svolgere, invece di darmelo, come si usa nelle scuole da noi, in francese, dovevano formularlo in cattivo latino, perché io lo volgessi in buona lingua».
Questo è l’insegnamento per cui a sei anni Montaigne parlava latino, come poi parlò e scrisse in francese. L’esperienza che egli fece dopo non fu buona: suo padre si vide costretto a mandarlo allievo nel migliore dei collegi che esistevano nella regione. Il frutto fu quello che Montaigne così descrive: «Mio padre non avrebbe potuto darsi più da fare di quanto operò, sia nella scelta dei migliori precettori, sia nelle cure che toccavano il vitto, per il quale aggiunse e riformò parecchio rispetto all’uso dei collegi. Non vi fu rimedio; ché quello era pur sempre collegio. Il mio latino d’un subito si imbastardì e per il disuso ne perdetti del tutto l’abito. Quel mio singolare tirocinio giovò soltanto a farmi, d’un salto, giungere alle classi più alte; ma a tredici anni, quando uscii dal collegio, avendo compiuto quelli che essi chiamavano il mio corso, non avevo tratto dalla scuola alcun frutto del quale io possa oggi vantarmi».
Io ho letto questo brano non per dire che l’insegnamento nelle scuole sia inutile, ma per rallegrarmi che oggi all’insegnamento orale nelle lingue si sia aggiunto il sussidio di un insegnamento fatto dalla viva voce di quelli che usano parlare nelle diverse lingue. I dischi, i fonografi e altri metodi di questo genere sono da preferirsi di gran lunga alle grammatiche di trecento pagine. Il giorno in cui le grammatiche e le sintassi delle diverse lingue potranno essere ridotte per gli studenti ad un centinaio di pagine, come era nei vecchi manuali che ancora si trovano nelle biblioteche antiche, dette di Porto Reale, io dirò che l’insegnamento delle lingue, fondamentale per questa scuola, sarà un insegnamento molto migliore di quello che si usava dare ai tempi miei.
E così per altri aspetti: sento dire che in questo Istituto commerciale e industriale l’apparato che è in uso a favore degli studenti, per quanto riguarda i banchi modello, i registri, la tenuta della contabilità, i conti di costo, è un apparato quale noi non ci sognavamo mai di avere. Quello che ho detto fino adesso non vuole però dire che l’insegnamento anche negli istituti tecnici debba sempre e soltanto essere un insegnamento cosiddetto pratico. Ricordatevi sempre – lo dico ai giovani – che non c’è nessun insegnamento migliore di quello che si abbia quando non si tende ad ottenere subito un risultato pratico. L’insegnamento vero è quello formativo, è quello che insegna ai giovani a ragionare, quello che insegna a capire quale sia il ragionamento buono e il ragionamento cattivo. Nella vita concreta, nella vita che condurrete poi in seguito, l’essere capaci a distinguere il vero dal falso, il ragionamento corretto dal ragionamento sbagliato, vi gioverà in tutti i casi; gioverà, non foss’altro, a scrivere le lettere, per coloro i quali saranno chiamati a tenere la corrispondenza di una ditta commerciale o di una ditta industriale, a tenere la corrispondenza in modo proprio e chiaro.
Perciò, quando io insegnavo all’Università e qualche giovane veniva a chiedermi l’argomento di una tesi di laurea, incominciavo a dirgli che l’argomento, in primo luogo, se lo doveva cercare nella sua testa, nei libri che aveva letto, o nei libri che avrebbe dovuto leggere; e come primo libro io gli indicavo non Montaigne, che è troppo lungo, ma I pensieri di Leopardi. Leggere i brevi pensieri di Leopardi – non più di un centinaio di pagine – e meditarli, serve sempre per la formazione mentale, serve per capire come si costruisce un periodo, come le parole vanno poste al loro luogo, come è opportuno – e necessario anzi – non usare una parola di più di quello che è necessario. Questo serve agli scrittori, i quali scrivono molte volte troppo a lungo; e oggi noi siamo costretti a leggere nelle colonne dei giornali corrispondenze le quali sono troppo lunghe, troppo sbrodolate, e hanno un contenuto troppo breve. Ma serve anche per voialtri, quando dovrete appunto rispondere a un corrispondente, e dovrete rispondere usando le parole più appropriate, e non una parola più dell’altra, e non un aggettivo inutile; serve in tutti i casi nella vita. L’insegnamento più fruttifero, – non dico il più fruttifero perché anche l’insegnamento pratico è necessario -, l’insegnamento il quale serve a utilizzare tutte le cose concrete che voi imparerete, è soprattutto l’insegnamento logico, quello che insegna a sapere come si deve formulare un ragionamento e come si deve giudicare il ragionamento degli altri. Dopo tutto, io penso di aver persino abusato della vostra pazienza, ma ho creduto opportuno di ricordare in questa sede anche un insegnamento che mi è sempre rimasto dinanzi agli occhi e mi è rimasto sempre vantaggioso.