Appunti per una relazione sugli articoli 6, 7, 8 e 9 (tassa sulle aree fabbricabili) del disegno di legge: «Provvedimenti per la città di Roma» presentati alla “Unione monarchica liberale Umberto I”
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1907
Appunti per una relazione sugli articoli 6, 7, 8 e 9 (tassa sulle aree fabbricabili) del disegno di legge: «Provvedimenti per la città di Roma» presentati alla “Unione monarchica liberale Umberto I”
Torino, Tipolitografia S. Bosio, 1907, pp. 34-52
Ragioni e limiti di questi appunti
Chiamato dalla Commissione speciale della Unione Monarchica Liberale Umberto I a scrivere un breve rapporto sulle disposizioni relative alla tassa (imposta) sulle aree fabbricabili contenute nel disegno di legge, Provvedimenti per la città di Roma (proposto in seduta 12 marzo 1907) e modificate nella relazione della Commissione parlamentare (relazione D. Pozzi), chieggo anzitutto scusa se la brevità del tempo mi costringe: I) a ridurre la relazione ad alcuni pochi appunti; II) a riprodurre in parecchi luoghi quanto ebbi a scrivere nei numeri del 20, 24 e 28 maggio corrente del giornale il Corriere della sera ed altresì alcuni brani dello studio pubblicato dall’avv. Alberto Geisser nella Riforma Sociale del 15 maggio su L’imposta sulle aree fabbricabili e il nuovo progetto di legge per Roma. Premetto ancora che queste mie osservazioni sono mosse dal desiderio che l’esperimento che si va facendo in Italia dell’imposta sulle aree pubbliche fabbricabili sia tale da riuscire fecondo di utili risultati e non sia frutto di affrettati ed empirici tentativi di porre inadeguatamente e tumultuariamente riparo a quel malanno del rincaro degli affitti contro cui tutti gridano, senza curarsi spesso di indagarne le complesse e profonde ragioni. Chi scrive, fin dal 1898, in un articolo su La municipalisation du sol dans les grandes villes, pubblicato nel Devenir social di Parigi, e poi nel 1900 in Questioni intorno all’imposta sulle aree edilizie, pubblicato in Riforma Sociale di Torino, e ancora in Studi sugli effetti dell’imposta (Torino, Bocca, 1903) ha propugnato e cercato di chiarire il concetto e gli effetti dell’imposta sulle aree fabbricabili. La proposta dell’istituzione di questo nuovo tributo, che nella dottrina era stata in Italia anche da altri largamente discussa, fu tradotta in fatto colla legge dell’8 luglio 1904. A diminuire il piacere che ogni studioso sente vedendo tradotti in pratica i concetti da lui per lo innanzi teoricamente manifestati, è divenuto anzitutto il modo con cui l’imposta fu applicata per la prima volta in Italia, e più ancora è venuto ora il disegno di legge per Roma che quei difetti grandemente aggraverebbe. Mi sia lecito perciò di dire le ragioni per le quali con l’adozione di questo disegno di legge si farebbe un passo indietro nella nostra legislazione tributaria.
Sul concetto informatore dell’imposta
La plusvalenza secondo il relatore on. D. Pozzi
e gli elementi del valore delle aree
La proposta indubbiamente più importante è l’elevazione dell’aliquota dall’1 al 3% del valore capitale delle aree colpite.
Il relatore on. D. Pozzi sembra credere che, essendo stata esclusa dall’imposta la prima lira di valore del terreno per metro quadrato, corrispondente al valore agricolo del terreno, l’imposta del 3% colpisca soltanto la plusvalenza delle aree edilizie. «Di vero – egli scrive – la tassa si applica in proporzione del valore o meglio del plusvalore, dipendente dalla comprensione delle aree nel piano regolatore (aree di posizione). Donde la conseguenza che le aree meno eccentriche avranno un maggior valore capitale e quindi, verranno in proporzione gravate di tassa maggiore, in confronto di quelle più eccentriche. Le aree bene servite da strade avranno maggiore il plusvalore di posizione in confronto di quelle che non godranno di cosifatta comoda accessibilità, e però saranno proporzionalmente colpite da tassa diversa, quanto diverso il rispettivo valore. E che d’altra parte apparisca giusto il colpire di tassa speciale il plusvalore che ad un’area sia derivato, non già per il lavoro o per il miglioramento, non già insomma per merito o per opera del proprietario, ma semplicemente per un fatto completamente a lui estraneo, quale il fatto del Comune di averla compresa nel piano regolatore, non ha davvero bisogno di dimostrazione».
Da qui il relatore deduce che, in applicazione del principio equitativo, che condanna come non lecita la locupletazione ai danni altrui, sia giusto colpire con l’imposta del 3% all’anno tutto l’intiero plusvalore dei terreni compresi nel piano regolatore al disopra della prima lira per metro quadrato.
Ora è vero che ognuno è padronissimo di dare alle parole il significato che crede: ma è anche vero che, secondo le più elementari nozioni correnti in questa materia, l’on. Pozzi ha confuso, indicandoli collo stesso vocabolo plusvalore, parecchi fatti tra di loro diversi. Ed, invero il valore di un m. q. di terreno in una grande città possiamo considerarlo nel momento attuale, quando cioè si inizia un nuovo piano regolatore, composto dei seguenti elementi:
1) il valore agricolo, che il progetto presume in massima di 1 lira al m. q., presunzione che si può accettare, in genere, quantunque molti ortolani vicini alle grandi città avrebbero, pur prescindendo da ogni intento speculativo edilizio, ragione di lagnarsi di spogliazione, ove, fossero espropriati a quel prezzo, soventi inferiore alla capitalizzazione del reddito che possono colla loro industria, ricavare dal terreno;
2) il valore edilizio che l’area acquistò in passato, in conseguenza di precedenti piani regolatori, oppure di precedenti opere pubbliche (sistemazioni di vie, di fognature, di illuminazione ecc.), compiute dagli Enti pubblici;
3) il valore edilizio che l’area ha già acquistato in passato, ossia fino al momento attuale, per cause indipendenti da opere pubbliche compiute dagli Enti pubblici. O non è risaputo che i fitti e le aree aumentano in conseguenza dell’aumento della popolazione, delle ricchezze, dei traffici ecc.? È codesto un elemento diverso da quello dell’opera pubblica e che, se senza l’opera pubblica non riuscirebbe forse a farsi valere, insieme con essa contribuisce assaissimo all’incremento dei valori edilizi;
4) il valore edilizio che l’area ha già acquistato in passato, per iniziative ed opere di privati imprenditori. A questo riguardo credo opportuno citare dallo scritto dell’avv. Geisser il brano seguente, che mi sembra caratteristico:
«Se è vero che il plusvalore delle aree urbane è dovuto essenzialmente all’opera della collettività, cioè al semplice costituirsi ed accrescersi delle aggregazioni urbane, non si può né si deve disconoscere che, anche in questo campo, l’iniziativa e la intraprendenza individuale (di singoli o di società speculative) ha arrecato vantaggi notevoli accelerando in modo molteplice il dischiudersi di nuove zone fabbricabili, il sorgere di interi rioni, in una parola, lo estendersi della città. Chi abbia conoscenza della storia dello sviluppo edilizio delle grandi città, non lo revocherà in dubbio. I privati hanno, anche in questo campo, fatto bene spesso più presto e meglio di quanto solo tardamente ed in modo in molto più inadeguato avrebbero iniziato e compiuto gli enti municipali. Ed il vantaggio pecuniario spesso notevole, che i privati ricavarono così dal plusvalore delle aree da essi stessi valorizzate, deve riconoscersi giusto compenso all’iniziativa loro, ai capitali esposti, ai rischi incorsi. Ed invero il rischio è grande e bene spesso si è tramutato in perdite ingentissime.
Per citare un unico esempio, il felicissimo sviluppo edilizio della città di Milano verso il Foro Bonaparte e l’attuale piazza d’armi, devesi attribuire alla mente geniale, all’opera pertinace di un individuo, il rimpianto ingegnere Clemente Maraini. E questi lo fece in vista di un adeguato compenso, che fu effettivamente mietuto dalla Società Fondiaria Milanese da lui promossa.
È da ritenersi però che, senza l’opera e la speculazione, nel senso migliore, dell’ing. Maraini, molto probabilmente il Municipio di Milano non avrebbe seguito quell’indirizzo. E così è a dire, sempre per Milano, ancora del quartiere posto dietro la Stazione centrale; per Roma, del quartiere industriale ed operaio sorto in giro al monte Testaccio, ecc. ecc. Riassumendo, i Municipi, nove volte su dieci, non fecero che seguire gli stimoli e le iniziative pertinaci dei singoli, i quali erano mossi da mire speculative. Ben vero, casi di vedute lungiveggenti e geniali potranno avverarsi ancora da parte di individui, anche quando il frutto ne venga mietuto dal solo ente collettivo. Ma chi vorrà credere e onestamente sostenere che l’altruismo, lo zelo di impiegati stipendiati, la devozione al bene pubblico avranno mai, ancora per secoli e secoli, la stessa potenza del tornaconto privato?»;
5) il valore edilizio ulteriore che al momento attuale i terreni vanno acquistando nell’opinione dei loro possessori per fatto della presentazione e della approvazione del piano regolatore;
6) il valore edilizio ulteriore che al momento attuale i terreni vanno acquistando nell’opinione dei loro possessori i quali scontano gli effetti degli aumenti futuri di popolazione, di ricchezza, di traffici della città. Se poi noi spingiamo lo sguardo, nel futuro noi potremo aggiungere a questi elementi del valore attuale, i seguenti elementi dei valori futuri che a mano a mano col tempo si realizzeranno;
7) la capitalizzazione dei vantaggi effettivi arrecati dal nuovo piano regolatore e dalle future opere pubbliche;
8) la capitalizzazione dei vantaggi effettivi arrecati dall’incremento della popolazione, dalla ricchezza, ecc.;
9) la capitalizzazione dei vantaggi effettivi arrecati dall’energia e dall’iniziativa degli imprenditori edilizi.
Quale di questi elementi può formare oggetto di tassazione? Se noi eccettuiamo coloro i quali vogliono confiscare la proprietà privata, quella ricchezza che ha già formato oggetto di compre vendite, che è già entrata nel patrimonio dei singoli, noi possiamo ammettere come riconosciuto unanimemente da tutti i teorici e pratici che si sono occupati di questo argomento che la imposta sulle aree fabbricabili non può colpire gli elementi segnati sotto 1, 2, 3, 4, e deve colpire gli elementi segnati sotto 7, 8 e 9. Non può colpire i primi perché si opererebbe una confisca della proprietà privata, inutile dal punto di vista sociale, essendo impossibile distruggere i valori di terreni che già si sono formati ed essendo possibile solo operarne il trasferimento da una persona all’altra. Deve colpire gli elementi 7, 8 ed anche 9 poiché si tratta di incrementi di patrimonio o dovuti all’opera del Municipio o all’influenza della popolazione cresciuta o all’opera individuale, ma in ogni caso di incrementi di patrimonio che non devono sfuggire all’imposta. E l’imposta, nel parere di chi scrive, per questi incrementi futuri può essere forte poiché in gran parte si tratta di incrementi di patrimonio non dovuti all’opera individuale sibbene all’opera della collettività.
Dubbi invece possono sorgere rispetto agli elementi 5 e 6. È certo che già nel valore attuale dei terreni edilizi oltre agli elementi del valore passato è compenetrata qualche parte degli elementi futuri. Chi compra e vende sconta nel prezzo anche i benefici di una strada futura che il Comune aprirà in conseguenza del piano regolatore. Quindi, come incrementi dovuti ad avvenimenti futuri, questi andrebbero colpiti dalla tassazione; ma colpendoli si corre il rischio di confiscare parte di una proprietà che l’acquisitore ha indubbiamente pagato con capitali proprii, risparmiati, mentre si lascerebbe esente il venditore che è il vero beneficiario di questi avvenimenti futuri.
Nella pratica però questi dubbi non hanno grande importanza, perché coloro che si sono occupati di questa materia hanno finito per concludere che l’imposta sulle aree fabbricabili, in qualunque modo sia costituita, sia sul valor capitale totale, sia sull’aumento di valore accertato a periodi fissi, sia sull’aumento di valore accertato all’epoca dei trasferimenti della proprietà, debba essere congegnata in guisa da portar via al proprietario non già i valori passati, ma solo una parte dell’aumento che di anno in anno si verifica. Insomma, si consolida lo statu quo. Si riconosce che per il passato nessuno mai si è preoccupato di questo fenomeno, che quindi gli incrementi passati sono entrati nel patrimonio dei privati. Ma si aggiunge: per il futuro altra sarà la politica dei Municipi. A questi dovrà aspettare, sia per mezzo di tasse sia in altre maniere, fra cui la costituzione di un demanio comunale, parte dell’incremento di valore delle aree edilizie. Ed in fondo il dividere con un taglio netto il passato dal presente è ottima, lungiveggente politica. Noi non possiamo prevedere a quali altezze arriveranno i valori delle aree. Se un’area oggi vale 10 lire al mq giova riconoscere che esse spettano al proprietario attuale; poiché una spogliazione, comunque avvenga, è sempre socialmente causa di danni economici maggiori di quel momentaneo utile pecuniario che essa può procacciare allo spogliatore. D’altro canto il Municipio afferma però la sua volontà di percepire in futuro parte di tutti gli incrementi, e possono essere grandissimi, che si verificheranno al disopra delle 10 lire.
Quali aree dovrebbero essere colpite: quali invece sono colpite coll’imposta attuate dell’1%, ingiustizia di questa imposta ed a fortiori di quella del 3 per cento
Aggiungiamo qui, a complemento di quanto sopra si disse, che non solo sarebbe una spogliazione iniqua il tassare i valori passati (già esistenti cioè al momento attuale) ma non sarebbe utile nemmeno colpire le aree, che pur avendo un valore passato, non aumentassero di pregio in avvenire. Tutti quelli che si sono occupati di questo argomento sono d’accordo nel ritenere che quando le aree non aumentano di valore, non c’è ragione di allarmarsi dal punto di vista sociale e neppure di mettere delle imposte. Se le aree fabbricabili sono stazionarie, è segno evidente che la popolazione non cresce e che non c’è bisogno di costruire nuove case. Se questo bisogno vi fosse, i proprietari di aree sarebbero ben lieti di soddisfarlo, poiché non è certo piacevole tenere i capitali investiti, in maniera improduttiva, in aree le quali non danno nemmeno la speranza di un aumento di valore. Il problema delle aree fabbricabili nasce soltanto quando pel crescere continuo della popolazione, degli affari e della ricchezza i fitti delle case crescono e cresce la possibilità di utilizzare le aree con grande profitto.
La speculazione si impadronisce allora delle aree, a cui è annessa la speranza di un aumento di valore, ed inacerbisce il fenomeno dell’aumento di valore, accaparrando le aree e mettendole sul mercato a spizzico, in maniera insufficiente, in guisa da provocare nuovi aumenti. Di qui la fame di terra edificabile, caratteristica di tutte le grandi città: di qui le imposte sulle aree edilizie, il cui intento è doppio: I) di far contribuire alle spese comuni coloro che hanno un reddito, consistente nell’aumento di valore delle loro aree, reddito che altrimenti rimarrebbe immune dall’imposta: II) di scemare la speranza di lucro dei detentori speculatori di aree e quindi di deciderli più presto a metterle sul mercato.
Il nostro legislatore ha creduto conveniente di colpire l’aumento di valore delle aree indirettamente mettendo un’imposta dell’1 per cento sul valore totale delle aree. Il tasso sembra mite, ma in realtà non è. Poiché un’area del valore di lire 100 al metro quadrato aumenterà in media di 4 o 5 lire all’anno di valore, e quindi un’imposta di 1 lira all’anno se è dell’1 per cento sul valor capitale, è del 25 o 20 per cento sullo sperato aumento di valore. Ho detto sperato perché l’area può magari aumentare di valore più rapidamente, ma può non aumentare affatto; cosicché l’imposta attuale si può dire colpisca del 20/25 per cento l’aumento medio annuo presunto. Teoricamente sarebbe stato meglio colpire senz’altro con 20-25 per cento, l’aumento effettivo di valore; ma, essendo sembrato praticamente difficile di accertare l’aumento annuo, si preferì colpire coll’1 per cento il valore capitale totale, che è di più facile accertamento e si presta meno alle frodi. Naturalmente siccome in questa maniera si dovette fare la presunzione che tutte le aree aumentassero di valore in proporzione al valore capitale e siccome questa presunzione non è vera, né risultò che l’imposta dell’1 per cento corrisponde, per le aree che aumentano poco o nulla, magari al 50 od anche al 100 per cento dell’aumento annuo e, per le aree, che aumentano assai, forse soltanto al 5 o al 10 per cento dell’aumento stesso. Cosicché l’imposta avrebbe potuto essere uno stimolo efficace a vendere le terre nelle città e nelle località dove le terre crescevano poco di valore, e diventava uno stimolo inefficace per le località a rapido sviluppo, dove la speranza di aumenti futuri di valore è più forte del dispiacere di pagare la imposta e di perdere gli interessi correnti sul capitale investito.
Si capisce dunque, che l’imposta dell’1% sul valore sia stata inefficace a spingere alla costruzione di case. In verità il periodo di tempo trascorso dalla applicazione della legge è troppo breve perché si possa ricavare una qualsiasi conseguenza dai fatti finora svoltisi. Ma il semplice buon senso basta a far vedere che l’imposta poteva soltanto avere un qualche effetto laddove era inutile che l’avesse, ossia nei rioni dove le aree non salgono di valore.
Avrà qualche migliore effetto e sarà più giusta l’imposta elevata al 3%? Se l’aumento dell’imposta dall’1 al 3 per cento può significare una maggior pressione a vendere sui detentori anche delle aree più promettenti, le cose dette sopra dimostrano innanzitutto che essa aggraverebbe in modo incomportabile l’ingiustizia insita nell’attuale sistema. Un’imposta infatti del 3 per cento sul valore capitale delle aree, corrisponde in media ad un’imposta del 60-75 per cento sull’aumento annuo presunto di valore delle aree che in media non si può supporre maggiore del 4 o del 5 per cento. Occorre infatti notare che questi aumenti consistono in gran parte di speranze e non ancora di fatti. Un’imposta del 3 per cento sul valore intiero dell’area può dunque essere un disastro per chi alle speranze non vede corrispondere i fatti, e sarà magari obbligato a pagare 3 lire d’imposta per un’area che è aumentata di valore solo 2 o 3 lire o magari non è aumentata affatto. Invece chi detiene terreni in rapido sviluppo pagherà 3 lire per un’area che è aumentata di 8, 10 e più lire all’anno. Se questa sia giustizia tributaria, lascio indicare a tutti. Portata a questa inverosimile ed uniforme altezza, l’imposta non è più uno stimolo a spingere alla fabbricazione ma è una multa che i Comuni adoperano per battere e vessare alla cieca i proprietari di aree edilizie, solo perché tali. Finora l’essere proprietari di aree non era ancora un delitto. Lo diventerà colla nuova legge per Roma. Può darsi che questo sia per taluni un bel costrutto da cavarsi dalle leggi; ma non deve sembrar tale a coloro i quali ritengono che le imposte debbano avere una certa proporzione colla capacità contributiva. Poiché l’unico indice della capacità contributiva è qui la probabilità di aumento delle aree, è chiaro che un’imposta del 3 per cento sul valore capitale graverebbe sui proprietari in ragione inversa ai questa probabilità. Accadeva lo stesso già coll’aliquota dell’1 p. cento; ma, essendo l’imposta più tenue, la ingiustizia era meno stridente. Gli effetti dell’imposta del 3% provocherà la fabbricazione di case signorili e diminuirà la costruzione di case popolari.
Quanto agli effetti suoi, dobbiamo anzitutto notare che essa certamente significherà per i detentori una diminuzione di valore attuale delle loro aree. L’esserci un’imposta non mette in grado lo speculatore di vendere fra uno, due, tre o x anni la sua area ad un prezzo più elevato. Egli la venderà fra quel tempo al prezzo che sarà consentito dalle condizioni del mercato. Siccome però egli nel frattempo ha dovuto perdere interessi al 4% e pagare imposte al 3% del valore iniziale, il valore iniziale attuale sarà per lui minore (in confronto al valore finale) di tutto l’ammontare degli interessi e delle imposte scontate al momento presente. Ecco l’effetto dell’imposta: senza di essa il valore attuale sarebbe più basso del valore futuro di tutto l’ammontare degli interessi scontati; con essa il valore attuale si riduce ancora di tutto l’ammontare dell’imposta scontata[1]. Cosicché l’imposta diminuirà il valore attuale delle aree; e darà così una spinta alla fabbricazione, in quanto il costo delle aree è uno degli elementi del costo della fabbricazione delle case.
Ma per quali aree la spinta sarà maggiore? Evidentemente per quelle per cui sia minore la probabilità di aumento di valore, poiché per esse l’imposta assorbirà tutta o gran parte di quella speranza che manteneva viva la speculazione. Già adesso chi abbia un’area del valore di 100 lire al mq., che aumenti ogni anno di valore del 4 o del 5 per cento, ha un mediocre interesse a continuare a tenere vuota l’area, perché identico e forse più cospicuo frutto del suo capitale ritrarrebbe con altri impieghi. Figuriamoci cosa succederà quando l’imposta gli porterà via inesorabilmente 3 delle sperate 4 o 5 lire di aumento!
Ora quali sono le aree per cui le speranze di aumento di valore sono più forti? A me pare di non fare una affermazione azzardata ritenendo che gli aumenti di valore siano proporzionalmente tanto meno elevati in generale quanto più è elevato il valore iniziale unitario. Dura maggior fatica un’area da 100 lire al mq. a passare a 110 che una di 20 a salire a 22 ed una di 5 a 5,50. Le aree di maggior pregio si trovano in centri già popolosi, con vie ben tracciate e costrutte, con impianti fatti di acqua, fognatura, illuminazione. Tutte queste comodità sono già state valutate e capitalizzate nel valore dell’area, la quale aumenta soltanto più per il naturale e tranquillo incremento circostante della popolazione e degli affari. Invece, dove le aree valgono poco si possono, è vero, commettere degli sbagli colossali; ma si possono pure fare delle fortune parimenti colossali. L’impianto di una fabbrica, l’apertura di una strada, il prolungamento di una tramvia, la introduzione dell’illuminazione, ecc., ecc., sono tanti argomenti di rialzo dei terreni. Nelle località relativamente concentriche non sono possibili i grandi sbalzi che si hanno alla periferia. Chi volesse far dei nomi potrebbe più facilmente ricordare gente fattasi milionaria in breve ora con terreni di valore iniziale basso, che su terreni da 50, 100 e più lire il mq.
L’imposta del 3 per cento spingerà dunque assai più a buttare sul mercato aree di un valore unitario elevato che aree di basso prezzo. Saranno i proprietari di aree da 50, 100 e più lire al mq. i primi ad infastidirsi, piuttosto che i detentori di aree da 5, 10 e 20 lire. Per seguire i dati della Giunta di Milano, a me sembra che una imposta del 3 per cento farebbe costruire i 220 mila mq. di aree entro i bastioni da L. 3 in media al mq. più presto dei mq. 1.577.000 del già circondario esterno a L. 17 e dei 440 mila mq. della zona del nuovo piano d’ampliamento a L. 5 il mq. Il che se potrà sembrare utile ai fini dell’euritmico e regolare sviluppo della città, produrrà un inconveniente forse non previsto da quelli che vogliono aumentare l’imposta sulle aree per favorire la costruzione di case popolari: che cioè sarà dato ai costruttori privati un impulso maggiore di quello già esistente ad erigere case su terreni di alto valore. Oggidì molti preferiscono costruire case su aree di poco valore non perché le prediligono, ma perché le aree più centrali sono troppo care. Fate sì che l’imposta costringa i detentori delle aree centrali a metterne in maggior copia sul mercato, ed i costruttori si ripiegheranno nuovamente verso le aree centrali, che da 100 saranno discese ad 80, 70 lire al mq. La conclusione forse non era prevista da chi propose l’aumento al 3%, ma sembra a me inoppugnabile: l’imposta cioè farà diminuire assai più il valore delle aree care che delle aree a buon mercato e quindi spingerà sovratutto alla costruzione di case sulle aree care.
La conclusione non mi pare sia lieta per le classi operaie. Su aree care, sebbene meno care di prima, non si costruiscono case operaie con fitti a buon mercato; ma case signorili, locali commerciali, ecc., ecc.
A suffragare questa dimostrazione, ricordisi che la proporzione del valore dell’area al valore totale delle case è quasi irrilevante per le case operaie; e quindi una diminuzione del valore dell’area (e sopra vedemmo che la diminuzione sarà piccolissima per le aree a buon mercato su cui si erigono le case popolari), non potrà avere influenza a spingere alla fabbricazione. Un Comitato di proprietari romani in una sua memoria (dei fatti ricordati nella quale il relatore della legge ha avuto il torto gravissimo di non tenere inesplicabilmente il menomo conto) analizza il costo di una casa popolare di cinque piani, da costruire fra piazza San Giovanni e via Emanuele Filiberto. Si tratta di un isolato di mq. 2167 dei quali 588.74 occorrono per i cortili. Assumendo come costo di costruzione quello delle case dei ferrovieri a Santa Croce in Gerusalemme, che per un caseggiato di cinque piani è risultato di lire 365 ogni metro quadrato per la costruzione, e di L. 5 per ogni metro quadrato per l’area, si ha un costo dell’area di L. 10.835 e della costruzione di L. 575.970 ed in tutto di L. 586.970. Il costo per ogni vano risulta di L. 2.024 che al saggio del 4% deve essere compensato con una pigione mensile di L. 6,74. Se l’area costasse lire 10 ogni metro quadrato invece di L. 5, la pigione mensile dovrebbe essere di L. 6,86; se l’area costasse L. 20 ogni metro quadrato la pigione dovrebbe essere di L. 7,11; se l’area costasse L. 30 ogni mq. la pigione dovrebbe essere di L. 7,36. Escluse, s’intende, le tasse, la manutenzione, l’illuminazione, acqua, portiere, assicurazione incendi e la probabile quota per le strade.
E il Comitato conclude giustamente: «la riduzione nel prezzo dell’area, per quanto notevole, non permette di raggiungere lo scopo in vista del quale sono state predisposte le nuove disposizioni legislative. Sono gli altri fattori del costo di costruzione che hanno una azione efficacissima, e sono essi che distolgono il capitale da questa forma d’impiego immobiliare». Invece la diminuzione del valore delle aree in conseguenza dell’imposta del 3% potrà essere notevole per le aree care, da 50 lire in su, che prima erano tenute nude nella speranza di un aumento che lentamente si verificava, dato il punto elevato a cui si era già arrivati.
L’imposta potrà agire come stimolo alla costruzione di case; ma saranno, come sopra si disse, case ricche, villini, ecc.
Ora il capitale impiegato nell’industrie edilizie non è illimitato. Troppi motivi lo inducono già a preferire le case ricche alle case operaie. Con l’imposta al 3% noi aggiungeremo un altro ai fortissimi incitamenti già esistenti a che i costruttori prediligano la costruzione di case ricche. È questo lo scopo che hanno voluto raggiungere i fautori dell’imposta al 3%; e non è invece diametralmente contrario alle loro aspirazioni a fomentare la costruzione di case popolari? In verità, raramente così poco studio e tanta avventatezza furono poste a servizio di una buona causa. Sarebbe stato, non dico giustificabile, ma spiegabile una violazione così aperta dei principi di giustizia tributaria ed una spogliazione iniqua della proprietà privata, quando almeno avesse giovato a raggiungere lo scopo di favorire le costruzioni popolari.
Non solo invece è impossibile raggiungere lo scopo; ma per giunta è probabilissimo si abbia a favorire vieppiù le costruzioni signorili!
La facoltà di espropriazione al valore dichiarato
Conseguenze enormi dell’invariabilità della dichiarazione per 25 anni
Un altro punto importante del presente disegno di legge sta nella facoltà di espropriazione concessa ai Municipii. Qui è prezzo dell’opera mettere a confronto gli artt. 8 e 9 come furono proposti dal Governo e modificati dalla Commissione della Camera:
Governo | Commissione |
Art. 8. |
Art. 8. |
L’accertamento degli enti soggetti alla tassa sulle aree nel comune di Roma sarà fatto in base a denunzia del proprietario di esse, il quale dichiarerà il valore da attribuirsi all’area. Alla omissione della denuncia suppliranno le autorità comunali con accertamento di ufficio da farsi in base a regolamento da approvarsi per decreto reale. | L’accertamento degli enti soggetti alla tassa sulle aree nel comune di Roma sarà fatta in conformità a denunzia del proprietario il quale dichiarerà con effetto non variabile per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore suddetto, il valore da attribuirsi all’area. Alla omissione della denuncia suppliranno le autorità comunali con accertamento di ufficio, da farsi in base a regolamento da approvarsi per decreto reale. |
Art. 9. |
Art. 9. |
Il Municipio di Roma è autorizzato ad espropriare le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario delle aree agli effetti delle tasse sulle aree stesse e in mancanza di tale dichiarazione al prezzo corrispondente al valore accertato d’ufficio ai sensi dell’articolo precedente.
| Identico. |
Basta la più breve attenzione all’inciso, da noi scritto in corsivo, aggiunto dalla Commissione parlamentare per rimanere persuasi della portata grandissima della novità da esso introdotta nella nostra legislazione.
Ricordisi che la imposta sulle aree fabbricabili è portata per la città di Roma e per le città che per deliberazione dei rispettivi Consigli comunali ne facciano domanda, al 3 per cento all’anno sul valore capitale, esclusa la prima lira di valore per ogni metro quadrato, supposta equivalente al puro reddito agrario del terreno. Il valore delle aree dovrà essere dichiarato dal proprietario o, in difetto, accertato d’ufficio. La dichiarazione di valore non potrà essere mutata per Roma per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore; dal che si deduce che per le altre città italiane la dichiarazione di valore non potrà essere mutata del pari per 25 anni o per quell’altro periodo di tempo rispettivamente stabilito dai propri piani regolatori.
Fin qui sono norme fiscali, intese in apparenza a garantire una esatta valutazione delle aree colpite dall’imposta ed anzi ad assicurare il proprietario contro le troppe frequenti valutazioni ed elevazioni della base imponibile. Allo stesso scopo, di ottenere un accertamento veritiero del valore delle aree, il progetto di legge accoglie il principio, già inserito in parte, sotto forma di facoltà subordinata a perizia del valore effettivo, nei regolamenti di Milano e Torino, che il Municipio possa espropriare le aree ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario delle aree od accertato d’ufficio. La norma, che parrebbe avere il significato soltanto di una minaccia sospesa sul capo dei proprietari non veritieri acquista un valore grandissimo quando la si ponga in confronto coll’altra disposizione che il valore dichiarato od accertato d’ufficio non potrà mutarsi per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore. Ecco le conseguenze a cui si arriva per un’area di 10.000 metri quadrati, del valore unitario tassabile di 10 lire al mq. (esclusa cioè la prima lira di valore del terreno agrario) e del valore totale di 100.000. Nel primo anno di applicazione della legge, il proprietario ha fatto la sua dichiarazione veritiera (né del resto egli avrebbe interesse a denunciare un valore inferiore al vero per non correre il pericolo di una dannosa immediata espropriazione) di un valore di 100.000 lire, assoggettandosi quindi al pagamento di una tassa annua di 3000 lire. Alla fine del quinto anno, egli ha già pagato di imposta L. 15.000 e, compresi gli interessi composti al 4 per cento sulle somme pagate 16.248 lire d’imposta. Se egli per un qualunque motivo non ha potuto costruire la sua area, il Municipio potrà espropriarlo pagandogli le 100.000 lire da lui denunciate al principio: cosicché egli, dedotta l’imposta pagata, siccome nel frattempo l’area vuota non gli ha reso un centesimo, verrà in realtà a percepire l’indennità netta di sole L. 83.752. Trascuriamo gli interessi sul capitale originario di 100.000 lire supponendo che il proprietario avesse preveduto questo rischio quando comprò aree fabbricabili. La supposizione è in verità fuor di posto perché egli aveva rinunciato agli interessi annui nella speranza di vendere la sua area ad un prezzo più elevato speranza che gli è tolta dal legislatore, il quale fissa per 25 anni l’indennità a lire 100 mila. Ma la dimostrazione riesce egualmente così stringente, che possiamo perfino trascurare quei poveri untorelli d’interessi. Alla fine del decimo anno le annualità di tassa di 3000 lire hanno cagionato al nostro proprietario una spesa di L. 30.000 di imposte, ed aggiuntovi gli interessi sulle somme pagate di L. 36.018; cosicché, se il Municipio a questo punto lo espropria, egli, al netto dalla tassa, riceve solo L. 63.982 per l’area che 10 anni prima era stata stimata 100.000 lire. Per farla in breve l’indennità sempre uguale di 100.000 lire si riduce al 15esimo anno, scemata di 60.070 lire di tasse e interessi su di esse pagate a L. 39.930; al 20esimo anno, diminuita di 89.334 lire di tasse ed interessi su di esse a lire 10.666; finché al 25esimo anno il nostro disgraziato proprietario, che in origine aveva un’area del valore di 100 mila lire, ha pagato al Municipio ben 124.937 lire di tasse ed interessi decorsi sulle medesime affinché il Municipio prelevi sulle somme ricevute 100.000 lire per restituirle al proprietario tenendosi per sé 24.937 lire di profitto oltre l’area gratuitamente espropriata.
Io non so che cosa si potrà obbiettare alla mia dimostrazione: non certo che il proprietario potrà sempre sottrarsi alla confisca costruendo la sua area. Poiché la costruzione potrà verificarsi in molti casi ma non sarebbe consigliabile si verificasse tumultuariamente e subito per tutte le aree disponibili. A Milano, secondo la relazione del sindaco Ponti del 24 marzo per l’applicazione dell’imposta in discorso, esistevano entro il nuovo piano regolatore ben 2.230.000 mq. di aree fabbricabili.
A Torino i ruoli dell’imposta sulle aree fabbricabili accertarono mq. 3.964.000 di aree fabbricabili.
Orbene, quando per Milano e Torino si tenga presente che l’area totale costruita, da secoli ad oggi, comprende, entro e fuori la cinta daziaria, Ettari 1021 e Ett. 747, a confronto d’una superficie complessiva del territorio comunale di Ett. 7461 e 13.013, non balza agli occhi che la tangente dei terreni qualificati fabbricabili (Ett. 223 a Milano e 396 a Torino), la quale verrà in realtà costruita, non sarà, secondo un calcolo di probabilità, consono all’esperienza ed al buon senso, superiore, in media, anno per anno, all’uno o due per cento?
E ciò, badisi, a Milano e Torino, che è quanto dire, insieme con Genova, le città più progressive ed economicamente prospere di tutto il Regno! Sarebbe forse da augurarsi la costruzione immediata di questa enorme superficie? Non sarebbe anzi questa affrettata costruzione causa di un rincaro dei capitali e della mano d’opera edilizia, di una distrazione momentanea di capitale e di lavoro da altri impieghi più rimunerativi, colla inevitabile conseguenza di una disoccupazione fortissima quando fosse terminato questo periodo di febbrili costruzioni? Uopo è perciò ed è utile che le costruzioni si compiano regolarmente, con metro più accelerato forse per le case popolari, ma non con furia selvaggia. Se questo è vero, è indubitato del pari che molte aree dovranno rimanere vuote – ed è utile che rimangano vuote anche dal punto di vista sociale – nei primi anni dell’applicazione del piano regolatore per andare diminuendo a mano a mano che ci avviciniamo alla scadenza del periodo. Quindi è indubitato che il Municipio potrà sempre espropriare le aree vuote, concedendo una indennità parziale, nulla o persino negativa, dato il meccanismo spiegato sopra della indennità fissa e delle accumulantisi rate annue di imposta sulle aree fabbricabili. Il Municipio potrà astenersi da siffatte espropriazioni, pago di aver escogitato un mezzo per incassare delle tasse fortissime, finché al potere vi saranno amministratori imbevuti delle idee ancora dominanti in fatto di appropriazione della roba altrui. Ma, col mutarsi degli amministratori e sovratutto coll’avvicinarsi della scadenza del periodo e colla possibilità crescente per il Comune di espropriare i terreni ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore corrente, quale Municipio potrà resistere alla tentazione?
Né si dica che il proprietario potrà esimersi dai danni gravissimi di questo nuovo genere di espropriazione-spogliazione, denunciando un valore superiore al vero. Supponiamo infatti che, il nostro proprietario abbia denunciato il valore di L. 200.000 per la sua area. La conseguenza sarà che il Municipio lo costringerà a pagare, anno per anno, 6000 lire d’imposta, invece di 3000. Alla fine del decimo anno egli avrà pagato, fra tasse ed interessi sulle tasse, L. 72.036; alla fine del 20esimo anno L. 178.668 ed alla fine del 25esimo anno L. 249.874. A questo punto il Municipio, rimborsandogli L. 200.000, avrà portato via gratuitamente al proprietario l’area e per sopramercato una multa di L. 49.874.
In verità nessun’arma più terribile di confisca poteva essere inventata dalle fertili menti dei rivoluzionari più incuranti dei principii giuridici relativi al mio ed al tuo. Se il proprietario fa una denuncia elevata, il Municipio l’aspetterà al varco della espropriazione, verso la fine del venticinquennio. Se per salvarsi dalla multa finale e dal pagamento di tasse forti nel frattempo egli denuncia un valore basso, il Municipio lo esproprierà subito. Né, ripeto, a tutti è consentito; né socialmente sarebbe utile fosse aperta, la via della immediata costruzione di case.
La immutabilità dal valore dichiarato per 25 anni fu aggiunta dalla Commissione per rispondere ad una obbiezione, che il relatore D. Pozzi così riassume:
«lo speculatore dichiarerà del suo fondo un valore sempre più aumentato per l’importo della tassa pagata per l’anno precedente, e verrà così all’epoca della spropriazione ad avere tutto quanto esso indebitamente pretende, senza che valga ad infrenarlo il correttivo della tassazione maggiore a lui, per la denuncia di alta plusvalenza, applicata». Noi non crediamo che, per evitare un preteso inconveniente, sia equo sancire una massima spogliatrice simile a quella che sopra fu analizzata. E che l’inconveniente non esista è facile, dimostrare, notando come:
a) il maggior valore dichiarato dal proprietario nel secondo anno (100.000 lire, più 3 mila lire d’imposta pagata nel primo anno, come suppone l’on. D. Pozzi, più 4 mila lire di interessi perduti nel primo anno, aggiungiamo noi) esiste realmente; ed allora noi non vediamo il motivo perché debba essere impedita questa dichiarazione veridica. Infatti dal punto di vista del suo debito d’imposta alla società, il proprietario l’ha già soddisfatto, pagando l’imposta nel primo anno e disponendosi a pagarla, cresciuta, nel secondo anno. Se anche il Comune, per espropriarlo, dovesse pagare l’area 107 mila lire, con ciò il Comune non verrebbe che a pagare in più il vantaggio di avere aspettato il secondo anno ad eseguire una espropriazione che nel primo anno non gli riusciva possibile o conveniente. In realtà il Comune, aspettando, ha incassato 3 mila lire d’imposta; e pagando poi 107 mila, di suo ha speso solo 104 mila lire. Ed è noto che 104 mila lire pagate nel secondo anno equivalgono a 100 mila lire pagate nel primo anno;
b) il maggior valore nel secondo anno non esiste, perché l’area, come può accadere, non è nemmeno cresciuta di valore, tanto da compensare il proprietario dell’interesse perduto e dell’imposta pagata; ed in questo caso il proprietario non ha alcun interesse a crescere la sua dichiarazione. Egli con ciò si espone alla perdita sicura di pagare una maggior imposta; e non può avere la speranza di trovare amministratori così malaccorti da comprare la sua area ad un prezzo superiore a quello reale corrente.
Della pretesa specialità delle norme contenute nel disegno di legge per Roma.
L’imposta sulle aree fabbricabili è sempre speciale ai grandi centri.
Tutte le obbiezioni qui sopra enumerate contro le proposte del Governo e della Commissione si sarebbero potute risparmiare col solo citare il disegno di legge presentato dall’on. Majorana e ripresentato dall’on. Massimini sul riordinamento dei tributi Comunali, progetto che si trova in esame dinnanzi alla Commissione della Camera.
Nella relazione al disegno, di legge sono dimostrate chiarissimamente la inopportunità e la ingiustizia di elevare la imposta sulle aree fabbricabili al disopra dell’1%, è proposta la facoltà nei Comuni di mettere un’imposta del 5% sul plusvalore (e non nel senso immaginato dall’on. Pozzi, ma nel significato, più ristretto e solo esatto del plusvalore annuo che si verifica dopo l’applicazione della legge); ed è disciplinata secondo giustizia la facoltà di espropriazione dei Comuni. La forza di questa osservazione è stata sentita si sa dal Governo che dal relatore; sicché amendue, per esimersi dalla taccia di contraddizione, affermano ripetutamente che le norme sancite nel progetto Majorana sul riordinamento dei tributi comunali sono norme generali; mentre quelle che ora si vorrebbero sancire col disegno di legge per Roma sono norme speciali.
«La tassa – scrive l’on. Pozzi – viene per il comune di Roma (ed eventualmente per qualche grande città, che lo domandi, e per la quale apparisca opportuno al Governo concederla) attese le speciali condizioni sue, consigliata come rimedio, a ragione prevista efficace, ai gran disagi ai quali per il rincaro enorme delle pigioni è costretta la parte più numerosa e meno abbiente della popolazione. E perciò che non cedono in applicazione le obbiezioni che si muovono al disegno in esame, come quello che contraddica al sistema adottato e propugnato nell’altro disegno di legge presentato al Parlamento sull’ordinamento dei tributi locali. Quest’ultimo è proposto per tutti i Comuni: il disegno attuale per Roma, e può solo per eccezione essere esteso a qualche altra grande città».
Qui si giuoca di parole basandoci su un equivoco. È vero che il disegno di legge sui tributi locali si riferisce a tutti i Comuni; ma le disposizioni relative alla imposta sulle aree fabbricabili non innovano per nulla a questo riguardo alla legge del 1904 la quale limitava l’applicabilità della tassa ai Comuni, nei quali si reputi necessario di promuovere la fabbricazione di nuove case. Dunque già la imposta esistente è speciale; e non potrebbe non esserlo, anche senza la ricordata esplicita dichiarazione di legge. È assurdo pensare che l’imposta sulle aree possa essere applicata nei borghi rurali o nelle città minori, ove il fenomeno edilizio non acquista una intensità assai grande. Essa è e rimarrà mai sempre l’imposta caratteristica dei grandi centri urbani, fuori dei quali non ha senso né scopo. Per quale motivo creare una eccezione a questo regime già eccezionale di natura sua? Se le norme del progetto di riordinamento dei tributi locali sono buone, esse sono tali solo per i grandi centri: ed allora a che pro distruggerle farneticando di un regime speciale che debba essere instaurata nei grandi centri? O se i grandi centri sono i soli per i quali sia concepibile l’imposta sulla aree fabbricabili!
Se il disegno di legge per Roma verrà approvato, il regime in esso stabilito per l’imposta sulle aree diverrà quello generale per tutti i grandi centri, e quindi diventerà generale per tutti i Comuni italiani, a cui l’imposta è applicabile, essendo così tenui i vincoli stabiliti dall’art. 5 (autorizzazione del Governo, in seguito a domanda dei rispettivi Consigli Comunali ed a parere del Consiglio di Stato) di non avere in pratica alcuna importanza.
In base a quali presupposti erronei i ConsigliMunicipali di Torino e Milano chiesero l’estensione delle disposizioni del disegno di legge per Roma
L’on. relatore si fa forte del consenso dei Consigli Comunali delle Città di Torino e di Milano per difendere le proposte governative e quelle della Commissione
Quanto a Torino, giova ricordare ciò che scrisse il Geisser, consigliere comunale di questa città, sulla Riforma Sociale del 15 maggio:
Il Consiglio Comunale di Torino, nella seduta 10 aprile u.s. accogliendo la proposta della Giunta per la costituzione di un ente autonomo per le case popolari, approvava pure un ordine del giorno, proposto dagli autorevoli Consiglieri Daneo e Di Sambuy, così concepito:
«Il Consiglio Comunale, plaudendo alla generosa cooperazione della Cassa di Risparmio e dell’Istituto di S. Paolo per l’attuazione delle opportune proposte della Giunta, nell’intento di affrettare, anche da parte dei privati, la costruzione più rapida di abitazioni popolari, invita la Giunta a richiedere l’estensione alle altre grandi città delle facoltà speciali concesse al Municipio di Roma dal disegno di legge sottoposto ora al Parlamento».
È da avvertire che i Consiglieri non avevano di questo progetto di legge altra notizia se non quanto venne esposto dai proponenti l’ordine del giorno.
Orbene, il Senatore Di Sambuy, dopo aver accennato trattarsi di un disegno di legge, suscettibile pertanto di emendamenti, soggiungeva:
«A ragione disse il Consigliere Amar che molti da noi lamentano come siasi applicata la tassa sulle aree fabbricabili; ma non è a dimenticare che si tratta d’uno sperimento e che di conseguenza si può non essere andati innanzi con tutta la voluta correttezza. Ma in relazione all’ordine del giorno proposto dall’on. Daneo e da me, bisogna notare che il progetto di legge consentirebbe l’aumento dell’imposta del 3% solo su quelle aree che fossero circondate da vie aperte, munite di fognatura e provviste di illuminazione, e che perciò anche da noi si potrebbero colpire solo i terreni in condizione di vera fabbricabilità, cioè fra strade in perfetto stato di circolazione.
L’aumento dell’imposta sarebbe dunque in tal caso giustificato e da non confondersi cogli inconvenienti che recentemente si sono presso noi lamentati».
Dopo queste autorevoli assicurazioni non è a stupire che il Consiglio Comunale di Torino abbia fatto buon viso all’ordine del giorno sopra riportato.
Invece l’art. 7 del disegno di legge «Provvedimenti per la città di Roma» reca:
«Agli effetti della presente legge sono considerate quali aree fabbricabili tutte quelle comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore della città approvato con deliberazione del C. C. di Roma in data 15 febbraio 1907».
In sostanza, questo articolo riproduce, su per giù con dizione migliore, l’art. 9 della Legge 8 luglio 1904, sanzionando inoltre in via legislativa la esenzione che il Municipio Torinese aveva nel suo regolamento saggiamente accordata, cioè l’esenzione dall’imposta per la prima lira iniziale del valore.
Non è a dubitare che l’on. Daneo formulò l’ordine del giorno, a cui si associò il Consigliere Senatore Di Sambuy, ispirandosi ad informazioni assunte per altre vie che l’esame del letterale tenore del progetto di legge ministeriale; ma è non meno indubitato che il voto del Consiglio di Torino perde, in tali condizioni, ogni significato di assenso alle proposte governative, ed anzi dovrebbe, rettamente inteso, ritorcersi piuttosto contro queste.
Quanto a Milano, il proponente dell’ordine del giorno di richiesta dell’estensione a Milano della legge per Roma, fu il professore Gobbi, il quale, in una lettera pubblicata sul Corriere della sera del 25 maggio, in seguito ai miei articoli su questo argomento, così ebbe a scrivere:
«Chi propose l’ordine del giorno votato dichiarò espressamente che non tanto l’aumento della tassa quanto le altre facoltà proposte per Roma interessavano Milano, e cioè l’estensione della tassa alle aree comprese nel piano regolatore, anche se adibite all’agricoltura, il diritto di espropriare le aree al valore dichiarato ed accettato, la norma già sancita nella legge del 1885 per Napoli sulla valutazione delle indennità, l’imposizione (con maggior larghezza che nella legge del 1885) dei contributi di miglioria».
Chi scrive, mentre prende atto con piacere della dichiarazione, fatta in seguito dal Prof. Gobbi, di essere con lui d’accordo nel giudicare gli effetti della tassa, non può a meno di notare che a troppo caro prezzo sarebbero acquistati quei pochi vantaggi che il disegno di legge per Roma contiene. Invero:
a) l’aumento al 3% dell’aliquota è indubbiamente tale, e in ciò il Prof. Gobbi è d’accordo con me, da produrre risultati diversi da quelli immaginati dai proponenti;
b) di imposizione, desiderabilissima, dei contributi di miglioria, si parla nell’art. 14, che si riferisce solo a Roma e non è fra quelli estensibili alle altre città.
Anche per Roma sarebbe inoltre d’uopo mettere in rapporto l’art. 14 con quelli dal 6 al 9, che riguardano l’imposta sulle aree fabbricabili. Sembra forse giusto che il proprietario di un’area, del valore nel 1908 di L. 10 al m. q., il quale nel 1910 ha pagato un contributo di L. 2,50 perché un’opera pubblica ha dato all’area un maggior valore di L. 5 per m. q., possa essere espropriato dal Municipio sempre al prezzo di L. 10? Eppure la valutazione fatta nel 1908 è immutabile, secondo l’art. 8, per 25 anni, ed il proprietario può a quel prezzo essere espropriato;
c) delle norme della legge del 1885 per Napoli sulla valutazione delle indennità si parla nell’art. 5; che non è fra quelli estensibili alle altre città.
Cosicché le uniche norme estensibili alle altre città sono, oltre all’aumento al 3%, quelle che dichiarano soggette all’imposta tutte le aree situate entro il piano regolatore, e stabiliscono la facoltà di espropriazione al valore dichiarato al principio dei 25 anni.
È per lo meno dubbio se il Consiglio comunale di Milano, se avesse conosciuto questo complesso di norme e le conseguenze che da esse, insieme considerate, derivano, avrebbe con tanto entusiasmo richiesto l’estensione del disegno di legge per Roma.
Immaturità di una riforma – Necessità di raccogliere dati precisi e sicuri – Voti per emendamenti alle disposizioni del disegno di legge per Roma
Dopo la critica, dovrebbero venire le proposte. Ma una osservazione qui si impone. La legge del 1904 fu un primo tentativo di introdurre in Italia l’istituto della tassazione delle aree fabbricabili e, come primo tentativo, riuscì empirico e difettoso. Nell’opinione di chi scrive non si riuscirà a risolvere questo problema se non affrontando nella sua interezza il problema e congegnando diversi istituti fiscali che si applichino alle diverse situazioni di fatto.
L’aumento di valore delle aree edilizie e la speculazione sulle aree derivano da circostanze svariate, obbediscono a leggi mutabilissime ed è quindi inutile e pernicioso di ostinarsi ad affrontare un problema complicato con un rimedio semplice. Uopo è che il regime tributario si pieghi a questa complicazione e cerchi di seguire il plusvalore dei terreni nelle sue diverse manifestazioni. L’imposta cioè dovrebbe avere caratteri diversi a seconda che si tratti di colpire:
1) l’aumento medio generale che ragionevolmente può supporsi esista per tutte le aree fabbricabili di una grande città;
2) l’aumento effettivo di valore dovuto ad opere pubbliche compiute dai Comuni;
3) l’aumento effettivo di valore constatato a periodi determinati in più dell’aumento medio presunto ed indipendentemente dall’aumento già colpito dovuto ad opere pubbliche;
4) la casa costrutta.
Quali metodi tributari converrebbe maggiormente applicare per questi diversi intenti, lo scrivente ha detto in altra occasione (vedi Corriere della sera del 25 maggio 1907). Ma non è certo una legge per Roma il luogo più adatto per affrontare e risolvere questo complicato problema. Né è passato ancora un tempo sufficiente dalla legge del 1904 per potere conoscere i risultati di questa prima applicazione italiana della imposta sulle aree fabbricabili. Non vi è nulla di peggio che questo mutare e rimutare continuo della legislazione fiscale, con provvedimenti grossolani, che inaspriscono un male che non si è avuto ancora nemmeno il tempo di conoscere. In Inghilterra da forse un mezzo secolo si dibatte la questione della imposta sulle aree cittadine: e ancora negli ultimi anni si sono susseguite relazioni ed inchieste minutissime e ricchissime di dati. E se finora nulla si concluse, vi è la certezza che almeno non si adotterà una legislazione simile a quella italiana, sbocciata fuori non si sa come e in seguito a quale indagine positiva di fatto. Non che si debbano aspettare 50 anni prima di fare una riforma; ma sembra almeno opportuno che si aspetti un anno o due di applicazione della tassa nelle principali città italiane. In questo frattempo nasceranno controversie (e quante sono già sorte!), si formerà una giurisprudenza, verranno fuori i casi più interessanti e le situazioni più imprevedute dal teorico che siede a tavolino. Sulla base di questi dati, in seguito ad una inchiesta precisa sui valori delle aree, sui costi delle costruzioni ecc., sarà fra un anno o due possibile di compiere una riforma che risponda veramente alle necessità sociali del momento attuale.
Perciò come conclusione dei presenti appunti, lo scrivente espone alla Unione Monarchica Liberale Umberto I la convenienza di far voti affinché:
1) venga mantenuto per ora all’un per cento il limite massimo della tassa sulle aree fabbricabili;
2) venga tolto dall’art. 6 l’aggiunta della Commissione con effetto non variabile per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore suddetto; cosicché la dichiarazione debba essere fatta dal proprietario ogni anno;
3) venga aggiunto all’art. 9 un capoverso il quale dica che la facoltà del Comune di espropriare le aree di valore attribuito dal contribuente non può più essere esercitata dal Comune trascorsi sei mesi dalla dichiarazione del valore, presentata dal contribuente. Tale aggiunta, tratta letteralmente dall’art. 11 del disegno di legge sul riordinamento dei tributi comunali, così era giustificata dall’on. ministro proponente Majorana:
«Introducendo nella nostra legislazione una disposizione di questa natura, la quale, per quanto giustificata, ai fini sociali e fiscali costituisce pur sempre una eccezionalità, e può perfino sembrare una indiretta limitazione al principio assoluto della piena disponibilità dei beni nel proprietario di essi, conveniva limitarlo tenendo conto di due circostanze, che non possono affatto trascurarsi.
La prima, che è la grande mobilità nei prezzi delle aree in talune condizioni di tempo e di luogo, talché sarebbe stato esagerato costringere a lungo il valore di esproprio alla somma denunciata dal proprietario, mentre a breve tratto può verificarsi un rialzo sensibile di prezzo. La seconda, che è la convenienza di garantire il proprietario dell’area da qualsiasi danno eventuale, danno questo che potrebbe sorgere col circoscrivere in un modo sia pure temporaneo, il diritto della piena disponibilità dell’area. Perciò vi propongo di limitare al breve periodo di sei mesi l’esercizio della facoltà d’acquisto stabilita pel Comune, e di demandare al regolamento le garanzie procedurali per l’esercizio medesimo».
Le quali osservazioni del ministro proponente, giuste in se stesse, valgono ancora più a mettere in chiaro l’enormità della proposta della Commissione di fissare per 25 anni invece che per 6 mesi il valore dichiarato dal proprietario;
4) sia compiuta dal Governo una indagine sui risultati dell’applicazione dell’imposta sulle aree fabbricabili, sulle controversie insorte, sui valori delle aree nelle principali città e nelle loro vicende, sul costo di costruzione delle case, distinto nei suoi vari elementi, sui fitti e sulla domanda di alloggi, sulle applicazioni passate dell’istituto dei contributi di miglioria affinché si possa a ragion veduta e sulla scorta di dati di fatto, raccolti da tutti gli interessati ed imparzialmente vagliati, procedere ad una riforma della tassa sulle aree fabbricabili, così da renderla adatta a raggiungere i fini sociali che il legislatore si è proposto.
[1]La cosa può essere spiegata così come fa il Geisser nel brano seguente:
«Gli elementi di ogni speculazione su terreni edificabili sono invero i seguenti:
1) un prezzo di rivendita finale che si prevede di poter conseguire in capo ad un periodo probabile di tempo e che noi chiameremo P F;
2) questo periodo di tempo probabile che chiameremo T;
3) l’interesse che per il tempo T dovrà conteggiarsi sul costo iniziale (C) e così pure le altre spese relative quali imposte, ecc.. Chiameremo questo elemento I I (interesse, imposta). Ben inteso I I potrà essere diminuito dai ricavi che durante il periodo T si potessero ottenere dal fondo. Ma questi ricavi sono generalmente di poca entità e possiamo quindi tralasciare di considerarli, anche per dare alla nostra dimostrazione quella larghezza, quel margine che è opportuno ed equo in simili materie che non vogliono essere trattate colla pretesa di una precisione rigorosa troppo disforme dalla realtà e dalla possibilità.
P F e T, cioè il prezzo finale sperato ed il tempo in capo al quale lo si raggiungerà, sono elementi incerti ed aleatori i quali conferiscono precisamente all’operazione il suo carattere speculativo e pongono in grado i più acuti e lungiveggenti di sfruttare congiunture di cui non sa o non può valersi la generalità.
L’elemento I, interesse da aggiungersi al costo iniziale C, e che si deve ricavare oltre il guadagno nel prezzo finale di vendita, è l’elemento più sicuro, in quanto è dato dalle condizioni generali del mercato.
Il prezzo finale sperato (P F), deducendone il totale degl’interessi e delle imposte, per la durata del tempo (T), determina il prezzo iniziale che lo speculatore può plausibilmente indursi a pagare».