di Andrea Guiso
1. La Prima guerra mondiale e le sue basi morali
I grandi problemi teorici e pratici della guerra e della pace hanno attraversato la vita e l’opera di Luigi Einaudi, lasciando in esse una traccia indelebile. Nell’arco di poco più che un trentennio, dopo aver assistito ai primi focolai del grande incendio divampato in Europa per il progressivo, inarrestabile collasso dell’Impero Ottomano, Einaudi fu testimone delle grandi guerre mondiali da lui vissute, prima, nel 1914-1918, come economista e autorevole opinion maker impegnato nella “battaglia delle idee” a favore dell’intervento italiano e della guerra a fianco dell’Intesa, e in seguito, dal 1940 al 1945, come acuto e partecipe osservatore di eventi che sarebbero stati infine all’origine della più grande trasformazione mai avvenuta nella struttura delle relazioni internazionali.La “guerra dei trent’anni”, scandita dai due conflitti mondiali, suscitò in lui speranze e delusioni. Speranze, in quanto metteva alla prova i fondamenti pratici e teorici dell’internazionalismo liberale quale praticabile via per la pace e la cooperazione fra i popoli. Delusioni, in quanto essa evidenziava tutti i limiti intrinseci a una visione puramente idealista della storia che non fosse parimenti in grado di fare i conti con la realtà strutturale del potere. Solo dalla combinazione di idealismo e realismo sarebbe potuta uscire rafforzata una visione liberale della storia. Ma ciò implicava la giustificazione della guerra e dell’uso della forza quali strumenti necessari al fine di difendere e di affermare quei principi e quei valori che costituivano il fondamento imprescindibile delle “società aperte”.
Per tale ragione Einaudi non fu mai pacifista, pur essendo il suo pensiero costantemente teso alla ricerca e alla valorizzazione di tutti gli strumenti e di tutte le possibilità per costruire e realizzare un mondo sempre più integrato e interdipendente. Il rifiuto di un ingenuo pacifismo gli era derivato dalla osservazione empirica più che dalla dottrina. Einaudi riteneva del tutto infondate le teorie che pretendevano di spiegare l’origine delle guerre sulla base di un’interpretazione materialistica della storia, incentrata sul primato assoluto del movente economico. Pur condividendo nella sostanza la tesi di Norman Angell sulla irrazionalità economica della guerra, egli non ne condivise mai sino in fondo l’ingenuo ottimismo. Le guerre della modernità, e in modo particolare la conflagrazione europea del ’14, avevano per Einaudi un fondamento essenzialmente spirituale e ideologico. Esse traevano la loro legittimazione dalla convinzione di un intero popolo della necessità di combattere per la difesa o l’affermazione del proprio ideale di “civiltà”, di una peculiare forma di organizzazione sociale e di vita spirituale. In quest’ottica la guerra del ’14 dovette ben presto apparirgli come una nuova cruenta pagina delle guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa del ‘500. E che adesso si riproponevano sotto forma di scontro epocale tra due inconciliabili filosofie politiche e dello stato: quella liberale, fondata sul primato della società e degli individui e quella che, al contrario, considerava lo stato lo strumento autoritario al fine di plasmare la società, darle forma giuridica e sociale organica e guidarla verso il bene comune. Questo secondo modello di società – figlio del “dogma” assolutistico della sovranità – rappresentava per Einaudi un pericolo permanente per la pace, perché nei paesi in cui si affermava creava una esasperata volontà di potenza e di egemonia.
Per Einaudi la Grande Guerra non era dunque il portato della contrapposizione fra due costellazioni geopolitiche bensì, propriamente, di due idee di civiltà, rappresentate dall’Inghilterra e dalla Germania guglielmina. La prima, espressione di un imperialismo benevolo perfettamente in grado di promuovere sviluppo, benessere, progresso civile nei popoli colonizzati. La seconda, espressione di un imperialismo rapace, fondato sul diritto di una “razza” autoproclamatasi eletta ad imporre il proprio dominio agli altri stati e agli altri popoli.
Einaudi tuttavia non esibiva alcuna sorta di antigermanesimo pregiudiziale. Le sue analisi sulla Germania furono infatti sempre improntate a una generale considerazione positiva del ruolo storico svolto dalle grandi monarchie nella creazione di un moderno spazio pubblico permeabile ai principi e ai valori della società liberale. Ma riflettevano anche senso di ammirazione per l’efficienza e l’organizzazione dell’apparato statale-burocratico tedesco e in particolar modo per gli avanzati esperimenti di politica sociale che la classe dirigente prussiana aveva saputo realizzare. Ciò non era sufficiente tuttavia a rimuovere le ragioni, di ordine etico e ideale, che Einaudi poneva alla base del suo radicale rifiuto della via tedesca alla modernità, eccessivamente incline a limitare la libertà in cambio della disciplina sociale e dell’uniformità degli spiriti.
Dalla comparazione dei due imperialismi e dalla sua scelta di campo non si deve però dedurre che Einaudi fosse per principio favorevole alle guerre di carattere coloniale. Tutt’altro. Dubitava fortemente della loro utilità sul piano economico-finanziario. Per Einaudi infatti era una sorta di dogma che nessuna guerra potesse portare vantaggi in tal senso alla comunità nazionale, tranne che per i pochi che avrebbero finito col trarne vantaggio grazie alle pingui commesse statali o ai ricchi contratti per lo sfruttamento dei territori conquistati. Considerava legittime solo quelle imprese che comprendessero tra i loro obiettivi quello di contribuire illuministicamente all’elevazione spirituale, morale, materiale dei popoli colonizzati. Furono questi tra i motivi che lo avevano portato a giudicare negativamente e disastrosa, non solo per le finanze italiane, l’impresa libica, maturata su troppo fragili premesse di natura ideale e politica.
Lo scoppio della Grande guerra spinge tuttavia Einaudi a schierarsi senza riserve a favore dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, sposando le tesi dell’interventismo illuminato di stampo liberal-conservatore, che aveva allora la massima espressione nella linea editoriale del Corriere della Sera di Luigi Albertini. In qualità di autorevole opinion maker del quotidiano milanese e di altre testate favorevoli all’intervento, Einaudi si impegnò su due direttrici: una rigorosa e puntuale analisi degli aspetti economico-finanziari del conflitto, diretta a influenzare e ad orientare le grandi opzioni di politica economica dei governi di guerra; e interventi di propaganda bellica con articoli e saggi (in particolare quelli confluiti nelle raccolte di scritti Gli ideali di un economista e le Lettere di Junius) a carattere prevalentemente etico-morale.
Giova osservare, a tale riguardo, che tra l’Einaudi scienziato-economista e l’intellettuale engagée al servizio della propaganda di stato non vi era contraddizione né soluzione di continuità. Egli poneva infatti in tutti i suoi scritti grande enfasi sulle “virtù non economiche” della guerra, vale a dire sulla importanza dei benefici morali e spirituali che essa sarebbe riuscita a portare se condotta a termine vittoriosamente. Riteneva infatti che solo la consapevolezza di tali benefici potesse rendere sopportabili gli immensi sacrifici economici imposti da un conflitto che aveva rivelato, nell’accezione di Ernst Jünger, una inedita, terrificante logica di “guerra totale”. Sia le Prediche che altri scritti einaudiani del tempo di guerra dovettero pertanto insistere sulla necessità che il popolo italiano prendesse parte al conflitto sacrificando ogni interesse privato al bene della nazione; perché solo in questo modo sarebbe riuscito a difendere e a promuovere per sé un più elevato ideale di convivenza civile.
Si trattava di temi e sollecitazioni destinati poi a confluire nelle sue analisi più meditate e prospettiche sulla condotta economica e sulle sue conseguenze sociali della guerra italiana apparse nel 1933 nell’ambito della prestigiosa collana della Fondazione Carnegie per la pace internazionale dedicata alla Storia economica e sociale della guerra mondiale.
La guerra italiana, per Einaudi – come per tutto l’interventismo liberale, sia di matrice democratica sia di matrice conservatrice illuminata, dunque di Albertini più che di Salandra – rappresentava il necessario completamento dell’opera avviata durante il Risorgimento dai padri fondatori dello stato e della nazione italiani. Anche per questa posizione nel pensiero di Einaudi vi era piena convergenza di idealità tra la guerra italiana e la guerra dell’Intesa, che si proponeva l’affermazione e la diffusione dell’idea liberale di stato, basata sui principi di autodeterminazione, libertà, indipendenza, cooperazione e reciprocità di vincoli tra popoli e nazioni. E non aveva dubbi sul fatto che le potenze della Triplice rappresentassero la negazione radicale di tali valori.
Questa visione ideale e culturale di Einaudi, collegandosi al sostrato sentimentale antiaustriaco, assai diffuso nel paese, lo portava a far sua anche l’immagine della guerra del ’15 come ultima guerra del Risorgimento. Considerate queste premesse, erascontata l’avversione di Einaudi per le posizioni neutraliste, in particolare giolittiane e socialiste, che considerava un tradimento degli ideali sui quali la nazione e lo stato italiani erano stati edificati. La disfatta di Caporetto vide Einaudi ancora di più impegnato nel sostenere l’impegno di propaganda del governo per risollevare il morale dei soldati ed evitare il cedimento di quello del fronte interno: esemplare per questo aspetto l’articolo sul significato storico del confine orientale. L’ultimo anno di guerra sollecitò nuove riflessioni sulle ragioni che ne erano all’origine, ma soprattutto sulla esigenza di un nuovo ordine internazionale in grado di garantire stabili e pacifiche relazioni fra i popoli.
Tale esigenza si imponeva con maggiore forza per Einaudi dopo l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti, evento che a suo giudizio conferiva alla guerra un carattere ideologico e culturale ancor più netto, a conferma dell’idea che essa, se vittoriosa per la coalizione dell’Intesa, avrebbe infine adempiuto alla funzione storica di sradicare per sempre l’idea nefasta dello stato-potenza, dello stato ente-perfetto, che Einaudi considerava il motore primo di tutte le guerre. In ragione della loro stessa struttura politica e sociale, (federalismo, grande incidenza sul governo dell’opinione pubblica, e dunque vera affermazione del principio della sovranità del popolo, non filtrata e sterilizzata nelle forme deteriori del parlamentarismo), gli Stati Uniti rappresentavano poi la migliore garanzia che l’ordine internazionale potesse essere ricostruito su basi nuove, in omaggio a saldi principi di ispirazione liberale. Per Einaudi inoltre era la storia a fare dell’Italia erede delle grandi lotte risorgimentali e degli Stati Uniti wilsoniani due naturali alleati nella lotta contro la minaccia portata all’idea di nazione libera e indipendente da stati autoritari e imperialistici.
Secondo Einaudi infine l’ingresso degli Usa nel conflitto mondiale delineava i contorni di una futura grande «alleanza atlantica» tra Gran Bretagna e Stati Uniti, la cui funzione avrebbe potuto essere quella di stimolare sul medio-lungo periodo un analogo processo di convergenza e di integrazione tra stati europei affini per istituzioni, lingua, cultura, confini territoriali. In questo modo prendeva concretezza, per Einaudi, la speranza di realizzare un nuovo ordine giuridico, politico ed economico europeo e mondiale a carattere sempre più interdipendente e “sovranazionale”, il cui modello sarebbe stato rappresentato dal Commonwealth britannico e dalla costituzione politica americana.
Tuttavia, condizione pregiudiziale perché tale nuovo ordine potesse realizzarsi restava per lui che tutti i governi “nazionali” fossero concordi nella volontà di superare e sconfiggere una volta per tutte il «dogma della sovranità». Il carattere quasi utopico dell’internazionalismo liberale professato da Einaudi, era tuttavia temperato dall’estremo realismo di economista che egli costantemente poneva alla base di ogni ragionamento in merito alla natura, agli obiettivi, al funzionamento e alla concreta strutturazione delle nuove istituzioni sovranazionali figlie della Grande Guerra.
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2. La pace del 1919: speranze e delusioni
La fine delle ostilità e l’avvio dei preliminari che dovevano portare ai trattati di pace aprivano per Einaudi una prospettiva che contraddiceva in misura crescente le speranze che l’avevano portato a considerare il confronto tra l’Intesa e gli imperi centrali il passaggio necessario per entrare in un ciclo storico per l’Europa e per il mondo segnato dal progresso nell’ordine e nella libertà. Il principio di autodeterminazione dei popoli – e in particolare nelle forme in cui si manifestò nell’Europa centrale e nei Balcani – non tardò infatti ad apparire quale copertura del chiuso nazionalismo che ben prima del 1914 aveva rappresentato una minaccia per la pace e per il progresso delle nazioni. E soprattutto a rivelarsi lo zoccolo duro del dogma della sovranità assoluta dello stato che Einaudi considerava il maggiore ostacolo per realizzare il nuovo ordine internazionale da lui auspicato.
Più che mai in passato, infatti, quel nazionalismo legato alla riaffermazione della sovranità assoluta dello stato fu l’elemento di coesione e l’elemento dinamico dei vinti e dei vincitori chiamati a confrontarsi al tavolo della pace: sia per quanto riguardava la questione dei confini nazionali e della ripartizione delle colonie; sia per quanto riguardava le clausole economiche dei trattati di pace (da quelle delle riparazioni dovute dai vinti ai vincitori, a quelle dei rapporti di debito che si erano venuti a creare tra le potenze vittoriose).
Questa realtà emergente dalla situazione post-bellica non poteva non pesare per Einaudi in misura determinante nel tentativo di dare vita a un organismo sovranazionale, con funzione di comporre e risolvere mediante trattative i contrasti interni all’Europa e i problemi internazionali a livello mondiale. La Società delle Nazioni nacque infatti minata non solo dall’assenza di due potenze quali la Germania e la Russia, ma soprattutto da quella degli Stati Uniti dovuta (cosa impensabile al momento della loro entrata in guerra a fianco dell’Intesa) dalla volontà del suo popolo (che trascinò i governanti) di non vincolare in alcun modo la sovranità dello stato alle decisioni di un organismo sovranazionale. Così che la Società delle Nazioni si ridusse ad essere strumento delle potenze europee per perseguire i loro interessi e per realizzare i propri fini politici.
Le riflessioni di Einaudi sulla costruzione di un futuro ordine di pace ruotavano pertanto attorno all’alternativa tra “Lega delle nazioni” e “federazione”, la seconda quale premessa, sia pure lontana, di un parlamento mondiale. Egli era consapevole che la prima soluzione, la più semplice da realizzarsi in tempi brevi, non rompeva con il dogma della sovranità, lasciando ai governi nazionali, impegnati a perseguire i propri particolari interessi, il compito di trattare la soluzione delle controversie internazionali e di negoziare accordi relativi al commercio, al governo dell’economia, allo sfruttamento delle risorse comuni, alla pace, ecc. Ma riteneva che, nella situazione data, creare le condizioni e le strutture per favorire il dialogo o il confronto sistematico tra gli stati potesse favorire una maggiore comprensione da parte loro dei vantaggi di considerare il peso e le connessioni degli interessi generali anche per la tutela di quelli particolari. Si sarebbe infatti aperta in questo modo la via ad una evoluzione verso processi di integrazione degli interessi dei popoli, e di quelli europei in particolare.
Fu in quest’ottica che già nel 1918 Einaudi anticipò molte idee che avrebbero trovato attuazione nel secondo dopoguerra; e che potrebbero senza difficoltà iscriversi in quell’approccio “funzionalista” destinato ad essere il motore primo e determinante del processo di integrazione europea: come mostrano le sue riflessioni in merito alla gestione sovranazionale di risorse primarie (l’agricoltura, le miniere, ecc.), di componenti essenziali del commerci, dei trasporti di beni e persone e di servizi con l’abbattimento delle barriere doganali. In un contesto internazionale che certamente suscitava in lui crescenti delusioni, ma che lo stimolava pur tuttavia a guardare al futuro al fine di valorizzare al massimo gli elementi positivi ancora presenti nella situazione, la posizione di Einaudi sulla questione di Fiume poteva apparire contraddittoria, ma era certamente sofferta.Si contrapponevano infatti nelle sue argomentazioni il valore insopprimibile della identità nazionale italiana della città («nessuna Lega, nessuna società di nazioni potrà mai sanare nel cuore degli italiani la ferita lacerante aperta nel corpo della Patria dal distacco di una sua città») alla proposta di Wilson di cessione della sovranità di Fiume alla nuova Jugoslavia, per dotarla di un polmone vitale alla sua economia e a quella degli altri paresi balcanici e centro-europei che gravitano sull’Adriatico.
Ma nello stesso tempo Einaudi ribadiva di non voler «erigere a dogma il principio di sovranità»; e sosteneva la capacità dell’Italia, una volta che sia riconosciuto il suo diritto di sovranità politica su Fiume, di discutere «con tutte le nazioni dell’entroterra» forme di collaborazione garantite da trattati internazionali su vie di accesso e su zone franche nel porto. «Sicché ogni nazione abbia la più ampia sicurezza di libero sbocco al mare e di eguaglianza di trattamento. Così operando noi italiani crediamo di porci sulla via maestra che col tempo condurrà agli Stati Uniti del mondo».
Sulla delicata e complessa questione di Fiume, dunque, la sensibilità e la formazione nazionale e risorgimentale di Einaudi lo portavano a reagire con passione agli argomenti pragmatici di Wilson. Ma con la proposta di creare regolamenti e strutture sovranazionali per l’uso del porto, in qualche modo riconduceva il dibattito sul terreno più aperto e fertile delle sue idee per il progressivo superamento del dogma della sovranità nazionale assoluta quale condizione per aprire nuove prospettive di progresso di popoli nella pace e nella libertà.
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3. La condotta economica e le conseguenze sociali della guerra in Italia
L’esperienza della prima guerra mondiale portò al centro delle riflessioni di Einaudi anche il tema della ridefinizione dello spazio pubblico e del rapporto tra stato e società in Europa, a causa soprattutto dei nuovi elementi portati in essa dal «collettivismo bellico» e dalla regolamentazione da parte dello Stato di tutti gli aspetti della vita pubblica e dell’economia. Einaudi partiva dalla constatazione che alla fine delle ostilità si era affermata in tutti i paesi coinvolti nel conflitto l’idea che il modello di stato onnipotente, interventista e regolatore del tempo di guerra potesse essere lo stesso che in tempo di pace sarebbe riuscito infine a realizzare le promesse di pace sociale, di benessere economico e di felicità per tutti. Promesse che erano state il sottofondo della propaganda di tutti i governi, diretta ai soldati per motivarli alla lotta, e al “fronte interno” per alimentarla con la massima produttività delle imprese, dei campi, delle miniere, dei servizi.
Einaudi prendeva dunque atto che il modello Rathenau di «economia associata» mieteva successi anche fuori dalla Germania. Molte delle riflessioni già presenti negli scritti di guerra di Einaudi vennero poi riprese, arricchite e sviluppate – sulla base di dati, statistiche e riferimenti normativi – nel suo grande studio del ’33 intitolato La condotta economica della guerra italiana. Esse rappresentano certamente, come ha osservato lo storico Roberto Vivarelli, uno dei maggiori contributi alla comprensione della crisi dello spirito pubblico e del disordine morale del primo dopoguerra in Italia; e dunque anche alla migliore comprensione delle origini del fascismo.
Cinquant’anni di vita unitaria, secondo l’economista, non erano bastati, dopo secoli di dominazioni straniere e di “governi paterni”, succeduti alle fazioni comunali, a creare un vero stato. Quello che esisteva «poté vincere la guerra, ma non ebbe la forza di superare il dopoguerra». La ragione, scriveva Einaudi, era che «mancava quella consapevolezza nei cittadini di essere parte dello stato, anzi di essere essi medesimi lo stato». Gli uomini che nel 1917, dopo la sciagura dell’Isonzo, seppero difendere sul Piave il suolo della patria invasa e vincere non erano stati capaci di «vedere nei plutocrati assalitori del pubblico erario e delle banche e nei proletari invasori di terre e di fabbriche i nemici della cosa pubblica, ossia i nemici propri, ed attesero dallo stato la difesa». Ma lo stato, continuava, «privo della forza intima, la quale viene dallo spontaneo consenso del popolo, non esisteva. Questa fu la sostanza della guerra».
La debolezza più grave dell’Italia fu dunque nell’incapacità di praticare una «concezione stoica» della guerra. Essa, spiegava Einaudi, non sarebbe riuscita a mutare notevolmente la struttura sociale del paese se le classi dirigenti, compresi in queste gli organizzatori degli operai e dei contadini, avessero avuto una esatta visione del suo costo e degli scopi per i quali il paese era entrato in guerra. «Se tutti fossero stati persuasi che la guerra sarebbe stata lunga e costosa, che per cagione di essa le imposte avrebbero dovuto essere notevolmente aumentate e cadere massimamente sulle classi medie e alte e su consumi voluttuosi e redditi superiori al minimo necessario all’esistenza, e che scarso compenso diretto finanziario potevamo riprometterci dall’annessione delle terre italiane soggette all’Austria; se tutti fossero stati convinti che all’impoverimento economico diretto gravissimo in vita e in denari, che noi subiremo in conseguenza della guerra si potevano contrapporre soltanto benefici inestimabili bensì, ma puramente morali (…) il paese sarebbe stato in grado di far fronte senza tremare ai duri sacrifici che la guerra doveva imporre».
Sarebbe stato necessario, per ridurre al minimo quel costo, «sapere chiaramente che la guerra aveva fini ideali, che solo indirettamente e in un lontano avvenire avrebbero potuto essere fecondi di qualche vantaggio materiale». Sono temi che Einaudi aveva già affrontato in molti dei suoi scritti del periodo bellico, raccolti poi sotto il titolo di Prediche, quasi a sottolineare «la loro indole comune di inviti alla rinuncia, al risparmio, al sacrificio». Alla «concezione stoica» degli scopi di guerra avrebbe dovuto pertanto corrispondere una altrettanto stoica condotta economica di essa. Ma, come notava, temendosi il malcontento tra le masse più duramente coinvolte nello sforzo bellico e volendo perseguire «l’utopia di non far sentire o di far sentire il meno possibile i dolori della guerra», lo stato fu tratto a poco a poco ad esercitare un’azione sempre più profonda sulla vita economica del paese.
Ne era scaturita un’azione spesso caotica e improvvisata dei governi, la quale non aveva toccato che i sintomi superficiali di quelli «che si reputavano mali ed erano per lo più reazioni necessarie e vantaggiose dello sforzo bellico». Sarebbe stato pertanto necessario «che i consumi diminuissero e la produzione fosse incoraggiata; ma non tollerandosi dal popolo, sovreccitato da pennaioli inconsapevoli del male incipientemente compiuto, l’aumento a ciò necessario dei prezzi, fu d’uopo che lo stato intervenisse con calmieri, con requisizioni, con incoraggiamenti, con obblighi di lavoro e produzione. Tutti, ricchi e poveri, dovevano soggiacere ad eguale trattamento di fronte al pericolo della patria; ma non osandosi o non potendosi adoperare l’unico strumento a ciò congruo, che era la riduzione, con l’imposta, di tutti i redditi al minimo faceva d’uopo dare l’impressione dell’egual trattamento con il tesseramento e le minacce di confisca dei sovraprofitti nuovi e dei patrimoni antichi».
Senza volontà deliberata, spinto dalla «virtù potentissima dell’invidia sociale», lo stato, da recente esperienza di poco più che mezzo secolo attrezzato a compiere fruttuosamente pochi uffici, si vide indotto ad estendere i suoi compiti a campi affatto nuovi. «La vecchia burocrazia proba, ma perita soltanto delle cose per lunga pratica conosciute, sbalordì dinnanzi alla grandiosità del nuovo compito»; la nuova, quella dei «padreterni ministeriali», acquistata per la cieca fortuna dei reclutamenti militari, disabituata ai controlli amministrativi, «li ignorò e li disprezzò». Fu così, dunque, che sorse «tumultuariamente», accanto all’antico stato militare, amministratore, giudice ed educatore, «un nuovo stato produttore, agricoltore, commerciante all’ingrosso ed al minuto, distributore di vivande di viveri di case e di terreni, regolatore di redditi e di fortune». Pullularono in questo mutato contesto sociale e istituzionale i capi «persuasi di conoscere il segreto della prosperità economica e della pace sociale»; e «molti politicanti, rassegnati di malavoglia a lasciare ai soldati il governo della nazione in guerra sognarono di acquistare glorie napoleoniche di vittorie civili». La libera iniziativa e la concorrenza, osservava Einaudi, furono tenute in dispregio; e «se la parola era temuta, per riflesso della condotta neutralista dei socialisti, fu onorato di fatto l’idolo del collettivismo».Il conflitto aveva dunque operato, secondo Einaudi, una profonda trasformazione dell’etica pubblica, facendo penetrare ovunque la tentazione di prolungare nel tempo di pace la concezione autoritaria e paterna del governo di guerra. Gli uomini, osservava Einaudi, «ormai pensavano ed operavano comunisticamente». Volentieri gli industriali «si rassegnavano a vedersi attribuita dallo stato la quantità di materie prime necessarie all’impresa, ad un prezzo conveniente in rapporto al prezzo di vendita del prodotto finito; e volentieri si assoggettavano a vedere regolati i salari della mano d’opera, controllato l’uso dei fattori produttivi, calcolati i profitti possibili. Non più agevolazioni operaie, gli operai contenti per i salari cresciuti, i profitti, nonostante i controlli e i regolamenti, opimi più di quelli antebellici».
La speranza di ritornare a una libera economia di mercato, abolendo le bardature di guerra fu però breve e vana. Nei primissimi mesi del dopoguerra Einaudi si fece interprete sulle colonne del Corriere delle critiche dei piccoli e medi imprenditori contro il regime dei vincoli, le commissioni, gli istituti e i «padreterni ministeriali». Bisognava insomma «licenziare i padreterni orgogliosi» (la polemica era rivolta in particolare contro Giuffrida, uno dei massimi rappresentanti della nuova tecnocrazia di stato), persuasi di possedere «il dono divino di guidare i popoli nel procacciarsi il pane quotidiano»: «Troppo a lungo li abbiamo sopportati. I professori ritornino a insegnare, i consiglieri di stato ai loro pareri, i militari ai reggimenti, gli avvocati non si impaccino di fare miscele di caffé e di comprare pelli e tonni. Ognuno ritorni al suo mestiere. Si sciolgano commissioni, si disfino commissariati e ministeri. (…) Industriali ed operai sono capaci di intendersi tra loro e si sono intesi anche di recente, come si fa tra gente che lotta e rischia».
Nonostante questi accorati inviti Einaudi riscontrava tuttavia una generale riluttanza a fare ritorno alla situazione anteguerra in modo rapido e senza compromessi. Un nuovo mito era ormai pronto a sostituire quello della giustizia e della libertà: «in quel primo anno del dopoguerra prese il nome di economia associata». Si trattava di «un vago associazionismo tra privati e stato, fra enti minori e stato, fra cooperative e stato»; sicché le forze individuali e pubbliche «agissero a guisa di emanazione e quasi parte della collettività». Invece del comunismo puro, che si intuiva repugnante all’economia italiana, si offriva adesso un ideale che conciliasse o integrasse o superasse il dualismo fra individuo e stato e li componesse insieme in una realtà superiore. Il nuovo mito – osservava Einaudi – era tuttavia «la continuazione e l’adattamento del sistema che a poco a poco la guerra aveva foggiato». La sua forza di suggestione derivava dalla convinzione, rivelatasi drammaticamente illusoria, di poter aumentare la ricchezza collettiva attraverso una illimitata politica del «torchio», ossia tramite l’emissione incontrollata di carta moneta.
La conseguenza dell’«illusione inflazionistica» fu invece soltanto quella di incoraggiare un vero e proprio «arrembaggio al tesoro statale» da parte di tutte le categorie e gli interessi produttivi organizzati: industriali, cooperative (senza distinzione di colore politico e di matrice ideologica), sindacati, associazioni contadine, ecc, scatenando «un tumultuoso arraffa arraffa», foriero di aspre e incontrollabili tensioni sociali. Seguendo alcune esemplari vicende di cronaca del dopoguerra – il rapido accrescimento dell’industria pesante per via di collegamenti, concentrazioni, programmi grandiosi nei gruppi Ilva, Ansaldo e altri; i ripetuti assalti alle banche da parte di gruppi industriali; la caduta dell’Ansaldo e della Banca Italiana di Sconto; il salvataggio dei depositanti dei banchi a spese dell’erario – Einaudi giungeva così a concludere che il successo tecnico del collettivismo di guerra avesse finito per iniettare «il veleno dell’operare economico garantito dallo stato in tutte le classi economiche», contribuendo in tal modo sia a inasprire l’odio tra i diversi gruppi sociali in lotta al fine di assicurarsi il massimo livello di protezione statale, sia alla progressiva, inarrestabile disgregazione dello spirito unitario che la guerra vittoriosa, pur tra mille contraddizioni e per breve tempo, aveva lasciato sperare di poter finalmente un giorno realizzare.
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4. Guerra, classi dirigenti ed etica pubblica
L’incapacità di superare la crisi del dopoguerra, secondo Einaudi, non fu dunque economica, bensì morale: «Il rivolgimento sociale della guerra e della conseguente inflazione monetaria diede alimento alla crisi coll’accentuare il prepotere dell’istinto egoistico e col rivolgere gli uomini, ancor più di quanto non accadesse già prima della contemplazione del cielo alle faccende acquisitive terrene». Gli effetti deteriori di questa presa del potere pubblico sulla società e della deresponsabilizzazione delle forze produttive della nazione sedotte dal protezionismo statale, erano stati tuttavia amplificati, secondo Einaudi, dall’assenza di una classe dirigente all’altezza degli uomini che avevano costruito lo stato unitario. La guerra, nella quale molti avevano riposto la speranza di veder nascere un’altra Italia, aveva invece finito, per Einaudi, coll’accentuare «la mediocre composizione della classe politica; perché disperse e indebolì quello che restava delle antiche classi indipendenti e arrestò forse per decenni la elevazione delle nuove classi medie agricole ed industriali al grado di classi politicamente indipendenti». La polemica di Einaudi sulla scomparsa del «better element» dalla politica e sul prevalere di una concezione utilitaristica e pragmatica dell’arte di governo, s’intersecava qui con una riflessione più generale di carattere teorico-istituzionale sul presente e sul futuro di una concezione autenticamente liberale dello stato. La guerra europea aveva rappresentato per l’economista il momento in cui si erano precisati i profili di due distinte forme di liberalismo, quella di matrice anglo-sassone, alla quale si sentiva intimamente legato, e quella di ispirazione “continentale”, alla quale per molti aspetti egli riteneva riconducibile anche la costituzione dell’Impero guglielmino. Egli delineava pertanto un elemento di netta contrapposizione fra due modelli di democrazia liberale che non ricalcavano in modo rigido la composizione dei due grandi schieramenti bellici, ma sembravano risalenti a una più remota divaricazione di ordine giuridico-istituzionale.
Divaricazione che aveva dato vita, da un lato, a costituzioni capaci (come nel caso britannico) di incorporare la moderna idea di libertà e di fonderla al contesto “assolutista” di formazione dello stato moderno, sancendo un nesso virtuoso tra rappresentanza e decisione; e dall’altro a costituzioni le quali, al contrario – sull’esempio della Rivoluzione Francese – avevano più o meno coerentemente elevato a principio di governo la “finzione” del parlamento espressione della volontà popolare, lasciando, però, che altri poteri e altre istituzioni (la dittatura dei virtuosi, la burocrazia statale, l’esercito, la corona ecc.) surrogassero nei fatti quel principio, incorporandone le prerogative. L’esperienza inglese, così come quella americana, dimostravano, secondo Einaudi, che le vere democrazie liberali non si governavano attraverso i parlamenti. La guerra del 1914 gli apparve come una conferma di questo principio generale. La tradizionale polemica antiparlamentare di fine secolo-primo Novecento, resa ancor più stringente dal carattere imperioso dei governi di guerra, si arricchiva, dunque, con Einaudi di nuovi e pesanti argomenti “istituzionali”. Quella polemica, come noto, era strettamente associata alla figura di Giolitti, da sempre al centro degli attacchi del quotidiano milanese e dell’agguerrita compagine degli intellettuali liberisti italiani. La guerra per Einaudi aveva ormai sancito il distacco definitivo fra l’amorfo parlamento “neutralista” e il “paese reale”, rappresentato in primo luogo dai combattenti, ma anche da quell’opinione pubblica consapevole e illuminata, costituita dagli opinion makers e dalla stampa, la sola istanza, quest’ultima, in grado di esercitare un efficace controllo sull’azione di governo e di dare vita a quel confronto libero di idee senza il quale sarebbe stato vano attendersi l’emergere di una visione alta e lungimirante degli interessi del paese. La polemica antiparlamentare einaudiana affondava le sue radici nella critica del sistema di governo realizzato in Italia a partire dalla cosiddetta “rivoluzione parlamentare” del 1876 e dall’avvento al potere di Depretis, punto di svolta, secondo Einaudi, di un inarrestabile processo di degenerazione del costume politico e dell’etica di governo in Italia. Si era trattato di un passaggio epocale, come in varie occasioni aveva avuto modo di sottolineare Einaudi, segnato da un sempre più perverso intreccio tra parlamento e amministrazione e dal correlato abbandono della severa cultura del bilancio che aveva ispirato la linea economica degli statisti della destra storica. Di qui il sistematico uso clientelistico della spesa pubblica, che Giolitti avrebbe perfezionato nel corso della sua lunga “dittatura” parlamentare e che la guerra, rivestendolo di un potente afflato miracolistico, avrebbe definitivamente consacrato. A sostegno delle sue idee Einaudi richiamava le pagine di un pur fervente ammiratore del sistema parlamentare come Giustino Fortunato, che non aveva lesinato da par suo critiche acuminate alla condotta di molti uomini politici del suo tempo. La guerra, secondo Einaudi, proprio in virtù degli enormi sacrifici richiesti al paese per vincerla, rappresentava pertanto l’occasione irripetibile per riscoprire e mettere a valore la cultura del “buongoverno” dei padri fondatori dello stato italiano: vale a dire buona amministrazione, severità dei costumi, prudenza nel ricorso a strumenti quali l’emissione di carta moneta e preferenza accordata alla leva tributaria e fiscale (e, al limite, ai prestiti) al fine di ridistribuire equamente i sacrifici tra la popolazione. Sia pure entro i limiti di una economia di guerra che ovunque registrava fenomeni di forte indebitamento pubblico, di incontrollato aumento della circolazione cartacea, di marcato interventismo statale e protezionismo, una rigorosa etica del bilancio, secondo Einaudi, sarebbe stata in grado di preservare il paese da una cattiva redistribuzione dei sacrifici e degli oneri sociali ed economici della guerra, scongiurando in tal modo l’inevitabile esplosione di rivendicazionismi e di rancori sociali. E soprattutto avrebbe spezzato l’intreccio sempre più perverso tra bilancio pubblico e interessi privati che ostacolava – secondo Einaudi – la formazione di una florida economia di mercato, nonché l’emergere di una vasta e dinamica società civile in seno alla quale poter finalmente attingere élite politiche virtuose e lungimiranti.
La speranza di Einaudi di aver trovato nel fascismo lo strumento di una rivoluzione liberista orientata in tal senso, fu invero breve. La sostanza autoritaria e illiberale dello stato fascista, modellato sull’esperienza dei governi di salute pubblica che avevano operato nella guerra appena conclusa, non tardò a rivelarsi anche agli occhi di chi, come Einaudi, aveva creduto di poter vedere le sue idee liberali concretizzarsi attraverso gli indirizzi di politica economica di un De Stefani. Tornava a questo punto di estrema attualità e importanza per Einaudi la denuncia del nesso inscindibile tra il dogma della sovranità assoluta dello stato, che ispirava tutto il disegno giuridico-normativo del “fascismo regime” (sia pure contraddicendolo sul piano fattuale), e il disordine e la conflittualità internazionali. E tornava di grande attualità la riproposizione dei concetti di sovranazionalità e di interdipendenza quali pilastri operativi di un pacifico, stabile e prospero ordine politico internazionale. La Seconda guerra mondiale avrebbe costituito per Einaudi un ulteriore decisivo banco di prova di queste sue idee.
Approfondimento:
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5. La Seconda guerra mondiale e l’interventismo liberale
La Seconda Guerra Mondiale, epilogo delle tensioni e delle contraddizioni irrisolte della Grande Guerra e del fallimento della pace del ’19, parve a Einaudi una conferma di molte delle sue idee circa la natura, le cause e le conseguenze delle guerre. Tali idee ebbero un punto alto di sintesi nel suo discorso del 29 luglio 1947 all’Assemblea Costituente durante il dibattito sulla ratifica del trattato di pace. Egli vi affermava che, come la prima, anche la seconda guerra mondiale aveva avuto origine nella contraddizione radicale tra le spinte crescenti alla integrazione dei popoli e degli stati provocate dai progressi della tecnica, delle comunicazioni dei commerci e dell’economia, e la forma dominante degli stati a sovranità assoluta, chiusi e protezionistici, in tutti i quadranti mondiali e in particolare in Europa.
In un arco di 25 anni – osservava Einaudi – quella contraddizione aveva toccato per due volte nel nostro continente il suo punto critico, sino a diventare l’innesco di devastanti conflitti. La riconsacrazione del principio dello stato a sovranità assoluta posto a fondamento dei trattati di pace seguiti alla prima guerra mondiale; la elevazione a dogma di quel principio operata dai regimi ideocratici instaurati in Russia, in Italia e in Germania; il fallimento del tentativo di attenuarne la forza con la creazione della Società delle Nazioni, dopo la prima, era fatale che portassero alla seconda guerra mondiale. Perché soprattutto in Europa, la contraddizione tra il sistema di stati a sovranità assoluta e protezionistici, e la dinamica ad essi imposta dagli eccezionali sviluppi della tecnica, delle comunicazioni e dell’economia spinsero alcuni stati – come era accaduto nel ’14 – a muoversi per la conquista militare di quello che consideravano il proprio spazio vitale, necessario nelle nuove realtà a difendere e ad affermare la propria sovranità senza limiti.
Per Einaudi dunque la conquista dello spazio vitale coincideva con l’obiettivo di unificare politicamente ed economicamente l’Europa con la forza, a vantaggio degli stati che avevano saputo affermare e praticare la dottrina della sovranità assoluta. Di qui i due ammonimenti essenziali suggeriti dalla seconda guerra mondiale e dai suoi esiti. Il primo era la necessità di avviare un processo di integrazione politica ed economica di tipo federale del continente. Non solo quale unico antidoto a nuove guerre, ma anche quale ineliminabile fattore di rinascita civile, economica e sociale delle nazioni europee, nell’ordine e nella libertà. Il secondo ammonimento, rivolto ai popoli e ai governi di tutto il mondo, era quello di impegnarsi alla creazione di un organismo sovranazionale dotato di poteri tali da poter intervenire – con autorità e forza adeguate che gli derivassero dalla cessione da parte degli stati sovrani di una quota dei loro poteri tradizionali – per prevenire e depotenziare le tensioni suscettibili di sfociare in nuovi conflitti.
Einaudi sarebbe stato poi gratificato dal poter assistere e favorire – in misura e nei modi consoni agli altissimi incarichi a cui fu chiamato a partire dal 1944 – alla nascita e allo sviluppo del processo di integrazione politica ed economica dell’Europa. E fu facile profeta –avendo denunciato, sin dalla gestazione, i limiti giuridici e politici della Società delle Nazioni – nel denunciare le ragioni di fondo di quella che sarebbe stata l’impotenza delle Nazioni Unite nate con l’ambizione di eliminare dal mondo la peste della guerra. Occorre dire che anche di fronte alle tragiche vicende della seconda guerra mondiale le osservazioni, le analisi e le proposte di Einaudi sono sintesi alte di idealismo e di realismo, che hanno origine nella consapevolezza che la natura dell’uomo è un a armonica fusione di materia e di spirito. Ciò appare evidente nell’articolo The Nature of a World Peace (in The Annals of the America Academy of political and social science) del luglio 1940, dove sono messe in evidenza le componenti culturali – e per certi aspetti “religiose” dei conflitti; e dove tornava a sottolineare il peso della natura assolutista degli stati dominanti in Europa e nel mondo nel loro innesco.
Cinque anni dopo su La Libertàdi Milano del 13 luglio 1945 – a guerra non ancora conclusa in Estremo Oriente e dopo la firma il 26 giugno della Carta delle Nazioni Unite – con realistico pessimismo, ma anche senza chiudere del tutto l’animo alla speranza, Einaudi prendeva atto che, nella sostanza, ancora una volta i “grandi” del mondo, come a Parigi nel 1919, mostravano di non prendere atto degli insegnamenti incontestabili della guerra su come prevenire altri devastanti conflitti; e lo facevano per non dover rinunciare a parti di quella sovranità politica retaggio della cultura “assolutista” dello stato e del sistema di governo. Nell’articolo Einaudi – come in tante occasioni – è didascalico. Ricorda in apertura che il direttore dell’edizione italiana della rivista delle forze armate americane Star and Stripes, dopo l’approvazione della Carta delle Nazioni Unite si era chiesto se il nuovo organismo internazionale sarebbe stato in grado di fermare l’aggressione di Mussolini all’Etiopia, nell’ipotesi fosse stato in vigore nel 1935-36.
La sua risposta era stata negativa; ed Einaudi ne spiegava così le ragioni. La Carta di San Francisco, «dopo la premessa magnifica e la elencazione altrettanto stupenda degli scopi di pace, di progresso, di civiltà che i popoli e le nazioni unite si propongono di raggiungere, il testo del preambolo conclude: ‘Accordingly, our respective governments … perciò i nostri rispettivi governi…’. Il dado era gettato». Il patto – concludeva – «non è un patto fra popoli, è un patto fra stati sovrani; è un patto basato ‘on the principe of the soveraign equality of allits members’, nel principio dell’eguaglianza sovrana fra tutti i suoi membri. Poiché la forza della guerra è appunto il principio della sovranità degli stati singoli, dal principio posto non poteva nascere la soppressione della guerra. Nobili sforzi umanitari di creare un mondo nel quale gli uomini persuadano i loro governanti a non fare guerre sì; ma nulla di più. Siamo ancora al limite del problema della pace. La soluzione non è venuta».
Questi lucidi giudizi sulla impossibilità delle Nazioni Unite di costituire una robusta barriera a nuove minacce di ricorso alla guerra da parte degli stati avevano una premessa rafforzativa nelle considerazioni fatte da Einaudi in un articolo – titolo Il Problema – pubblicato su L’Opinione del 23 maggio 1945, che oltretutto appare di una straordinaria attualità. Il punto centrale era «che gli alleati (…) in verità combattono per affermare l’obbligo di intervenire negli affari interni di uno stato, il cui regime costituisse una minaccia continua alla loro esistenza, (…) per proclamare solennemente che non è tollerabile la persistenza in qualunque angolo del mondo di uno stato ispirato a ideali distruttivi tirannici e totalitari (…) perché un regime il quale opprima la libertà umana all’interno è un governo di infezione per tutto il mondo». Einaudi dunque è un convinto sostenitore della «guerra per la democrazia»: ossia del diritto delle democrazie liberali di intervenire negli affari interni di uno stato per sovvertirne l’ordine politico e sociale, qualora questo si fosse ispirato a teorie e a principi totalitari, dunque incompatibili con i principi e i valori ispiratori dello Stato di diritto, e per ciò stesso intrinsecamente perniciosi per la pace.
Quelli liberali erano per Einaudi i soli «valori spirituali» in grado di reggere il mondo: questo era stato l’insegnamento della prima guerra mondiale, nonché la giustificazione della scesa in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa; ed erano gli stessi valori ai quali si richiamavano gli alleati nella guerra per difendere e allargare nel mondo gli spazi della democrazia. È uno scritto che, oltre al valore teorico, assumeva una particolare importanza considerato il clima da guerra civile che in quel maggio veniva alimentato in larghe aree del centro-nord in Italia. In tale situazione la funzione degli alleati doveva essere perciò quella di favorire con i mezzi giuridici e militari di cui essi disponevano, la difesa intransigente dei principi di libertà e di certezza del diritto appena riconquistati, ma già minacciati dalla presenza sul terreno della lotta politica di una forza politica che ispirava la sua azione a una delle ideologie statolatriche e totalitarie che più avevano contribuito a riempire di cimiteri il pianeta; e godeva dell’appoggio dello stato che, apertamente, era impegnato a far trionfare nel mondo quell’ideologia.
Approfondimento:
- The nature of a world peace
- Di taluni insegnamenti della Svizzera nel momento presente
- Lineamenti di una politica economica liberale
6. Il secondo dopoguerra: l’internazionalismo liberale alla prova
Tra i “frutti” della seconda guerra mondiale avevanodunque provocato amarezza in Einaudi i gravi limiti evidenti nell’atto costitutivo delle Nazioni Unite sulla possibilità dell’organizzazione di impedire agli stati il ricorso alla guerra per risolvere controversie. Altri “frutti” però avevano aperto il suo animo alla speranza che l’Europa e il mondo avrebbero potuto imboccare la via del graduale superamento del principio dello stato a sovranità assoluta, che egli aveva sempre considerato all’origine delle guerre, e in particolare degli ultimi due devastanti conflitti mondiali. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 infatti gli apparvero un significativo segnale della presa d’atto da parte delle grandi potenze impegnate nella lotta a quelle del Tripartito, della necessità di non ricadere, come aveva denunciato Keynes, nei funesti errori del 1919 in materia del regolamento dei danni di guerra e delle posizioni debitorie tra le potenze della coalizione vincente. E nello stesso tempo della volontà dei 44 paesi firmatari di impegnarsi ad accettare chiare regole (in sintesi estrema: parità fisse tra monete e multilateralizzazione dei saldi valutari, con piena convertibilità delle monete in oro o in valuta pregiata) allo scopo, a guerra finita, di stimolare il commercio internazionale e l’espansione dell’economia mondiale.
Non sfuggiva infatti a Einaudi che per quanto gli accordi di Bretton Woods non potessero prescindere dalla presa d’atto della naturale gerarchia tra gli stati firmatari – con in cima gli Usa – essi comportavano comunque l’obbligo per tutti i contraenti di rispettare vincoli negli indirizzi e nell’attuazione delle proprie politiche monetarie ed economiche, che necessariamente producevano anche una reale limitazione dei propri poteri sovrani, a vantaggio della comunità degli stati che avevano sottoscritto gli accordi. Che Einaudi interpretasse correttamente la natura e il valore di Bretton Woods al fine di compiere a livello mondiale significativi progressi verso obiettivi di pace e di crescita civile e sociale dei popoli, lo dimostra l’evoluzione positiva in quelle direzioni segnata dai 44 stati firmatari degli accordi, e dagli altri che li avrebbero sottoscritti in tempi successivi, nei tre decenni che essi furono in gran parte a base dei movimenti di capitali e di merci nel mondo.
Anche il Piano Marshall – altro “frutto” della seconda guerra mondiale – suscitò in Einaudi apprezzamenti e speranze che si rivelarono ben riposte. In particolare per l’impulso che diede anche alla (da lui sempre auspicata) integrazione economica e politica dell’Europa, al fine di eliminare per sempre le guerre “fratricide” tra gli stati del continente, e incrementare il loro sviluppo civile, economico e sociale nell’ordine e nella libertà. Il Piano infatti, per i fini che si proponeva e per gli strumenti che metteva a disposizione per realizzarli, coincideva con idee e proposte che avevano caratterizzato tutta la riflessione filosofica, economica e politica di Luigi Einaudi. Infatti, per accelerare la ricostruzione materiale e morale e il risanamento finanziario dei paesi europei devastati dalla guerra (compresi quelli del blocco politico che si era formato attorno all’Urss vittoriosa) gli indirizzi e le proposte del Piano erano agli antipodi delle decisioni politiche, economiche e finanziarie sancite dai trattati di pace del 1919-20, che si sarebbero rivelate un fattore decisivo per lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Per Einaudi infatti era di eccezionale e positivo significato per l’Europa e per il mondo che l’America, con la proposta del Piano, mostrasse di non voler abdicare (come era accaduto nel primo dopoguerra) ai propri doveri di stato-guida delle democrazie, e ponesse concretamente il proprio prestigio e la propria forza politica, le proprie eccezionali risorse economiche, finanziarie e militari al servizio della causa della libertà in Europa e nel mondo. Einaudi era stato sempre, come si è detto, un idealista-realista, e non gli sfuggiva certo che nella proposta del Piano c’era anche una consistente quota di “tornaconto nazionale”. Ma era altrettanto certo che vi fosse da parte dell’America anche il riconoscimento di fatto (oltre che nelle enunciazioni dei fini) del valore decisivo che la interdipendenza degli stati veniva ad assumere nell’era atomica, al fine di garantire al massimo grado possibile pace, sicurezza e benessere ai popoli. Tale principio, posto a fondamento di una intesa tra stati – sia pure di diverso peso economico, politico e militare – costituiva per Einaudi un ulteriore e significativo passo sulla via del contenimento e della riduzione del principio di sovranità assoluta degli stessi, che era una dei fondamenti del suo pensiero e delle sue analisi, giudizi e proposte in campo politico ed economico.
A due anni dall’articolo pubblicato sull’Opinione nel maggio del 1945, infine, non poteva sfuggire a Einaudi che la proposta del Piano Marshall implicava anche una risposta positiva all’interrogativo che allora s’era posto, e che a due anni dalla fine della guerra diventava sempre più pressante per i paesi democratici dell’Europa: se fosse un diritto-dovere delle democrazie liberali di dare risposte tempestive e adeguate, anche con interventi diretti nei singoli paesi, alle minacce che stati totalitari portassero alle istituzioni e all’ordine sociale di stati a ordinamenti ispirati ai valori liberali, per lui i soli «in grado di reggere il mondo»
Approfondimento: