Luigi Einaudi: una memoria viva[1]
Luigi Einaudi. Valori umani per l’economia e la politica, estratto dalla Relazione d’esercizio 2007 della Banca Popolare di Sondrio
Non ho conosciuto personalmente Luigi Einaudi, anche se è stato “mio Governatore” dal 1946, anno del mio ingresso in Banca d’Italia, fino al maggio del 1948, anno della sua elezione a Presidente della Repubblica. Per chi come me ha trascorso in Banca d’Italia quasi mezzo secolo, Einaudi è stato, e pour cause, riferimento costante, pietra angolare.
La cultura della Banca d’Italia è profondamente intrisa del pensiero einaudiano, ispirata ai suoi valori. Einaudi è il modello di servitore delle istituzioni al quale i suoi successori hanno guardato per orientare la propria azione, pur nella diversità di situazioni. Ma modello Einaudi lo fu per tutto il personale della Banca: ricordo ancora nel racconto di vecchi impiegati che lo avevano conosciuto il sentimento di ammirazione per quell’uomo sobrio e discreto, rigoroso fino alla severità; una severità che trovava temperamento in una umanità profonda che sapeva farsi sollecitudine quasi paterna di fronte alle difficoltà dei suoi collaboratori, soprattutto di quelli in posizione e di condizione più modeste.
La figura di Einaudi in Banca d’Italia resiste alla tirannia del tempo. E non potrebbe essere diversamente: la stabilità monetaria è scritta nei geni di una banca centrale e la manovra di “stabilizzazione”, attuata nel 1947 da Einaudi e Menichella, le convinzioni e i riferimenti culturali che la ispirarono appartengono alla memoria collettiva dell’Istituto. Un legame ricambiato da Einaudi. Antonio d’Aroma, il più stretto collaboratore di Luigi Einaudi dai tempi della Banca d’Italia fino alla Presidenza della Repubblica, ricordava che egli «non cessò mai, fino all’ultimo giorno di vita, dal ragionare come governatore della banca centrale».
Consapevole del ruolo che la Banca avrebbe potuto svolgere nel processo di ricostruzione del Paese, il 31 marzo del 1947, presentando all’Assemblea dei Partecipanti la relazione sull’ esercizio 1946, Einaudi esordiva precisando che essa conteneva «l’analisi contabile delle principali partite del bilancio dell’Istituto di emissione» e subito dopo aggiungeva «importa ora compiere dei fatti accaduti un’analisi che direi economico-morale»: è l’atto di nascita delle Considerazioni finali. Da allora con questo documento ogni anno il Governatore presenta al Paese la sua analisi sull’andamento dell’economia; illustra la “visione” della Banca d’Italia.
Cessato l’ufficio di Governatore, Einaudi attese sempre la Relazione della Banca «come raro dono», da leggere, commentare, postillare, e poi rinviare al Governatore, che teneva in gran conto quelle osservazioni.
La prosa chiara e asciutta delle sue annotazioni era anche una testimonianza di «amore per la limpidezza delle idee e dell’espressione, che si rivela dettato dal piacere di pensare, dall’onestà nel seguire la logica, dal rispetto per la persona cui ci si rivolge, chiunque sia».
La lezione einaudiana ha costituito per me – come ho già ricordato – un riferimento costante: da Governatore, nelle responsabilità di governo, da Presidente della Repubblica.
Chiamato al più alto magistero della Repubblica ho guardato a Einaudi, non solo come all’illustre predecessore del quale, per singolare coincidenza, ripetevo in qualche modo il percorso. Ricordandone la figura in occasione del quarantennale della scomparsa, osservavo che egli «nell’esercitare il primo mandato settennale di Presidente della Repubblica Italiana ha avuto la responsabilità di gestire la transizione dalla forma monarchica a quella repubblicana al più alto livello dello Stato. Egli ha, in tal modo delineato lo stile istituzionale della magistratura presidenziale, tracciando un modello di riferimento destinato a durare nel tempo». Per me Einaudi è stato, soprattutto, modello di imparzialità e di discernimento.
Egli concentrò la sua azione sulle funzioni che la Costituzione gli assegnava. Ce ne dà conto egli stesso, nella prefazione a Lo scrittoio del Presidente, spiegando, quasi puntigliosamente, la sua lettura degli articoli 74, 87 e 95 della Costituzione. Con riferimento a quest’ultimo articolo, in particolare al passaggio «il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo», dichiara di averne dato «una interpretazione …, forse più larga della lettera della Costituzione, ma che ritengo conforme al sistema voluto dalla Costituente: la politica del Paese spetta al governo il quale abbia avuto la fiducia del Parlamento e non invece al Presidente della Repubblica».
Non volle, quindi, mai andare oltre i poteri che in una Repubblica parlamentare sono accordati al Presidente, senza per questo rinunciare all’esercizio delle prerogative che gli spettavano. Assolse al suo mandato con mano ferma e con autorevolezza; con discrezione ma senza risparmio, quando necessario, intervenne con la forza persuasiva del consiglio, del suggerimento, della esortazione. Tuttavia si fece scrupolo di precisare che «anche quando il tono può apparire vivace» le sue osservazioni non avevano mai «indole di critica, sibbene di cordiale cooperazione o di riflessioni comunicate da chi, anche per ragioni di età, poteva essere considerato un anziano meritevole di essere ascoltato». Era la sua vocazione pedagogica, la stessa che lo aveva animato da giornalista della Stampa e del Corriere della Sera; da docente, nelle aule universitarie; da senatore, in Parlamento. Insomma, dovunque lo portassero il suo ruolo e la sua funzione, dovunque ritenesse di dover far sentire forte e chiara la sua voce per servire la causa del bene comune non ha mai temuto di fare Prediche inutili.
Un altro punto per il quale sento di avere un debito con Einaudi è l’Europa. La mia fede nell’Europa unita ha tratto forza dall’europeismo di Einaudi. Una convinzione che giovanissimo, appena ventitreenne, egli esponeva con grande lucidità sulle colonne della Stampa, affermando che solo in una Europa unita «si giungerà a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza, e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra».
Esule in Svizzera, nel 1944, mentre si consumava tragicamente l’epilogo della seconda guerra mondiale, indicava come passaggio ineludibile per il futuro dell’Europa l’abolizione del «diritto dei singoli Stati federati di batter moneta propria con denominazioni, pesi e titoli propri e di istituire banche centrali con diritto di emissione indipendente di biglietti». Occorreva abolire «la sovranità dei singoli Stati in materia monetaria»; le ragioni di questa sua convinzione era la storia stessa a fornirle. «La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco – ricordava a mo’ di ammonimento – che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori. Se la federazione europea toglierà ai singoli Stati federati la possibilità di … far gemere il torchio dei biglietti … avrà, per ciò solo, compiuto opera grande».
Quell’opera è stata compiuta: la moneta unica, che l’Italia ha tenacemente voluto anche a costo di sacrifici, è una realtà, così come lo è la Banca Centrale Europea. Il disegno che Einaudi ventenne aveva abbozzato nello scorcio del XIX secolo, all’inizio del terzo millennio ha assunto contorni e contenuti precisi. L’Europa deve ora saper accelerare il suo cammino verso l’unificazione politica.
Mi piace concludere questa breve testimonianza su Luigi Einaudi ricordandone il saldo legame con la Confederazione Elvetica, di cui ammirava le istituzioni, il sistema parlamentare, le forme di democrazia diretta, le università, le scuole, insomma «tutto [ciò che] rispondeva ai suoi gusti, alle sue inclinazioni, ai suoi ideali».
In Svizzera Einaudi trovò generosa ospitalità quando, il 23 settembre 1943, insieme con la moglie, Donna Ida, fu costretto all’esilio per sfuggire, dopo l’armistizio dell’8 settembre, alla milizia fascista.
Di quel viaggio pieno di difficoltà e di rischi per una coppia di anziani, Einaudi ci ha lasciato una cronaca commovente nel Tagebuch einer Flucht aus Italien, apparso in forma anonima, il 15 gennaio del 1944, su Der Schweizerische Beobachter di Basilea.
Serbò sempre con animo profondamente grato la memoria di tutto quanto la Svizzera fece per rendergli meno penoso l’esilio, consentendogli di continuare il suo lavoro e i suoi studi: appartengono al periodo svizzero Le lezioni di politica sociale, frutto in gran parte dei corsi tenuti all’Università di Ginevra e alla Scuola di Ingegneria di Losanna.
Nel rievocare, per un visitatore, le peripezie della fuga in Svizzera, ebbe a dire testualmente: «J’ai été reçu à la frontière, comme si le gouvernement suisse s’était dérangé pour moi».
Tornato in Italia, il 10 dicembre del 1944, senza indugio rese omaggio al paese che aveva offerto a sua moglie e a lui una testimonianza concreta di amicizia e solidarietà. Lo fece, il 13 dicembre, con un articolo sul Risorgimento liberale intitolato significativamente Prime impressioni, dove descrivendo a beneficio del lettore italiano il funzionamento delle istituzioni svizzere, illustrava lo svolgimento delle operazioni di scrutinio dopo una tornata elettorale, alla fine della quale «si fanno calcoli complicati per proclamare gli eletti; e l’indomani la vita politica continua ordinatamente. Nuovi uomini seguono ai vecchi, lentamente; le parti mutano nome e fini, non metodi».
Ecco, nel mio ricordo, questo era Luigi Einaudi, lo statista, l’uomo al quale ancora guardiamo grati e ammirati.
[1] Per il riscontro di alcuni ricordi mi sono avvalso delle Memorie di famiglia e di lavoro di Antonio d’Aroma, raccolte in volume, nel 1975, a cura dell’Ente per gli Studi Monetari Bancari e Finanziari Luigi Einaudi di Roma.