Verso la città divina
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/04/1920
Verso la città divina
«Rivista di Milano», 20 aprile 1920
Gli ideali di un economista, Firenze, «La Voce», 1921, pp. 341-346
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 32-36
«Nuovi studi politici», XII, 1, 1982, pp. 3-7
L’articolo che Giuseppe Rensi intitola alla “belva bionda” è lo sfogo appassionato, ansioso di chi si sente sperduto nel disordine, nell’anarchia, in mezzo all’odierno ammattimento convulsionario di tutto e di tutti. Si vuole un po’ di ordine; si desidera l’uniformità, il comando, l’idea unica a cui tutti obbediscano, il Napoleone. La borghesia sembra incapace a ricreare la disciplina; i borghesi hanno il temperamento critico e corrosivo. Lasciamo dunque il passo al proletariato ignorante, crudele, ma risoluto e deciso a far trionfare il proprio ideale, ad ammazzare quanta gente basta, perchè tutti gli ideali scompaiano e soltanto il suo rimanga e domini e dia agli uomini ciò di cui essi hanno sovratutto bisogno: una autorità, una disciplina, una religione, dia alla società un’unità viva e vera. Giuseppe Rensi ha scritto, in una pagina di prosa irruenta e magnifica, un vero inno alla forza che unifica, che uccide il dubbio e segna la strada. Il suo inno risponde ad un bisogno dell’animo umano il quale rifugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità degli spiriti, anche se ottenuta col ferro e col sangue.
Se ne fossi capace, vorrei scrivere un inno, irruente ed avvincente come il suo, alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti. Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? Perché dobbiamo esaltare il proletariato ignorante e crudele, il quale non critica, ma vuole; vuole ciò che non sa e vuole tanto più fortemente quanto meno conosce la meta verso cui tende? Qual mai ragione sostanziale vi è perché lo stato debba avere un proprio ideale di vita, a cui debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uniformarsi? Perché una sola religione e non molte, perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni?
Il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto.
Coloro i quali si lamentano del disordine odierno degli spiriti ed anelano ad un ordine nuovo, non sanno interpretare se stessi, si lagnano di ciò che amano, soffrono di ciò che li fa vivere. L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con altri ideali, che a lui sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita, che tutti accolgono, non val più nulla. Noi economisti applichiamo questo concetto ai beni economici, dicendo che un bene, per acquistare il quale non fa d’uopo fare alcuno sforzo, non è più un bene economico, vale zero. Così è anche dei beni morali. Se un Napoleone proletario riuscisse ad imporre il suo impero all’Europa, se distruggendo tutti gli avversari e tagliando la testa a tutti coloro che pensassero diversamente, imprimesse le idee del proletariato a tutti gli europei, in quel giorno vi sarebbe forse l’unità, ma l’unità del nulla. L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita, la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla.
No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata che noi conduciamo pare insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle venture generazioni, le quali godranno i frutti delle verità politiche, economiche e morali che i contrasti odierni avranno fatto trionfare.
O non è forse una concezione dello stato che vuole trionfare contro un’altra? Trionfo non definitivo, precario, ognora combattuto e contrastato da tendenze avverse? Ma la volontà di trionfare esiste; ed il tragico del momento sta in questo che molti, che troppi uomini non vedono che una lotta grandiosa si combatte tra due opposti principi e in che cosa stia la lotta.
C’era un tipo di stato, il quale aveva un ideale religioso, e voleva imporlo agli uomini tutti viventi in Europa. La riforma protestante spazzò via quel tipo di stato; e la vita religiosa divenne un problema individuale, intimo, sottratto al controllo altrui. Fu, pensano molti, un raffinamento della religiosità.
Ci furono, dopo, stati i quali vollero imporre agli uomini un ideale unico di vita politica. A volta a volta Spagna, Francia, Germania credettero di avere la missione di governare il mondo; di plasmare l’umanità secondo un proprio schema ideale politico, economico, spirituale: il mondo divenuto spagnuolo, francese, tedesco. Senza dubbio l’ideale era grandioso. Terribilmente bello. Ho scritto tante volte, prima durante e dopo la guerra, che la vittoria dei tedeschi sarebbe stata una fortuna, economicamente e politicamente, per l’Europa e per l’Italia. E torno a scriverlo. Governo di dotti, poveri ed onesti; economia ben diretta; progressi tecnici meravigliosi; incrementi del sapere e del benessere straordinari, mai più visti ed a breve scadenza; una classe governante consapevole di sé, dura coi rivoltosi, ma benefica alla gente tranquilla: ecco quali sarebbero state le conseguenze di una vittoria dell’idea contenuta nello stato tedesco.
Non ho altrettanta fede, anzi non ho alcuna fede che risultati consimili si possano mai ottenere in seguito alla vittoria dell’ideale comunista russo. Dall’ignoranza e dalle barbarie, da una classe priva di dirigenti non può nascere l’ordine e la disciplina. Ma dalla Germania vittoriosa questo poteva sperarsi, questo era certo si sarebbe ottenuto: che per un secolo l’Europa e forse l’umanità avrebbero parlato, pensato ed operato in tedesco, secondo modi di pensare e di vivere tedeschi, secondo una disciplina ed una volontà unica. L’umanità per un secolo sarebbe stata contenta. Così come sarebbe accaduto se avesse vinto Napoleone. Epperciò quell’uomo di genio non riuscì mai a comprendere perché mai i popoli d’Europa repugnassero alla felicità che egli voleva ad essi procurare.
La rifiutarono anche stavolta. Milioni di uomini morirono per allontanare dall’Europa l’amaro calice della felicità e dell’unità spirituale. Morirono per far trionfare un altro ideale. L’ideale dello stato, il quale si astiene dall’imporre agli uomini una foggia di vita. Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non ci fosse una unità religiosa imposta dallo stato. Con le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora terminata gli uomini combatterono contro l’idea dello stato il quale impone una forma di vita politica, di vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui lo stato è concepito come l’ente il quale assicura agli uomini l’impero della legge, ossia di una norma esteriore, puramente formale, all’ombra della quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. Lo stato limite; lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti; la forza limitata alla vita estrinseca; l’unità ristretta alle forme ed alle condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, ognora risorgente. Questo è ciò che vollero gli uomini, i quali si trovarono da una parte della trincea.
La creazione del nuovo tipo di stato è, tuttavia, lenta e difficile e dolorosa. È più semplice comandare che ubbidire: è meno doloroso nonostante il taglio delle teste discordi creare una unità spirituale colla forza del braccio. Ma gli uomini sono nati per creare soffrendo. L’unità, auspicata da Rensi, la disciplina nel lavoro, la società vera di uomini noi la raggiungeremo quando gli uomini, lottando e scagliando gli uni contro gli altri i propri ideali, avranno compiuta la propria educazione; quando si saranno persuasi, con l’amara esperienza propria, con il dolore degli insuccessi, quale via debba tenersi per ascendere. L’unità imposta dai comunisti sarebbe la morte spirituale. Noi vogliamo l’unità, ma conquistata vivendo e soffrendo, elevandoci al di sopra della materia, del godimento bruto. Quando avremo compiuto lo sforzo di veder chiaro dentro ai nostri dissensi, quando li avremo superati col pensiero, avremo raggiunto l’unità spirituale, avremo creata la città divina, quella in cui vivono gli spiriti liberi che sanno le passioni ed avendo sacrificato all’idolo falso, hanno trovato la via della verità.