Vanità dei titoli di studio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1953
Vanità dei titoli di studio
Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, Zanichelli, Bologna, 1953, pp. 115-125[1]
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 549-556
Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 905-912
Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 69-77
Giuliana Limiti, Il presidente professore: Luigi Einaudi al Quirinale, Luni, Milano-Trento, 2001, pp. 177-185
Ho l’impressione che alla costituente si corra, in materia di scuola, dietro alle parole invece che alla sostanza. Tutti vogliono la libertà dell’insegnamento; e tutti sono parimenti d’accordo nell’affermare la necessità degli esami di stato, quando si debbono rilasciare diplomi di laurea, di licenza, di abilitazione alle professioni ecc. ecc. Ma libertà di insegnamento ed esami di stato sono concetti incompatibili. Esame di stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato, da uomini investiti legalmente di un pubblico ufficio, in nome di una determinata autorità pubblica, detta stato, certificato il quale attesta che il tale ha subito certi dati e non altri esami su certe materie prestabilite in regolamenti emanati da quella certa autorità; ed è, per aver subito quelle pubbliche prove, dichiarato atto ad esercitare questa o quella professione, od essere ammesso in dati impieghi presso la stessa od altre pubbliche autorità; ad esclusione di chi non sia proprietario di analogo certificato o diploma o licenza od abilitazione.
Come può supporsi che, dato il punto di partenza, tutte le scuole, pubbliche e private, statali e municipali e consorziali, laiche e religiose, tradizionali o rivoluzionarie non si esemplino sul tipo conforme alle esigenze dell’esame di stato? Avremo ancora dei seminari; od i seminari non si trasformeranno in ginnasi e licei, con programma identico a quello delle scuole statali, chiamate con quel nome?
Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo.
Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti. Per alcuni vogliamo giungere al 10 per cento dei portatori di diplomi? il giovane vale assai di più di quel che sta scritto sul pezzo di carta od, almeno, del pregio che l’opinione pubblica vi attribuisce; ma “legalmente” l’un pezzo di carta è simile ad ogni altro e la loro contemplazione non giova a chi deve fare una scelta tra coloro che offrono se stessi agli impieghi ed alle professioni.
A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine. L’inganno dà ragione di quel piccolo germe di verità che è contenuto nelle querimonie universali intorno al crescente ed eccessivo numero degli studenti medi ed universitari. Querimonie assurde; ché tutti dovremmo augurarci cresca sino al massimo – intendendo per “massimo” la “totalità” dei giovani viventi in un paese ed in età di apprendere, ad eccezione soltanto degli invincibilmente stupidi, e dei deliberatamente restii ad ogni studio – il numero di coloro i quali giungano ad assolvere quegli studi medi od universitari, ai quali dalle loro attitudini essi sono fatti adatti. Che danno verrebbe al nostro paese se gli studenti universitari invece di essere meno di duecento mila, giungessero al milione? Dovremmo, è vero, sopportare un costo grandioso di edifici, di laboratori, di biblioteche; dovremmo formare un corpo adatto di insegnanti. Opera non di anni, ma di decenni. Quando si giungesse alla meta, il paese non sarebbe forse maggiormente prospero dal punto di vista economico, e più sano e gagliardo dal punto di vista morale e sociale? Un popolo di uomini istruiti non val di più di un popolo di ignoranti? Un popolo di lavoratori tecnicamente capaci non val di più di un popolo di manovali? Il danno non sta nei molti, nei moltissimi studenti; sta nell’inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa; e cioè, nell’opinione universale, all’impiego pubblico sicuro od alla professione tranquilla.
Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L’ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi “ing. dott.”, si reputa dappiù del geometra; ed ambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; ed amendue contro gli avvocati. Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell’irrigidimento corporativo, che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull’orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere, vuol dire che soltanto all’insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell’avvocato. Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l’opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quei che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno molta maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla geenna della disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere, ma è privilegio del diplomato.
Forse l’unico impiego al quale possa aspirare in Italia l’”uomo nudo”, è quello di professore di università. Se ben ricordo, persino l’aspirante ad una cattedra straordinaria deve dar prova di possedere qualche pezzo di carta dottorale o di libera docenza; epperciò ordinariamente i concorsi universitari sono aperti per cattedre straordinarie; e quale sarebbe oggi lo stupore dei giudici di un concorso per cattedra ordinaria nel vedersi innanzi l’uomo nudo?
Fra i tanti diplomi, uno ve n’ha il quale è particolarmente pestifero: quello di “dottore”; dottore in qualsiasi cosa, purché dottore. L’Italia sta diventando un paese di dottori. Un tempo, nei ministeri, tutti erano commendatori, od al minimo cavalieri. Ora che questi titoli paiono disusati, tutti sono dottori. Siamo il solo paese nel mondo nel quale paia indecente interpellare una qualunque persona col titolo di “signore”. Tanti anni fa, forse più di trent’anni fa, scrissi invano un articolo dal titolo Torniamo al signore! Persino in Francia, dove le rosette della Legion d’onore sono di rito all’occhiello della giacca, tutti si interpellano col “monsieur”; ed il presidente della repubblica è anche lui un semplice “signor presidente”. In Italia, pareva indecoroso non essere neppure un’eccellenza, o un commendatore, od un cavaliere. Non si usava ancora dare, nel discorrere, del grande ufficiale, del gran croce, del cavaliere ufficiale, sembrando queste parole difficilmente pronunciabili, ma ci si sarebbe arrivati. Oggi, bisogna preoccuparsi della moltiplicazione dei “dottori”. Dovrebbe essere, il titolo di “dottore”, uno dei più alti che possano essere attribuiti ad un uomo. Ricordo che, ad occasione dell’unico viaggio da me compiuto, nel 1926, attraverso le università degli Stati Uniti, fu d’uopo di provvedermi di biglietti da visita, di cui ero privo. Il funzionario della fondazione Rockefeller, della quale ero ospite, rimase incerto fra quelli di senatore e professore, che mi sarebbe spettati; ma alla fine scelse il titolo di “doctor“. Non banfai, lieto che si desse così alta opinione comparativa del nostro titolo dottorale. Un giorno ad Oxford, mi compiacqui nel vedere che i “dottori” di quell’Università, anche se non insegnanti, avevano il passo sui professori.
Fa d’uopo restituire al titolo dottorale la dignità che è sua; riservandolo a chi sia dottore sul serio e cioè capace di insegnare agli altri la scienza nella quale è stato proclamato dottore. Dottore sia soltanto colui il quale, parecchi anni dopo avere compiuto il corso degli studi universitari – direi dopo dieci anni, ma per le facili passate abitudini nostre, ci si potrebbe acconciare ai cinque – dimostri, con una dissertazione a lungo preparata e studiata, di meritare di salire sulla cattedra nella quale chiede di essere addottorato. Dopo cinque anni, chiederà il dottorato soltanto colui che, col fatto, dimostrerà di amare sul serio la scienza.
Gli altri pezzi di carta, rilasciati alla fine degli studi medi od universitari, conferiscano i titoli di licenziato, diplomato, baccelliere, maestro, perito e simili. Titoli innocui e, perché impronunciabili nel comune commercio umano, inadatti ad aizzare la mania nostrana delle titolature verbali.
Scuole ed università, pubbliche e private, rilascino certificati e diplomi a lor piacimento, con la sola riserva del dottorato a cinque anni dopo la fine degli studi universitari. Certificati, diplomi e dottorati avranno quel solo valore che gli insigniti sapranno meritarsi.
Come impediremo, si obietterà, il moltiplicarsi di scuole ed università inesistenti e di titoli fasulli? Evitiamo, è ovvio rispondere, forse oggi il moltiplicarsi di titoli fasulli? Ahi! no; colla beffa, per giunta, di dare ad essi, col timbro statale, un valore legale ingannatore.
Contro i titoli fasulli, odierni e futuri, pare esista un solo rimedio: quello di fare obbligo a tutti coloro i quali si fregiano di un qualsiasi titolo – dottore, diplomato, licenziato, perito, ingegnere, avvocato, geometra, ragioniere, ecc. ecc. – di far seguire – sulle carte da visita e da lettere, sulle sopracarte, sui fogli di avviso o sui documenti d’ufficio, sulle targhe apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio e dovunque compaia la menzione del titolato al proprio nome, cognome e titolo l’indicazione, tra parentesi, della scuola o facoltà universitaria che ha rilasciato il diploma. Così:
Avv. Giovanni Ferraro (dott. legge – Univ. Roma o Perugia o Torino od Urbino, 1943)
ovvero:
Geom. Pietro Altavilla (Istit. tec. Sommeiller, Torino, 1940)
Gli effetti dell’obbligo sarebbero parecchi e tutti benefici:
- procacciar lode alla scuola od università dalla quale è stato diplomato il professionista, il quale ha poscia dato buona prova di sé;
- procacciar biasimo alla scuola od università da cui è uscito il professionista dimostratosi poi asino nell’esercizio della sua arte;
- eccitare scuole ed università ad essere severe nella concessione di titoli; sì che le lodi abbiano ad oscurare i biasimi. È umano che i collegi insegnanti commettano, nel conceder diplomi, una tollerabile percentuale di errori; ma si eviterebbe la concorrenza nella rilassatezza negli esami, inconsapevolmente determinata dal timore di perdere studenti a pro degli istituti concorrenti di manica larga;
- incoraggiare l’afflusso degli studenti alle scuole ed università con fama di severità. Invece che al diploma facile si aspirerebbe al diploma difficile a conseguire; e perciò reputato atto a favorire la carriera professionale;
- diradare l’afflusso alle scuole e alle università dei giovani ambiziosi solo di procacciarsi posti dovuti non ai propri meriti, ma alla fallace impostura di un titolo malamente carpito.
I quali tutti risultati benefici suppongono che i diplomi siano apprezzati nei concorsi pubblici, nelle preferenze dei clienti, nella estimazione universale non per un valore legale, in se stesso nullo; ma per il valore morale che gli insigniti sappiano coll’opera propria conquistare o conservare.
Solo così sarà instaurata la libertà della scuola. Aboliti i programmi; lasciata libertà ad insegnanti, direttori, presidi e rettori di governare a loro posta gli istituti ad essi affidati; gli scolari medi ed universitari andranno in cerca della scuola migliore, aspireranno al diploma che, privo di valore legale, attesterà quel che l’opinione comune penserà della serietà dell’insegnamento, della disciplina degli studi propria dell’istituto dove il diploma fu conseguito.
E gli esami di stato che tutti sono concordi a vedere sanciti nella costituzione? Chi chiederà impieghi od uffici allo stato o ad altri enti pubblici, darà prova di sé e del valore effettivo dei diplomi suoi in pubblici esami di concorso. Chi vorrà essere abilitato all’esercizio di una professione, come quella medica, pericolosa per la vita altrui, si assoggetterà ad un esame detto di stato, che sarà formale per i diplomati di scuole severe e rigido per i presentatori di titoli dubbi. E direi che basti. Del valore degli altri diplomati unico giudice è il cliente; e questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere; e libero di far meno di amendue se i loro servigi non paiano di valore uguale alle tariffe scritte oggi in decreti atti soltanto a creare monopoli e privilegi, a crescere artificiosamente il costo delle prestazioni professionali ed a moltiplicare le schiere dei paria disoccupati ed esclusi dal pane e dal fuoco.