Un’opera di assistenza degli operai emigrati all’estero
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/08/1900
Un’opera di assistenza degli operai emigrati all’estero
«Corriere della sera», 29-30 agosto 1900, p. 1
L’assassinio di Re Umberto per mano di un operaio italiano emigrato all’estero, ha fatto chiedere a molti: Chi sono e quanti sono codesti operai italiani che si recano a trovar lavoro in paese straniero e ritornano di là imbevuti di dottrine anarchiche, quando non preferiscono compiere fuori di patria le loro gesta dolorose e tristi? Come vivono costoro, in quale ambiente sono educati, e da quale sorgente traggono la loro istruzione? Non havvi nessun mezzo per venire in loro aiuto e per impedire che essi abbassino il nome d’Italia nel fango, là dove sarebbe più necessario tenerlo incontaminato ed alto? Sono centocinquantamila e più gli emigranti temporanei italiani che si spargono in Francia, nel Belgio, in Inghilterra, in Svizzera, nella Germania, in Austria, in Levante, dovunque sperano trovar lavoro.
A Marsiglia, a Tolone, e nei paesi circostanti, abbiamo decine di migliaia di operai italiani: ne abbiamo una grossa colonia a Parigi, a Belfort ed in quasi tutta la Francia meridionale ed orientale. Ne abbiamo buon numero in Belgio ed in Inghilterra. L’arcivescovo di Friburgo nel Baden, in una sua circolare recente, afferma di avere nella sua archidiocesi circa trentamila operai italiani. Il senatore Villari fa salire a centoventimila gli operai nostri disseminati nella sola Svizzera.
Grande è il numero degli operai italiani nel Württemberg, nella Baviera, lungo le due rive del Reno fino a Colonia, nel Lussemburgo, in Austria, a Costantinopoli, in Grecia. Sono alcune migliaia gli operai occupati nei lavori ferroviari presso Smirne; quattro a cinque mila sono addetti ai lavori della ferrovia da Beyruth a Damasco; molte e molte migliaia al Cairo, ad Alessandria ed in tutti gli scali del Mediterraneo.
Tutti questi operai vivono in un ambiente moralmente dissolvente. Dissimili dagli emigranti permanenti, i quali portano con sé spesso la famiglia, e trovano in essa conforto alle tristezze della loro vita rude, e sprone a bene operare, essi vivono soli.
In una conferenza tenuta in parecchie città italiane, per uno scopo di cui parleremo tosto, monsignor Bonomelli, vescovo di Cremona, così descrive la loro sorte: «Dice bene la Scrittura: “Guai all’uomo solo!” E un uomo quasi sempre solo è l’emigrante temporaneo. Separato dal padre e dalla madre, spesso dalla moglie e dai figli, lontano dai fratelli e dalle sorelle, dagli amici, dalla patria, dalla chiesa parrocchiale, è gittato là in mezzo a centinaia di operai d’ogni provincia e d’ogni paese, a stranieri, che spesso si mutano, che parlano diversi dialetti, diverse lingue. Non ha un amico, non ha un confidente, a cui chiedere un consiglio, un conforto».
Materialmente, codesti operai, quantunque godano forse di un salario più elevato che in patria, sono obbligati a risparmiarne una parte per l’inverno o per mandare alla famiglia. Essi abitano, esclama un testimonio oculare della Svizzera, non in case, non in capanne, ma in tane. In una sola camera otto, dieci, fin quattordici persone, uomini, donne, fanciulli e fanciulle, tutti insieme. Di sera e di domenica frequentano i luoghi di riunione, i caffè, le bische, le bettole, dove credono di potere dimenticare le loro privazioni, lenire le loro pene e soffocare le aspirazioni ad una vita migliore.
Secondo un interessante promemoria pubblicato dal Segretariato degli operai italiani di Friburgo nel Baden, in generale gli operai italiani sono d’indole buona e pacifica: quieti, sobri, laboriosi, senza grandi pretese, di modi franchi ed aperti, di facile contentatura. I lavori più pesanti e meno retribuiti sono riservati a loro. Sono sterratori, braccianti, muratori, gessatori, carbonai, fornaciai, scalpellini, ecc. ecc., parecchi calzolai, alcuni venditori ambulanti, non pochi di professione girovaghi. Si riconoscono al volto bronzato, al vestire logoro, ed all’andatura tutta particolare, negligente, colle mani nelle tasche. Vivono per lo più in comune, in un solo camerone, riuniti in gruppi di 20, 30, talvolta fino a 50. Lavorano da sé, o con parenti ed amici; rade volte in gruppi formati prima della partenza dall’Italia sotto la direzione di un impresario italiano che paga loro il viaggio e li conduce ai lavori da lui appaltati.
Costoro sono d’ordinario trattati male e pagati peggio. Il padrone italiano sceglie in patria gli operai più forti e meno intelligenti, procurando di mantenerli nella più completa ignoranza delle leggi sul lavoro e dei salari in corso in Germania; li lega a sé con piccoli sussidi, col viaggio gratuito, coll’assicurare lavoro dal marzo al novembre ad un salario fisso di marchi 2,50 al giorno. Ma poi, giunti al luogo di destinazione, sono costretti a lavorare come bestie dalla prima luce del giorno a notte fitta con due sole ore di intervallo per pasti e riposo; sicché nel luglio ed agosto arrivano a fare sino a 15 ore di lavoro, che a 30 pfennig all’ora dovrebbero pagarsi marchi 4,50; «insomma un vero assassinamento perpetrano a man salva a danno di centinaia di infelici». Le parole virgolate sono scritte dal Segretariato degli operai di Friburgo nel promemoria ora citato, il quale porta in fronte una lettera accompagnatoria del vescovo locale. Non parranno quindi esagerate, come non parrà esagerato il fatto che in sette mesi di lavoro pochissimi riescono a mettere insieme 500 lire di risparmio, la maggior parte appena 300 lire e moltissimi al finir della stagione hanno appena i denari pel ritorno. Finita la stagione, essi tornano in Italia a consumare colla famiglia gli scarsi risparmi. Coloro che non hanno risparmiato, sbarcano l’inverno «sfruttando i sudori della moglie e dei minorenni, quando non succede ancora peggio».
Vivendo gran parte dell’anno fuori dell’influenza moralizzatrice della famiglia, continuamente vagabondi, e faticanti da mane a sera per un salario meschino, i più fra gli emigranti italiani vivono una vita bestiale, da bruti, senza pensare a nulla, nutrendo in sé delle istintive tendenze antisociali, represse soltanto dalla miseria e dall’ignoranza. I pochi che hanno più sveglia l’intelligenza e si divertono ad ascoltare conferenze ed a leggere giornali, diventano anarchici e socialisti. Nella loro mente poco addestrata, le idee anarchiche e socialistiche, imparate da predicatori il più spesso stravaganti, assumono delle forme estreme, sanguinarie, che ci danno, come risultato ultimo, i tristi attentati Caserio, Luccheni, Angiolillo e Bresci.
Coloro poi che si contentano di abbracciare la nuova fede anarchica, senza ricavarne delle forme di azione pratica, diventano al loro ritorno in patria dei centri di diffusione delle idee da essi malamente digerite. E si può agevolmente intendere quale influenza pericolosa esercitino costoro in patria, circondati dall’aureola di una semi-istruzione, dalla baldanza dei viaggi compiuti e dal possesso di certe formole semplici e violente, atte a guarire tutt’i mali dell’umanità ed a risolvere i più complessi problemi politici e sociali.
Urge por riparo alle condizioni tristissime, materiali e morali, in che vivono i nostri emigranti. È questo il solo mezzo, efficace e pratico, per garantirci alquanto dalle tristi conseguenze prodotte dall’odio accumulato nel cuore delle centinaia di migliaia di nostri connazionali, i quali vivono una vita randagia nelle più diverse parti del mondo, privi di tutti quei vincoli di affetto e di famiglia che persino gli zingari hanno.
Finora non si è fatto nulla. Consoli ed ambasciatori italiani lamentano la fiumana crescente del male nei loro rapporti e prevedono il giorno in cui «tutti gli emigranti italiani saranno diventati anarchici» ed accenderanno un incendio forse inestinguibile nella patria; ma nulla si è operato.
Sembra però che finalmente l’opinione pubblica, ammaestrata da antichi e recentissimi fatti luttuosi, abbia cominciato a scuotersi. È monsignor Bonomelli, una nobile figura di prelato italiano, credente e patriota, il quale ha chiamato a raccolta le classi dirigenti italiane, ed ha istituito, sotto gli auspici della Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani, e sotto la sua presidenza, l’«Opera di assistenza degli operai italiani emigrati all’estero», coll’intento di assistere con opere di religione e di educazione, di previdenza, cooperazione e carità, gli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante.
Io vorrei che molti leggessero il Numero Unico, edito dal Consiglio Centrale dell’Opera (Milano, Circolo Alessandro Manzoni, via Bossi, 2, dove il numero è distribuito, e si ricevono le offerte) Per l’assistenza dei nostri operai emigrati: Bisogni e provvedimenti. Son certo che essi si persuaderebbero della urgente necessità di sostenere un’opera, così italianamente utile e feconda, a cui hanno concesso già aiuto molti dei più bei nomi che onorano l’Italia, dalle Principesse di Casa Savoia agli scienziati e letterati illustri, come Antonio Fogazzaro.
Seguendo l’appello del vescovo di Cremona, si è già fondato un istituto per preparare i missionari che dovranno intraprendere l’opera di rigenerazione delle plebi emigrate, si sono creati e sussidiati a Friburgo nel Baden, a Ginevra, all’Albula ed in altri luoghi della Svizzera e della Francia meridionale dei segretariati di operai italiani. Questi segretariati si istituiranno successivamente ove esistono grossi nuclei d’emigranti. Ciascuno di essi avrà alla testa un missionario autorevole ed esperto, e da essi partiranno i missionari volanti per le circoscrizioni minori.
Unite al segretariato saranno la cappella, la scuola, la cassa di risparmio, la sala di ricreazione, la biblioteca e possibilmente la cucina economica.
L’opera, pur avendo un fine religioso, avrà sovratutto intenti patriottici e sociali: impedire che il nome d’italiano continui a rimanere all’estero sinonimo unicamente di accoltellatore e di regicida.
«A quanti stanno in alto», non ai soli cattolici, tocca, secondo la eloquente parola del Bonomelli, aiutare la nascente Opera. «Primieramente tocca a noi, uomini di Chiesa; tocca a tutti gli uomini del Potere, nella scala sociale. Noi, uomini di chiesa, conservatori dei principi eterni della morale, della giustizia, dell’ordine, dobbiamo uscire di chiesa, e scendere in mezzo al popolo; e voi pure, uomini dell’aristocrazia del sangue, delle ricchezze, dell’ingegno, della scienza, dovete uscire dai vostri palazzi. Gittiamoci tutti in mezzo al popolo, nelle sue officine, nei nostri tuguri; ma unicamente per sollevarlo e nobilitarlo. Egli ci ascolterà e ci seguirà solamente quando vedrà che ci occupiamo di lui, che lo amiamo e che davvero vogliamo il suo bene; quando vedrà che le nostre parole e le nostre promesse sono confermate dalle opere nostre. Diamone oggi la prova, porgendo generosamente la mano alle tante migliaia di operai fratelli nostri, che stentano la vita, sudano e soffrono in tutte le regioni di Europa».
Alla nuova Opera, sorta per ispirazione del vescovo consolatore nella sventura della nostra Regina, auguriamo lunga e prospera vita, ad onore e prestigio del nome italiano. Essa sarà un nobile tributo di affetto e di devozione alla memoria del Re, morto per mano di un operaio che concepì il triste disegno ferale in uno dei più pericolosi centri della emigrazione italiana.