Opera Omnia Luigi Einaudi

Unioni politiche e unioni doganali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/02/1916

Unioni politiche e unioni doganali

«Minerva», 1 febbraio 1916, pp. 97-99

 

 

 

In uno studio suggestivo e profondo pubblicato sulla Scientia (Vol. XVIII, n. XLIV-61) il prof. Pietro Bonfante ha esposto le ragioni le quali spingono la Francia e l’Italia verso una unione politica, come primo avviamento alla confederazione europea, e ha tracciato le linee fondamentali del nuovo organismo politico, il quale sarebbe destinato a contrapporre al grande blocco tedesco una compatta unità latina, forte di 75 milioni di abitanti, ricca di colonie e capace di evolvere verso il tipo dell’Impero mondiale, che soltanto sembra atto a resistere e grandeggiare nelle competizioni dell’avvenire.

 

 

L’articolo è, come dissi, profondo e suggestivo e merita di essere seriamente meditato da coloro i quali non hanno dimenticate le lezioni della storia e, guardando al di là della guerra presente e dell’immediato avvenire, sono preoccupati della sorte che è riservata agli oramai troppo piccoli Stati dell’Europa nel giorno, forse non lontanissimo, nel quale sulla terra grandeggeranno tre o quattro formazioni politiche di importanza mondiale.

 

 

Dinanzi a questo svolto della storia – svolto, che può avere la durata di un secolo o più – si pone il problema: vogliamo noi rimanere un paese, grande in ragione assoluta più di prima, ma relativamente di importanza decrescente; ovvero, senza rinunciare alla nostra individualità spirituale, linguistica, letteraria, attuare qualche forma di cooperazione con le genti più affini alla nostra, la quale consenta al gruppo e quindi anche a noi, quali compartecipi del gruppo, di tenere un grande e degno posto nel concerto delle nazioni tra cui il dominio del mondo sarà ripartito?

 

 

Io non voglio, in un breve articolo, trattare il problema complesso, il quale ha molti aspetti e suscita dubbi e controversie d’ogni fatta. Mi sia consentito di fare alcune considerazioni intorno all’aspetto economico di un’eventuale unione politica tra Francia e Italia. Il Bonfante se ne occupa brevemente con queste parole: «L’unità dovrebbe estendersi anche ai rapporti economici: un’unica moneta, che esiste già, ed un’unica barriera doganale. Per quanto l’unità doganale sia talmente indipendente dal vincolo politico che essa talora esiste senza vincoli politici, talora non è riconosciuta, come accadeva nel secolo XVIII, nemmeno entro le stesse frontiere politiche, tuttavia essa è un troppo gran simbolo di unione di interessi e una troppo vivace preparazione all’affratellamento degli spiriti, perché vi si possa rinunciare. Non diciamo con questo che si debba costituire ab initio con quella precipitazione dannosa con la quale fu stabilita all’atto della costituzione del Regno d’Italia; ma certamente vi si dovrebbe giungere in un tempo relativamente breve».

 

 

Dal quale brano si deduce che l’unione doganale, il che vuol dire la abolizione assoluta di ogni barriera doganale tra Francia e Italia, e l’instaurazione di una perfetta eguaglianza di trattamento per le provenienze di ambo i paesi nel rispettivo vastissimo territorio coloniale:

 

 

1)    sarebbe un avvenimento utile economicamente e politicamente;

 

2)     sebbene non assolutamente necessario alla costituzione dell’unione politica;

 

3)    da attuarsi in un tempo relativamente breve;

 

4)    evitando però la precipitazione dannosa, che si osservò all’atto della formazione del Regno d’Italia.

 

 

Intorno ai quali ultimi due punti, in massima si deve essere d’accordo; sebbene io non abbia ancora letto alcuna dimostrazione persuasiva dei pretesi gravissimi danni che l’unificazione doganale improvvisa arrecò a certe industrie italiane, specie meridionali. L’argomento, che oramai potrebbe essere approfondito con serenità di storico, è del più alto interesse.

 

 

La mia impressione è che l’esperienza fatta intorno al 1860 abbia dimostrato quanto pochi danni abbia prodotto la improvvisa unificazione doganale, in confronto ai tanto maggiori che ce ne attendevamo; e come spesse volte la rapidità massima dell’azione sia indispensabile, in primo luogo per dar vita a forze riparatrici, e in secondo luogo per soverchiare, con la potenza del fatto compiuto, le opposizioni tenaci a cui il trascorrere del tempo permetterebbe di organizzarsi. Comunque sia, non sosterrò che il metodo precipitoso di Cavour e dei suoi immediati seguaci sia senz’altro da preferirsi all’altro, pur sempre rapido, di cui il patrocinatore più grande può forse ritenersi il List, vero creatore dello Zollverein tedesco. Purché il libero cambio si attui, si può anche dare la preferenza al metodo che richiede una diecina d’anni piuttostoché a quello dell’azione immediata.

 

 

Purché gli anni siano pochi. Nulla vi sarebbe di così pericoloso ai buoni rapporti economici e politici fra le due nazioni rimaste indipendenti, o fra le due parti della auspicata Unione politica, quanto il permanere per lungo tempo di elevate barriere doganali e di separati terreni di caccia riservata nelle colonie.

 

 

È vero che l’Europa del secolo XVIII, giustamente ricordata dal Bonfante, ci offre nella Francia, nel Piemonte, nella Lombardia, nell’Impero di nazione germanica numerosi esempi di barriere persistenti entro i confini del medesimo Stato.

 

 

Ma erano quelli sempre veri Stati compatti, organizzati e capaci di resistenza e di azione concorde? L’esistenza di barriere doganali, in tempi di comunicazioni difficili, in cui la difficoltà delle strade e l’alto costo dei trasporti erano di per se stessi una barriera assai più insormontabile dei dazi, aveva nel secolo XVIII un’importanza comparabile a quella che avrebbe nel secolo XX? Quando i popoli sono naturalmente lontani e sconosciuti gli uni agli altri, poco male possono aggiungere dazi doganali a quel molto che esiste naturalmente; ma grande è il danno che essi possono produrre in un’epoca in cui le comunicazioni sono divenute rapide e poco costose.

 

 

Né l’esperienza storica suffraga sempre la tesi che il vincolo politico possa sussistere senza unità doganale. Ricorderò solo l’esempio della Hansa tedesca, delle Provincie Unite dei Paesi Bassi, dei Cantoni Svizzeri, della prima Federazione americana; le quali si frantumarono o dovettero trasformarsi profondamente, in parte perché non esistevano una finanza federale e un unico territorio doganale.

 

 

Rimando in proposito al saggio che il sig. Frederic A. Kirkpatrick scrisse col titolo Imperial Defence and Trade (Royal Colonial Institute, London), per dimostrare appunto che la esistenza di una finanza federale e di un sistema doganale unificato è il fondamento necessario di una federazione e unione politica vitale. Né, qualora fossero fatti tacere i piccoli interessi contrari privati, l’impresa della unificazione doganale tra la Francia e l’Italia sarebbe di una difficoltà tecnica di attuazione insormontabile. Fin da dieci anni fa, il professore Tullio Martello ha esposto i vantaggi e le modalità di applicazione di una siffatta unione in un saggio, che assai opportunamente la rivista La Libertà Economica di Bologna ha riprodotto nella sua annata 1915.

 

 

Qui basti osservare come la costituzione di un unico grandioso mercato di 75 milioni di abitanti, al quale sarebbe augurabile potesse aggiungersi l’Inghilterra – il che potrebbe, osservisi, verificarsi per un atto unilaterale di volontà della Unione franco-italiana, essendo già il territorio inglese aperto senza dazi alle importazioni francesi ed italiane e la concessione reciproca da parte della Francia e dell’Italia giovando assai a controbattere le tendenze neoprotezioniste di una parte dell’opinione inglese – sarebbe un avvenimento così fecondo di risultati economici benefici da eliminare forse gli effetti della pressione tributaria della guerra.

 

 

A coprire invero il carico delle imposte nuove rese necessarie dalla guerra, occorrerà che Francesi e Italiani aumentino, se la guerra dura fino a tutto il 1916, del 10 per cento circa la loro produzione di ricchezza. Ora non sembra essere una previsione azzardata questa: che un aumento del 10 per cento nella produzione annua della ricchezza possa appunto essere l’effetto della sostituzione, a due mercati separati di 40 e 35 milioni, di un mercato unico di 75 milioni di abitanti. La complementarità di molte produzioni, specialmente agricole o industriali- agricole, francesi e italiane, la sussidiarietà fra capitale francese e lavoro italiano sono condizioni favorevolissime a una migliore utilizzazione delle energie produttrici nazionali.

 

 

Poche sarebbero le industrie minacciate da un’improvvisa abolizione delle dogane; e per queste poche potrebbero escogitarsi opportune provvidenze. Ma se lo spavento dell’ignoto non ci recide i nervi, l’azione comune dovrebbe sicuramente essere feconda assai più dell’azione divisa. Forse parlare di un incremento di produttività del 10 per cento è dire troppo poco.

 

 

L’ostacolo più forte all’attuarsi di un tanto ideale io lo vedo nella tendenza, che qua e là si manifesta, tra i gruppi protezionisti inglesi, francesi e italiani, a giovarsi della rinnovata amicizia politica per costruire qualche macchina di guerra economica a difesa di interessi particolari. Io mi auguro che i convegni, di cui il primo si tenne nel settembre scorso a Cernobbio sotto la presidenza dell’on. Luzzatti, valgano a sventare il pericolo. Ma è bene metterlo subito in risalto. Gli accordi doganali italo-franco-inglesi possono invero avere due scopi profondamente diversi:

 

 

1)    quello, sovra delineato, di giungere alla formazione di un unico territorio doganale: ed è fine grandemente utile;

 

2)    quello, il quale, lasciando suppergiù sussistere, con piccole modificazioni particolari, le attuali barriere doganali fra Italia, Francia e Inghilterra, consistesse sovratutto nell’organizzare la lotta, a colpi di tariffe, con il blocco austro-tedesco. E questa sarebbe una via seminata di triboli.

 

 

Nei rapporti interni fra gli Stati contraenti, rimarrebbero immutate le attuali diffidenze e contrapposizioni di interessi. L’accordo non sarebbe vitale; e le querimonie continue di industriali e di agricoltori, che si pretenderebbero danneggiati da «concessioni» eccessive fatte agli altri paesi, finirebbero col minare anche l’amicizia politica. Sul fondamento di quella cosa grottesca che è il do ut des doganale, inventata dalla inverosimile cosidetta «scienza doganale», ovverosia ricettario di furberie a danno dei gonzi paesani, non si può creare nulla di solido, e tanto meno si può creare un duraturo organismo politico- economico.

 

 

Nei rapporti degli Alleati con il blocco austro-tedesco è grandemente dubbia la convenienza di una guerra di tariffe. L’Italia ha grandissimo interesse, ad esempio, di serbare, anche dopo la pace, la propria indipendenza economica e spirituale verso la Germania. Ma nessuna dimostrazione fu ancora data in modo persuasivo che per raggiungere tale fine occorra stabilire dazi alti contro le merci austro-tedesche. Chi ci compenserà delle correlative perdute esportazioni agrarie verso la Germania? Non certo il mercato francese; la cui unione al nostro dovrebbe avere sovratutto la virtù di unire le forze per potere meglio elaborare industrialmente i comuni prodotti agrari, allo scopo di poterli più vantaggiosamente esportare fuori del comune territorio doganale, ossia anche verso il blocco austro-tedesco. La indipendenza politica ed economica non cresce impoverendoci, il che accadrebbe se adottassimo la politica doganale suicida degli alti dazi verso alcuni dei nostri migliori sbocchi commerciali; sibbene cresce arricchendoci.

 

 

L’unione doganale italo-francese avrebbe migliori probabilità, che non i due Stati divisi, di ottenere o strappare, come meglio si voglia dire, riduzioni di dazi sui propri prodotti agli Stati appartenenti al blocco avversario. Ma è inutile illuderci. Per ottenere quelle riduzioni di dazi converrà che da parte nostra non si farnetichi di innalzare una muraglia della Cina contro le importazioni austro-tedesche; molte delle quali è nostro interesse di acquistare al minimo prezzo possibile. Comprare merci – quando l’acquisto sia un atto di libera volontà e non sia imposto da organizzazioni sindacali o bancarie straniere – non significa diventare vassalli del venditore. Se qualcosa può voler dire, è forse l’opposto. Chi vende o esporta dipende assai dai suoi clienti, i quali, non comperando più, possono rovinargli l’industria. Il danno non consiste nel comprare merci dalla Germania; sibbene eventualmente nel comprarle forzati da metodi di persuasione scorretti.

 

 

È bene liberarci da quelle organizzazioni che fossero dimostrate esistere in Italia per indurci a fare cosa politicamente vantaggiosa allo straniero o sostanzialmente dannosa a noi. Ma a tal fine pochissimo o nulla giovano i dazi; sibbene l’educazione economica, la virilità del carattere, l’amore della patria; tutte qualità che non si improvvisano con le leggi e con i dazi doganali. Quando gli Italiani sappiano decidersi a comprare e vendere a ragion veduta, non si comprende perché si debba parlare di asservimento allo straniero, più che di soggezione dello straniero a noi.

 

 

Male del resto si possono prevedere i nostri rapporti commerciali con i paesi austro-tedeschi prima che la guerra sia finita. Per ora mi sembra che i tentativi di accordo italo-franco-inglesi perderebbero molte delle loro attrattive se fossero rivolti non a costituire un unico territorio doganale tra i paesi alleati – il che possiamo sempre fare senza licenza dei nostri nemici e, anzi, rafforzandoci economicamente e diventando meglio capaci a sostenere la guerra e le sue conseguenze; – sibbene a preparare battaglie doganali per l’avvenire. Nessuno ha ancora dimostrato se e fino a che punto queste battaglie abbiano a riuscire utili a noi dopo instaurata la pace; mentre è probabilissimo che esse abbiano a fomentare discordie tra gli alleati e farci perdere quel magnifico frutto economico che la guerra potrebbe generare: ossia l’avviamento all’unione doganale fra i due principali paesi latini.

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