Una nuova imposta a favore delle case popolari?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/02/1922
Una nuova imposta a favore delle case popolari?
«Corriere della Sera», 12 febbraio 1922
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 547-551
Deve esser lodato l’articolo 13 del disegno di legge di riforma dei tributi di stato presentato dall’on. Soleri, perché dice: «È fatto divieto di creare, se non per iniziativa del ministro delle finanze, tributi di carattere speciale destinati a spese di gestione di altri ministeri o ad enti autonomi da questi creati». Ma le lodi non servono a nulla, se non si colgono le occasioni per dimostrare con qualche esempio calzante, l’errore e il danno delle invenzioni, ogni giorno pullulanti, di nuove imposte a vantaggio di Tizio o di Caio, ma non dello stato, le quali vengono a crescere insopportabilmente il carico delle imposte.
L’ultimo disegno di imposta speciale è quello compilato dal dott. Schiavi (vedi «La casa» del nov.-dic. 1921) a pro della costruzione di case popolari. L’autore non è il solo a cui sia venuta in mente tale idea: a Torino, a Roma, a Bologna si può dire non passa giorno senza che qualcuno proponga la sua brava imposta sulle case vecchie per costruire case nuove. Il progetto dello Schiavi può essere preso a base della critica, perché è concretato in articoli di legge e corredato di una relazione. In riassunto e trascurando i particolari, esso dice così: oggi i proprietari di case hanno obbligo di concedere agli inquilini una proroga legale fino all’1 luglio 1923 (o data consuetudinaria più vicina); ed hanno in compenso diritto ad ottenere aumenti legali, sulla pigione base corrente al 18 aprile 1920, fino al 95, 50, 35 e 20% a seconda della categoria a cui appartiene l’alloggio. Questi aumenti, parmi riconosca lo Schiavi, permettono ai proprietari di casa «di sopportare il maggior onere delle cresciute imposte e delle spese di manutenzione »; e quindi non lasciano ad essi alcun margine di reddito monetario superiore all’anteguerra; e spesso non impediscono che il reddito netto in moneta svalutata sia inferiore a quello antebellico in moneta buona. Lo Schiavi nota che in questo regime poco o nulla si costruisce, perché nessuno osa affrontare i rischi dell’avvenire. Egli vorrebbe perciò che si desse un’ultima proroga (anzi accentua chiamandola «definitiva») fino all’1 luglio 1925 per gli appartamenti di lusso ed all’1 luglio 1930 per tutti gli altri appartamenti, senza distinzione. In compenso, darebbe ai proprietari il diritto ad un ulteriore aumento di fitto, sempre sulla pigione base al 18 aprile 1920, del 100% per le prime tre classi e dell’80% per l’ultima classe, portando così l’aumento complessivo al 195, 150, 135 e 100% rispettivamente per le varie classi.
In tal modo però, i proprietari, secondo lo Schiavi, guadagnerebbero troppo: e quindi propone che, dell’aumento del 100 e dell’80%, metà soltanto spetti ai proprietari e metà vada devoluta al fondo per le case popolari. C’è una piccola variante per le case a fitto libero, che qui si può trascurare per non complicare l’esposizione. L’aumento sarebbe graduale, per non gravare troppo gli inquilini; ed a regime pieno, funzionerebbe così:
Categorie | Prima | Seconda | Terza | Quarta |
Pigione base al 18 aprile 1920 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Aumenti legali già decretati | 95 | 50 | 35 | 20 |
Aumento Schiavi: metà spettante al proprietario | 50 | 50 | 50 | 40 |
Totale pigione percepita dal proprietario | 245 | 200 | 185 | 160 |
Aumento Schiavi: metà versata nel fondo per le case popolari | 50 | 50 | 50 | 40 |
Totale pigione pagata dall’inquilino | 295 | 250 | 235 | 200 |
Il sistema presenterebbe il vantaggio di aumentare i fitti in un lungo periodo di tempo (1925 per la prima categoria e 1930 per le altre tre) dal triplo al doppio, avvicinando così gradualmente i fitti delle case vecchie ai fitti delle case nuove e togliendo quindi, almeno in parte, lo squilibrio attuale, che è una delle cause maggiori di incertezza nei costruttori. Concederebbe qualcosa di più ai proprietari; ma dal contesto del discorso sembra risultare che questo dippiù sarebbe assorbito in parte dalle maggiori imposte e spese a cui essi vanno soggetti. Darebbe infine un egregio fondo, che lo Schiavi valuta per Milano, e per 10 anni, a 190 milioni di lire, con cui si potrebbe incoraggiare la costruzione di 60.000 locali. L’imposta speciale del 50% a favore del fondo per le case popolari dovrebbe infatti durare dieci anni.
Ed ora le osservazioni. Incoraggiare le costruzioni di case popolari è certo un ufficio a cui in dati momenti è conveniente si sobbarchino lo stato ed i comuni. Tra tutte le forme di sussidio, quello per la casa è il più sano, morale, civilizzatore che si conosca. Aggiungerei anche «sanamente conservatore» se non fosse venuto di moda oggi voler concedere sussidi solo alle case a proprietà indivisibile, ossia alle case che non interessano nessuno, che non educano, che non sollevano l’uomo in una categoria superiore. L’ideale del falanstero è orrendo ed io vorrei limitati i sussidi ai falansteri strettamente indispensabili per la popolazione vagabonda, senza legame e senza affetti; mentre, se sussidi ci hanno da essere, dovrebbero essere sovratutto dati ai villaggi di casette con giardino, a proprietà individuale o familiare. Ad ogni modo, a chiunque siano dati, i sussidi devono essere impostati nel bilancio dello stato e per somme votate per ogni caso dal parlamento. Si potrà parlar bene o male dei sussidi concessi alle cooperative fra impiegati dello stato, per consentire a costoro di procurarsi una casa con un sacrificio compatibile col loro misurato stipendio; ma certo è che esso fu dato nel solo modo corretto: impostando nel bilancio dello stato la somma occorrente.
Questo è l’unico modo con cui si possono dare sussidi alle case popolari. Solo così, il parlamento valuta i bisogni, li apprezza, li confronta con l’onere dei contribuenti; e può fermarsi a tempo, quando il bisogno sia cessato o la pressione tributaria sia divenuta incomportabile. Non è un pregiudizio teorico che mi fa parlare. Guardisi all’Inghilterra, che i giornali italiani citano ancora ad esempio per il grande impulso dato alle case popolari, con sussidi di miliardi. Ebbene; là si accorsero di avere fatto il passo più lungo della gamba. Al primitivo grido del 1918: bisogna spendere, bisogna ricostruire, bisogna incoraggiare industria e case, sottentrò il grido del 1921: bisogna fare economie, bisogna, prima di pensare a spendere, mettere in ordine il bilancio dello stato, che è la più perfetta maniera di incoraggiamento che si possa dare all’industria. Ed anche i sussidi di stato alle case popolari furono pressoché soppressi, continuandosi quelli alle costruzioni in corso e negandoli a costruzioni nuove. Comuni e privati si arrangino come meglio possono.
Questa è la sola via corretta. Il parlamento deve sempre essere padrone del proprio bilancio; e, rispettando gli impegni presi, deve essere libero della propria futura condotta, per corrispondere alle nuove esigenze dell’opinione pubblica.
Col sistema dell’imposta speciale devoluta ad un fondo particolare, si distrugge l’essenza del governo democratico e rappresentativo, per cui tutte le imposte devono andare nelle casse dello stato o del comune, per essere spese a pro dei fini collettivi che la legittima rappresentanza del paese giudica più urgenti. Col sistema del fondo speciale si dice: per 10 anni una certa imposta, di indeterminato ammontare, deve andare a tale o tal altro scopo. I denari saranno troppo pochi? Lo scopo non si potrà raggiungere in pieno. I denari saranno troppi? Saranno sperperati dai preposti al fondo, i quali non vorranno certamente lasciarsi sfuggire di mano i quattrini. Lo scopo si raggiungerà prima dei 10 anni? L’imposta continuerà ciononostante ad essere applicata. Sarà possibile farla cessare dopo i 10 anni? Mai no. Dacché mondo è mondo e dacché esistono fondi speciali, non si videro mai i dirigenti di essi compiere su di sé l’operazione del kara-kiri, ma sempre furono visti agitarsi per prolungare la vita dell’ente, da cui derivano cariche e stipendi. Fu perciò un tempo, in cui, essendo fresco il ricordo degli sperperi e dei danni dei fondi e delle imposte speciali, esistenti all’epoca degli odiati governi assoluti, si dichiarava lodevole il nostro sistema finanziario, il quale aveva proclamato il principio dell’unicità del bilancio. Adesso, si torna ai tributi speciali; ma sia lecito lamentare la smemoratezza odierna ed affermare che così si va a ritroso.
Si aggiunga: l’imposta speciale non farà concorrenza alle imposte di stato, di comune e provincia? I proponenti l’imposta speciale del 50% a profitto delle case popolari, sembrano ritenere di colpire un campo libero dalle altre imposte. Non è così. Prendasi il proprietario della quarta categoria. Le sue 100 lire e quelle 20 già decretate non bastano a pagare le spese ed imposte, lasciando netto il reddito antico monetario. Le 40+40 che sarebbero aggiunte dallo Schiavi, a che cosa si residuerebbero? Supponendo che l’imposta e le sovrimposte fabbricati siano appena del 60% – aliquota superata nella massima parte dei comuni italiani – e pur tenendo conto che 80 lire di fitto corrispondono a 60 lire imponibili; ecco che le imposte e le sovrimposte ordinarie ne assorbono 36. Altre 40 ne porta via il fondo speciale; ed altre non so quante ne porta via l’aumento correlativo delle imposte famiglia, fognatura, complementare sul reddito, patrimoniale (con la prossima revisione) ecc. ecc.
Di qui non si esce: o la nuova imposta del 50% colpisce un aumento dichiarato esplicitamente esente dalle altre imposte e sovrimposte, ovvero il proprietario deve far voti affinché a nessuno salti in mente di concedergli aumenti, che significherebbero per lui aumento di oneri e diminuzione ulteriore di redditi. Se la dichiarazione esplicita di esenzione non c’è, è certo che la finanza farà le revisioni ed accrescerà l’imponibile. Le revisioni avvengono oggi su vasta scala e saranno accelerate dal diritto ai nuovi aumenti. Or che cosa vuol dir ciò, senonché l’imposta nuova del 50%, in realtà non è nuova, ma è quella vecchia, già vigente, fatta soltanto passare dalle casse dello stato, delle province e dei comuni, alle casse di un fondo speciale? E se le cose stanno così, non è più chiaro, onesto, semplice, ossequiente al controllo pubblico del denaro dei contribuenti lasciare le cose come sono, iscrivendo contemporaneamente nel bilancio dello stato e dei comuni le somme di volta in volta giudicate opportune per promuovere la costruzione delle case popolari e finché tale costruzione sia giudicata necessaria?