Un quarto di secolo di storia della rendita italiana
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/12/1897
Un quarto di secolo di storia della rendita italiana[1]
«La Stampa», 17 dicembre 1897
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 63-65
La rendita italiana si mantiene da parecchi giorni al disopra della pari sulle piazze nazionali; codesto fenomeno interessantissimo, ed impreveduto ai più alcun tempo fa, fa nascere spontaneamente la domanda: È la prima volta che il massimo titolo italiano ha raggiunto tale fastigio, e quali influenze benefiche ne possono derivare al paese ed alle pubbliche finanze?
Nel 1871, all’uscire dalla lunga serie delle guerre dell’indipendenza, e non ancora terminato il periodo tragico dei disavanzi nel bilancio patrio, la rendita alla borsa di Roma oscillava fra un massimo di 76 ed un minimo di 56,20, con una media di 62,83. Siccome il cambio su Parigi ascendeva al 2-7%, i corsi in Francia erano di altrettanto più bassi. L’anno seguente 1872, malgrado l’aumento del cambio, i corsi della rendita migliorarono: il dislivello fra il massimo ed il minimo si restringe a circa 15 punti; la media è di 73,82. Il miglioramento si accentua vieppiù negli anni che seguono: nel 1876 il corso minimo è di 72,60 il massimo di 78,30; la media è di 75,49.
Seguono gli anni di bilancio con avanzo; e dal 1877 al 1880 il corso medio della rendita a Roma passa da 75,03 gradatamente a 90,58; e si mantiene intorno al corso di 88,90 nel periodo 1881-83. Siccome anzi nel 1883 il cambio è favorevolissimo all’Italia, e 99,15 lire italiane possono in media durante l’anno comprare 100 franchi francesi, si verifica il fenomeno non mai visto prima e dopo che il corso della rendita è superiore a Parigi (90,54) che a Roma (88,32).
Il periodo 1884-87 ha visto succedere ai modesti ma sicuri avanzi dei periodi precedenti un notabile gonfiamento dei bilanci dello stato e di tutte le amministrazioni pubbliche; in quegli anni uno spirito sfrenato di speculazione si impadronì degli animi di tutta quella parte della popolazione che lavora ed intraprende; sorsero allora i piani di risanamento edilizio; le banche immobiliari ed i valori delle azioni industriali salirono vertiginosamente.
Anche la rendita non seppe resistere agli effetti dell’onda generale di prosperità che pareva essersi riversata sull’Italia: nel 1886 essa vide in Italia il massimo di 102,87 ed in Francia di 100,55; nel 1887 ancora i massimi a Roma ed a Parigi erano di 100,75 e di 100. Ma era prosperità di breve durata e tutta speculativa, non diretta conseguenza di reale grandissima abbondanza di denaro in cerca di impiego modesto e sicuro. Ne è prova la differenza notevole esistente fra i corsi massimi ed i minimi: 6,60 nel 1886, 8 nel 1887. Ciò vuol dire che i corsi erano stati spinti all’insù dalla speculazione, e che quando questa avea abbandonato la rendita, i corsi erano caduti a precipizio; mentre se in verità il risparmio fosse stato la causa dell’aumento dei corsi, questi sarebbero stati più tranquilli e costanti. Al manifestarsi della crisi economica e finanziaria che si abbatté sull’Italia nel 1887, i corsi della rendita precipitano a poco a poco al basso; in Italia il corso medio è negli anni 1888-94, successivamente 97,27, 95,86, 95,56, 93,38, 94,49, 94,96, 88,39. Siccome ricompare il cambio sull’estero ed ascende nel 1894 ad una media di 11,08, così i corsi all’estero diminuiscono ancora più fortemente dei corsi all’interno. A Parigi il corso medio nel 1894 è di 79,53 ed i minimi rispettivi in Italia ed in Francia sono di 82,64 e di 72, con una differenza di più di 10 e di 15 punti dal massimo nel medesimo anno.
Dopo il 1894, colla ricostituzione lenta delle economie dei bilanci nazionali, i corsi ripigliano; nell’anno scorso 1896 il medio valore della rendita italiana era di 93,20 a Roma e di 86,94 a Parigi; la differenza fra i corsi minimi e massimi di 11 punti in Italia e di 15,95 in Francia.
La breve storia della rendita italiana nell’ultimo quarto di secolo dimostra parecchie cose. La rendita italiana è rimasta e rimane ancora un titolo speculativo, soggetto a forti oscillazioni nei corsi. Essa non è un titolo, come si dice nel linguaggio tecnico, perfettamente classato, ossia diffuso fra numerosi capitalisti che vi investono i loro risparmi; una grande massa di titoli rimane invece continuamente nelle mani della speculazione.
Anche nei momenti maggiori di prosperità la permanenza di un forte dislivello fra i corsi massimi ed i minimi dimostra che non si poteva fare a fidanza sui corsi alti e che questi potevano, come in realtà fu, alla prima bufera, lasciare luogo a corsi precipitosamente ribassanti.
Si vede dunque come sia chimerico il discorrere, che negli ultimi mesi si è fatto ripetutamente, di una conversione facoltativa della rendita; anche se non esistesse l’ostacolo gravissimo dell’aggio al 5%, il quale fa sì che all’estero la rendita sia al disotto della pari, ed anche se i corsi esteri e nazionali rimanessero per un anno fermi al 102, non sarebbe ancora giunto il momento, vagheggiato da molti, della riduzione degli interessi del debito pubblico.
Prima di arrivare a tal punto è mestieri che il bilancio italiano si sia fortemente consolidato, che le diminuite imposte rendano disponibile una parte del capitale oggi assorbito dallo stato, che l’economia nazionale sia veramente e non artificiosamente rinvigorita, e che il debito pubblico si sia classato togliendosi dalle mani della speculazione internazionale, e degli investitori esteri, sempre pronti a gettare sul mercato i titoli italiani quando non offrono l’attuale alta rimunerazione. Una conversione fatta prima di questo momento correrebbe grave rischio di insuccesso.
[1]La parola «rendita» non è più usata oggi nel significato suo del secolo scorso e dei primi anni del secolo presente. Essa si riferiva per antonomasia al titolo principe in quel tempo del debito pubblico italiano: il consolidato perpetuo 5% lordo. La parola «rendita» era appropriata ad indicare un reddito che lo stato si obbligava a pagare in perpetuo, senza obbligo di rimborsare mai il capitale. Lo stato aveva però il diritto di liberarsi del debito offrendo il rimborso del capitale nominale. L’offerta dava luogo alla conversione «volontaria»; come accade nel 1906, dal 5% lordo al 3,75-3,50 netto [Nota del 1958].