Tipi di giornali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1946
Tipi di giornali
«La rassegna d’Italia», 1 dicembre 1946
1
Il giornale indipendente
Non è la voce dichiarata di un partito politico e non vuole dirsi la eco di un interesse economico particolare. È al di fuori dei partiti politici e dei gruppi economici; epperciò non colma la perdita del suo esercizio grazie all’assegno di un partito od a quello di gruppi palesi di imprenditori o di lavoratori. Eppure perde denari regolarmente ed il suo proprietario, quando tratta il trapasso della testata, non cela il proposito di vendere una impresa la quale perde cinquecentomila od un milione, o più milioni di lire al mese. Sembra che perdere denari sia quasi una patente di nobiltà ed il valore di quella patente è cresciuto dalla certezza che la perdita non è colmata da alcun assegno di partiti politici o di associazioni economiche o sindacali o di fondi segreti governativi. Perché si perde quel mezzo milione o quel milione di lire al mese? O forse più, se si riflette che, tradotte in lire ante-1914, quelle cifre non superano da tre a diecimila lire di quelle che un tempo non prevedevamo di dover poi dire buone?
Alcune varietà dei giornali in perdita sono innocue. Se v’ha chi smania per il desiderio di figurare direttore di un quotidiano, o di firmare articoli di prima pagina, se taluno immagina di riuscire per questa via a fare carriera politica, se una confraternita di pubblicisti o letterati aspira a procacciarsi, collo scrivere per i giornali, un qualche reddito, e se costoro riescono a persuadere amici facoltosi ad investire denari a fondo perduto nella impresa sballata di fondare senza adeguata preparazione un giornale, gran danno non vien fuori dall’avventura. È sempre dannoso al risparmiatore ed alla collettività investire male il risparmio. Ma qui, astrazion fatta da ciò che una quota del risparmio è destinata inevitabilmente in qualunque forma di economia, individualistica collettivistica sindacalista o pianificata, ad essere perduta, non trattasi di fondi destinati al risparmio.
Lo spender denaro a vuoto per far vivere per qualche tempo un quotidiano od un settimanale non appare consumo di ordine diverso da quello, ad esempio, del comprare sigarette. Può persino darsi che sui giornali di questo tipo facciano le prime armi giovani scrittori chiamati poi a tener gran posto tra pubblicisti letterati e politici.
Anche se sia proporzionalmente scarso, il vantaggio sociale sarà sempre più notabile di quello che si ottiene col mandare tabacco in fumo. Una seconda varietà non priva di utilità pubblica è quella dei giornali fondati ad incremento delle ambizioni politiche di uomini isolati o di piccoli gruppi di candidati non addetti ad alcuno dei partiti politici noti ed organizzati. Accade per i partiti politici quel che è norma per ogni altro bene economico, i quali ubbidiscono alla legge della utilità decrescente per ogni dose successiva alle prime. La vita politica di un paese è invero innalzata dal contrasto dei partiti, in ognuno dei quali si raggruppano gli uomini nutriti dai medesimi ideali e decisi ad attuare gli stessi propositi.
Ma poiché è impossibile e sarebbe nocivo alla cosa pubblica che tutti gli uomini aderissero al medesimo ideale (cosiddetto totalitarismo fascistico o nazistico o comunistico) e poiché sarebbe pur innaturale e perciò nocivo, che gli uomini si raggruppassero sul serio in soli due o tre partiti, poiché il mondo è bello solo perché è vario e la vita è degna di essere vissuta solo se gli uomini si sentono qualcosa e possono liberamente manifestare quelle idee e quei propositi, che siano, anche se singolari, loro proprii, così è certamente conforme al bene comune che, accanto ai maggiori raggruppamenti di uomini pronti a seguire e ad attuare ideali foggiati dai capi, viva talun selvaggio, colui il quale non si sente di ubbidire ai deliberati di giunte, di consigli direttivi, di capi ed a votare a norma della parola d’ordine dei segretari dei gruppi parlamentari, segretari che, assai appropriatamente, sono chiamati «fruste» (whips) nel linguaggio della britannica camera dei comuni. I «selvaggi» gli isolati sono spesso il sale del ceto politico dirigente di un paese; ed accadde non di rado che in un certo momento della loro vita i grandi capi parlamentari si trovarono isolati, segnati a dito come pecore nere nel loro partito; ultimo e grande esempio quello di Winston Churchill. Perciò non è contraria e può essere conforme al bene comune la fondazione di giornali intesi a patrocinare candidature di isolati, di non aderenti a nessun partito, o di alcuni pochi uomini formanti partito per se stessi. Non è frequente, ma non è neppure rarissimo il caso che da siffatte origini esca fuori l’uomo destinato a dominare o ad avere gran parte nella vita politica del paese.
La terza principale varietà di giornali in perdita è quella la quale afferma di rappresentare interessi generali o principii ideali ed in realtà è intesa a favorire o difendere interessi privati di gruppi economici o sociali. La difesa degli interessi e degli ideali di gruppi particolari è lecita, purché sia apertamente dichiarata. Qui trattasi di cosa diversa: lo scopo vero è la difesa o la consecuzione di un vantaggio privato: dazio protettivo in favore di una data industria, proibizione di imprese concorrenti, concessione di privilegi o di esclusività di importazione o di esportazione o di valute a prezzi artificiali di favore o di mutui a saggi di interesse bassi.
Le protezioni o concessioni o privilegi possono essere giustificate con la necessità di dar lavoro ai disoccupati o di non licenziare operai esuberanti; e le leghe operaie possono consentire nelle richieste contrarie all’interesse pubblico. Ma se l’interesse è sempre particolare, non è chiarito o propugnato come tale. I pennaioli i quali scrivono articoli in difesa dell’interesse particolare sul giornale detto indipendente non confessano mai di farsi portavoce di quell’interesse particolare; ma si dicono sempre vindici dell’interesse generale. I giornali della terza specie, alla pari di quelli della prima e della seconda specie, sono scarsamente letti e perciò perdono denari. Perché un lettore di buon senso dovrebbe sprecare le sue cinque lire per acquistare un giornale, del quale si intuisce, ma non è dichiarato apertamente lo scopo particolare o di gruppo o di classe alla cui difesa esso intende? L’agricoltore compra il giornale agricolo, che si dice tale, che gli fornisce le notizie da lui cercate, che difende le tesi che gli sono care. Perché dovrebbe comprare un giornale generico, il quale di tanto in tanto sostiene, per ragioni non chiare, qualche interesse agricolo, non sempre il suo; e si dà l’aria di occuparsi solo dell’interesse pubblico? Altrettanto pensano i siderurgici, gli albergatori, i tessitori di cotone o di lana o di seta vera od artificiale. Altrettanto gli operai di questa o quella industria. Ognuno preferisce i giornali della propria classe o ceto od occupazione. Se vogliono informarsi delle cose accadute, acquistano i grandi giornali di partito o di informazione.
I giornali «indipendenti» intesi a difendere interessi particolari sono perciò un’impresa sbagliata. Essi partono dalla premessa spropositata di taluni industriali o finanzieri od affaristi o politicanti che un interesse od uno scopo si possono difendere o conseguire spendendo denari per far scrivere articoli in lor pro su qualche giornale indipendente. Sbaglio grossolano. I giornali, i quali non difendono un’idea, non si vendono. Le alte tirature non si conseguono per tal via; e se il giornale non si vende, a che pro gittar denari dalla finestra per far inserire su di esso articoli prezzolati?
Lo schiamazzo, che taluni giornali di partito fanno intorno alle fonti impure del giornalismo detto indipendente, è inutile e probabilmente dannoso. Se nessuno si occupasse di quel che dicono i giornali indipendenti nei quali interessi particolari sono difesi sotto colore di ideali generali, nessuno presterebbe ad essi la minima attenzione. Tutta la loro importanza trae origine dalla pubblicità fornita dagli avversari. Quando mai industriali o finanzieri si persuaderanno che i denari da essi sciupati nel sussidiare giornali «indipendenti» sarebbero molto meglio impiegati e con grandissimo risparmio se essi, colla brava firma della loro ditta, esponessero chiare e tonde le proprie opinioni in difesa del loro preciso interesse particolare nelle pagine di pubblicità di un qualsiasi giornale? Tutti saprebbero che quelle sono le opinioni di quella certa ditta, e che la ditta ha speso fior di quattrini per portarle a conoscenza del pubblico. Le quali circostanze sono ambedue lecitissime e non fanno disonore a nessuno. Il pubblico conchiuderebbe che quelle opinioni, apertamente ed a gran costo difese, sono per lo meno meritevoli di essere ascoltate; conclusione per fermo più degna del disprezzo da cui sono circondati i non noti committenti ed i noti scribi, i quali imperversano sui giornali che malamente usurpano il nome di indipendenti.
Coloro i quali aspettano meraviglie dal controllo sulle fonti di vita dei giornali dovranno disilludersi presto. Le fonti di vita dei giornali i quali guadagnano sono sempre economicamente lecite. Non è forse lecito investir risparmio in una impresa giornalistica, la quale alla fine dell’anno chiude il bilancio con un saldo utile? Il fatto dell’utile conseguito non dimostra lampantemente che la impresa rispondeva ad una esigenza del pubblico? Vi è qualche risparmiatore il quale consapevolmente si auguri di perdere il capitale investito? Investir bene non è forse conforme all’interesse collettivo? Ben può darsi che il lucro derivi dall’indole pornografica od immonda o ricattatoria dell’impresa giornalistica. Ma qui l’occhio del giudice non deve fissarsi sulla cifra del saldo utile. Fosse l’utile a mille doppi maggiore, la condanna non potrebbe essere evitata. Il giudice non ha bisogno di considerazioni economiche per punire l’illecito, dichiarato tale dalla legge vigente.
Il caso tipico normale dei giornali cosiddetti indipendenti è la perdita. Carta, stampa, telegrammi, redattori, uffici costano ugualmente sia che si venda o no. Ma agli occhi dell’uomo comune, l’insuccesso economico rischia di essere considerato un’attenuante. Il fatto punibile è la pornografia od il ricatto per se stesso; non quel fatto perché seguito da perdita. L’industriale, il quale sovviene un giornale per difendere una sua tesi particolare, difficilmente sarà punibile per il solo fatto dell’investimento andato a male. I sovventori potranno sempre far figurare uomini di paglia, i quali credettero di investir bene e perdettero quattrini. Il dilemma è chiaro: o la sovvenzione fu perduta e si troveranno mille scuse e travestimenti per quella che ha tutto l’aspetto formale di un investimento disgraziato; o per avventura l’impresa guadagna e come si può rimproverare, ove non ricorrano gli estremi del reato oggettivo, l’investitore di avere avuto successo, ossia di aver conseguito quel fine che è proprio di ogni impresa economica bene concepita?
2
Il giornale di interessi
Il giornale di interessi non ha nulla a che fare con quel che si dice indipendente. è moralmente disonorevole difendere interessi particolari dichiarandosi vessilliferi del bene comune; e la vera sanzione efficace del disonore è l’insuccesso certo del giornale indipendente, ove all’insuccesso non faccia ostacolo la pubblicità gratuita dei giornali di partito o di classe, che si sentono moralmente obbligati a smascherare il malvivente e perciò a creargli attorno quella curiosità alla quale egli sovrattutto anela. Ma è invece onorevolissimo difendere apertamente gli interessi di un qualsiasi gruppo economico o sociale.
Quando io leggo che il tal giornale è l’organo, ad ipotesi, di questa o quella associazione o federazione o confederazione di tali o tali altri industriali, di tali o tali altri operai dell’industria, di tali o tali altri agricoltori o contadini o mezzadri o fittuari o proprietari di terreni o case, o commercianti o banchieri od impiegati di banca e via dicendo, io mi cavo, e tutti dobbiamo cavarci, il cappello; quando un giornale dichiara apertamente di essere l’organo di certi interessi e parla dei torti che sono fatti a questo o quel gruppo sociale io potrò non accettare le sue argomentazioni, mi riserverò di controllarle con la lettura delle analoghe argomentazioni dei lavoratori se si tratta di industriali, degli industriali se si tratta dei lavoratori, degli intermediari se si tratta di agricoltori e viceversa; ma non dirò mai che quel giornale compia opera men che corretta. Dirò anzi che quel giornale, qualunque sia la tesi da lui difesa, compie opera socialmente utile.
La verità non è il privilegio di nessuno e nasce solo dall’aperto contrasto delle opinioni avverse. La difesa del bene comune non è il privilegio di nessun gruppo sociale. Che si sappia, non è stata scientificamente definita la nozione del bene comune, dell’interesse generale ed altrettante parole vaghe, che tutti usiamo correntemente, ma che tutti saremmo imbarazzatissimi a definire con esattezza. Rassegnamoci ad ascoltare con rispetto tutte le campane ed a cavare la miglior armonia possibile da quello scampanio confuso.
I giornali di interesse e di classe non sono imprese autonome. Il risultato economico di essi può essere considerato il sottoprodotto dell’impresa più vasta di difesa di un interesse particolare assunta dalla associazione o federazione o confederazione o circolo od ente o Società. Può darsi che l’interesse difeso sia proprio di così gran numero di persone che gli abbonati o compratori del giornale bastino da soli a coprirne le spese specifiche, Ma non è il caso più frequente; e si può dire perciò normale che il disavanzo del giornale di interessi sia uno dei capitoli di spesa del bilancio dell’associazione di cui esso è l’organo.
Secondo un modo di parlare il quale va diventando comune i giornali di interessi si distinguerebbero in due specie; di cui la prima sarebbe di quelli i quali difendono i lavoratori dei quali si parla con rispetto quasi fossero per antonomasia i difensori dell’interesse generale, laddove la seconda sarebbe dei giornali organi di industriali o commercianti o finanzieri od agricoltori, ai quali si suole accennare con peritanza quasicché fosse disdicevole occuparsi di non confessabili interessi «privati».
In verità, trattasi sempre di interessi e di scopi particolari e privati, né la linea di distinzione corre tra imprenditori ed operai, tra finanzieri ed impiegati, tra agricoltori (od «agrari» come si pronuncia con particolare disprezzo) e contadini. La distinzione è un’altra e corre bizzarramente attraverso alle due schiere comunemente contrapposte e quasi sempre accomunano insieme nel bene o nel male imprenditori ed operai, agricoltori e contadini.
La storia italiana recente fornisce esempi non pochi di condotte conformi e di altre disformi dell’interesse comune ugualmente fatte proprie dai ceti sociali apparentemente gli uni agli altri opposti. Quando, sul finire del secolo scorso ed all’inizio del secolo presente le leghe operaie si affermarono ed organizzavano scioperi ed ottenevano rialzi di salari ed accorciamenti della giornata di lavoro e, subito dopo, gli industriali fondavano a Torino la lega industriale, divenuta poi la Confederazione generale dell’industria; e l’opinione pubblica parteggiava per gli uni contro gli altri ed i conservatori reputavano sovversive le leghe operaie ed i socialisti bollavano la lega industriale di Torino come reazionaria, quell’opinione errava; ché sia l’azione operaia come la reazione industriale erano conformi al bene comune: la prima perché intendeva a dare dignità di uomo a colui che prima era reputato quasi servo, e la seconda perché poneva i limiti delle possibilità economiche alle corrette esigenze operaie.
Ma quando poi gli operai, imbaldanziti, pretesero conseguire vantaggi superiori a quelli consentiti dalla struttura economica generale del paese e gli industriali consentirono a patto di essere indennizzati con protezioni doganali e con privilegi di appalti e di forniture, ambedue le parti tennero condotta disforme dall’interesse collettivo e contribuirono alla formazione di quei ceti, privilegiati anche se noverati a milioni, i quali furono e sono la maggior iattura dell’Italia contemporanea, perché posero od acuirono il contrasto fra nord e sud, fra ceti operai e plebi agricole, contrasto che turba profondamente la vita politica e sociale italiana. Le apparenze spesso ingannano.
Non basta chiedere occupazione per i disoccupati perché a ragione si possa dar lode di condotta vantaggiosa al giornale il quale espone quella tesi. Oggi chi chiede si tenga fermo il blocco dei licenziamenti, chi invoca l’obbligo indiscriminato di assumere percentuali fisse di reduci, colui indubbiamente crea disoccupazione e promuove il danno dei lavoratori. Egli parla e scrive sulla base di quel che si vede e degli apparenti effetti immediati delle sue richieste; ma non v’ha dubbio che egli fa opera socialmente dannosa, distrugge domanda di lavoro, scema i salari reali ed è causa di miseria. Le sue intenzioni possono essere buone; ma è noto essere il pavimento dell’inferno lastricato di buone intenzioni. La sua azione è sinonimo di aumento di costi; e l’aumento dei costi fu a sua volta mai sempre sinonimo di produzione scarsa, di miseria e di disoccupazione dei partecipanti alla produzione. Non basta farsi difensori di aumenti di salari o di stipendi per acquistare il diritto ad essere considerati difensori delle classi lavoratrici. Quel diritto esiste quando si chiedono salari e stipendi atti al tempo stesso a dare massimi di produzione e di occupazione piena; non esiste quando l’effetto sia di creare occupazione privilegiata per gli uni e disoccupazione per gli altri.
Se un giornale difensore di interessi industriali od agrari chiede dazi protettivi o contingenti di importazione contro le merci straniere, combatte gli ammassi quando i prezzi di mercato sono superiori a quelli di impero e chiede ammassi quando i prezzi di mercato cadono al di sotto dei prezzi di impero, quel giornale tiene condotta contraria al bene comune. Non monta la parte di cui si afferma di essere gli interpreti. Si può essere organi degli agrari e difendere gli interessi generali; e si può essere organi degli operai e recare in qualcosa grave offesa al bene del paese e dei lavoratori. Nel momento presente forse le più gravi minacce alla pace economica vengono dalle organizzazioni operaie. Le quali, negli Stati Uniti, nell’Inghilterra, nella Svizzera, nell’Australia si oppongono alla immigrazione dall’estero e chiudono le moltitudini lavoratrici a bassi salari nei paesi d’origine, creando in questi focolari di rivolta e di incendio.
Accade oggi di scoprire difensori del monopolio e nemici della concorrenza più tra le leghe operaie che tra le associazioni di imprenditori; epperciò si deve constatare più tra le prime che tra le seconde l’esistenza di fautori di guerre e di regresso economico. Fautori forse inconsapevoli; ma non perciò meno promotori di male. Se dunque la distinzione dei giornali di interessi in eletti e reprobi, in progressivi e reazionari ed i primi sarebbero i giornali dei lavoratori ed i secondi quelli degli imprenditori, è inconsistente ed irreale; e se occorre ogni volta guardare alla tesi sostenuta per studiare se essa sia conforme o contraria al bene comune, non perciò cessa di essere vera la sentenza che il giornale di interessi, a qualunque parte appartenga, qualunque sia l’interesse difeso, è un tipo legittimo ed onorato di giornale. Giova alla cosa pubblica conoscere il pensiero dei diversi gruppi sociali; giova che delle tesi particolari, anche se diverse e contrarie al bene comune, assumano la difesa apertamente giornali e riviste di classe. Chi, a viso aperto, sostiene una tesi, anche erronea, è degno di rispetto. Il direttore di un quotidiano o di una rivista il quale dichiara: «io sono al servizio di questa o quella associazione di industriali, o banchieri od agricoltori od operai od impiegati o contadini», adempie ad un ufficio socialmente vantaggioso. È disonorevole soltanto far ciò senza confessarlo, affermando invece di proporsi solo il bene comune. Se la tesi propugnata sia o non conforme all’interesse generale, altri dirà. Lo dirà oggi l’imponderabile che si indica nome di opinione pubblica; lo confermerà, forse, domani l’analisi sui risultati dell’opera sua che sarà condotta dallo storico.
3
I giornali di partito
Non sono, in fondo, diversi dai giornali di interessi. Ambi i tipi sono, dichiaratamente, l’organo di un gruppo: economico gli uni, politico gli altri. Ambi sono conformi all’interesse pubblico; perché ambi offrono possibilità di discutere apertamente e pubblicamente i grandi problemi del giorno.
Di entrambi i tipi si conoscono le opinioni, gli ideali, i gruppi sociali e politici dei quali essi si fanno paladini. Per parlar solo dei giornali di partito, è utile alla cosa pubblica che ogni partito, comunistico socialistico democristiano liberale conservatore monarchico od altro qualsiasi esponga e difenda le sue idee. Io aggiungerei volentieri agli altri il partito fascistico, sebbene abbia poca speranza che taluno si dichiari tale, senza i ma ed i se e le riserve consigliate dalla prudenza politica del momento presente. Invece di fascisti travestiti, è assai meglio trovarsi di fronte fascisti aperti e potere combattere con essi ed ogni giorno ricordare al pubblico smemorato le conseguenze necessarie e fatali di quella concezione della vita.
Nell’interesse della cosa pubblica è necessario che ognuno possa dimostrare che la concezione propria della vita è migliore di quella altrui, che i programmi altrui sono reticenti o sbagliati, che altre sono le promesse e le intenzioni ostentate ed altre le intenzioni vere e gli effetti probabili. La vita politica sta nel contrasto e nella lotta; ed anche se accada che la menzogna trionfi e duri, non sarà mai perduta del tutto la fatica di chi contrasta la menzogna e resiste al suo trionfo.
I giornali di partito soffrono tuttavia, come quelli di interessi, di un vizio fondamentale; essi non sono «giornali»; bensì «giornali di partito». La loro ragion di vita è la difesa degli ideali di un partito. Perciò essi non possono avere un «direttore»; e quando dico, abbreviatamente, «direttore» intendo parlare di quel corpo di redattori, collaboratori, corrispondenti, con cui egli si immedesima e sono con lui una persona sola. In verità, un direttore esiste, anche nei giornali di partito; ma non è una persona pienamente autonoma.
Egli è e non può non essere scelto dal partito o sua giunta direttiva; e non può non seguire quelli che sono i principii, le idee prevalenti nella direzione del partito. Se il direttore è uomo di marca del partito, se egli è deciso a comandare e a non lasciarsi insufflare le idee da chi val meno di lui, la sua volontà potrà essere preponderante nel decidere.
Egli non sarà tuttavia mai il padrone assoluto delle decisioni; non potrà mai mettersi in contrasto con le correnti dominanti fra i gregari e sovrattutto tra i capi del partito. Il direttore di un giornale di partito non può, e si può anche sostenere non debba, fare tutto quanto egli sa contribuirebbe al successo del suo giornale. Lavora, in parte, a rime obbligate. Deve stampare le notizie di partito; annunciare le convocazioni, le conferenze, i discorsi, i comizi del partito. Entro i limiti di spazio assegnati dalle dimensioni del giornale egli non può fare la cernita delle notizie e dei commenti che sarebbe più gradita al lettore; ma quella la quale è imposta dalle esigenze del partito.
Tra due discorsi parlamentari, egli non può largamente riprodurre il grande discorso dell’avversario; ma ridurrà lo spazio a questi concesso, e sminuirà l’importanza, insisterà sui concetti più contestabili, sorvolando su quelli che hanno meglio riscosso il plauso dell’assemblea; ed invece darà gran peso e spazio al discorso mediocre dell’amico. Chiunque abbia assistito ad una seduta parlamentare, sa a priori di non trovarne la fotografia in nessun rendiconto dei giornali di partito; e per averne un ricordo, dovrà ricorrere ai rendiconti stenografici ufficiali, i quali forniscono la trama verbale, non scolpiscono mai la seduta, ovvero dovrà comporre a fatica un mosaico ricavato da una dozzina di giornali diversi. Durante le campagne elettorali, egli deve difendere la lista di candidati che è stata fabbricata dal suo partito e deve pubblicare biografie e riassunti dei discorsi dei candidati di quella lista, trascurando quelli dei candidati avversari, anche se hanno richiamato vivamente l’attenzione degli elettori.
Perciò il giornale di partito, di qualunque partito, tende alla noia. Un direttore esperto cerca di ridurre al minimo la tendenza fatale, col brillante della polemica, coll’arguzia nel rilevare i lati deboli dell’avversario. Maneggiando con arte l’arma dell’ironia riesce a captare la curiosità alquanto allarmata degli avversari; ma tant’è, il suo pubblico è fatalmente limitato agli adepti, ai simpatizzanti ed ai nemici fatti curiosi da preoccupazioni personali.
Esiste un limite al numero dei lettori dei giornali di partito, limite il quale influisce sulla costruzione tecnica del giornale. Il suo notiziario, salvo quello locale e le corrispondenze della capitale, quando non sia ristretto ai comunicati di partito, è quello comune delle agenzie giornalistiche ed è fatto di notizie che tutti i giornali hanno e non giovano ad accaparrare le preferenze del pubblico. Se il partito comanda a grandi masse, e se queste non sono soltanto irreggimentate per il giorno delle elezioni, ma sono animate da vera fede, può darsi che il giornale del partito raggiunga tirature notevoli, raramente uguali tuttavia al numero degli iscritti. Non consta che i giornali di partito frequentemente riescano a chiudere i loro bilanci con lucri notabili. Qualche esempio in questo campo di imprese fortunate si ebbe, anche in Italia; ma forse vi contribuì la fisionomia relativamente autonoma, fornita di una certa indipendenza dagli organi di partito, assunta dal giornale fortunato.
Finché il giornale rimane schiettamente di partito c’è un’ombra sull’altra fonte di entrata di un qualunque giornale: la pubblicità. Nessun giornale può vivere colla sola vendita e con i soli abbonamenti. La carta, la stampa, la distribuzione, la redazione, gli uffici di corrispondenza, il telegrafo, i telefoni, i viaggi, le spese di amministrazione hanno sempre superato il ricavo della vendita: sia che si trattasse dei 5 centesimi di prima il 1914, ovvero delle 6 lire d’oggi. I giornali – di tutti i tipi, concordi in questo assalto al pubblico denaro – hanno sempre cercato di scemare artificiosamente il prezzo della loro carta, sia con prezzi di impero, sia con assegnazione di prezzi di favore, sia congegnando le tariffe doganali in modo che le cartiere si ripagassero delle perdite o dei non guadagni sulla carta da giornale estorcendo prezzi alti ai consumatori di altri tipi di carta: per riviste, per libri, da lettere, ecc. ecc. Ma queste pratiche di rapina, male, coonestate con il pretesto del servizio pubblico – si potrebbe invero sostenere, se ci si lasciasse trascinare su un campo in cui la sentenza deve essere invece liberamente data soltanto dal pubblico, che un buon libro, che resta, è un servizio pubblico ben altrimenti più rilevante del buon giornale, il quale vive un attimo -, non giovano a dare stabilità al bilancio del giornale, il quale vive della sola vendita. L’esperienza anzi sembra dimostrare che, oltre un certo segno, più cresce la vendita e più alimenta la perdita; la quale non può essere colmata se non dal provento della pubblicità.
Ma la pubblicità dei giornali è dubbia per quantità e per qualità. Gli inserzionisti pagano le grosse tariffe oggi necessariamente invalse solo se sperano di trarre dall’annuncio un vantaggio morale od economico almeno uguale alla spesa; e poiché ambe le specie di vantaggio sono proporzionali alla tiratura del giornale ed al tipo dei lettori tra i quali è diffuso il giornale, gli inserzionisti credono di avere scarso interesse a diventare clienti dei giornali di partito. A torto od a ragione, i lettori dei giornali di partito sono reputati essere appassionati di politica, e compratori di giornali allo scopo di seguire le battaglie ideali che il partito combatte.
Costoro non acquistano il giornale anche per leggere gli annunci; od almeno questo è un motivo secondario dell’acquisto. La pubblicità sui giornali di partito si teme perciò frutti poco agli inserzionisti, sovrattutto a quelli minuti dei piccoli annunci che, essendo i più numerosi, sono quelli maggiormente produttivi. I grandi annunci sono di una qualità deteriore. Al luogo dell’interesse economico, che è la vera molla della pubblicità sana permanente, si fa strada la speranza di ottenere qualche vantaggio o di sottrarsi a qualche pericolo politico. Questa era, attraverso sollecitazioni minacce e ricatti, la vera fonte della pubblicità largamente elargita, per vigliaccheria, dalle grandi e piccole società od imprese industriali commerciali e bancarie ai bollettini o sedicenti giornali del partito fascistico. Il brutto andazzo non sembra sia venuto meno oggi; ed è tanto più fruttifero quanto maggiori sono i timori che il possibile trionfo di un partito incute agli uomini che attendono alle faccende economiche.
Una pubblicità ottenuta per ragioni estranee al vantaggio da essa sperato è tuttavia artificiale e malsicura. Le osservazioni fin qui ragionate portano alla conclusione finale: il giornale di partito è necessario, è vantaggioso alla cosa pubblica, a causa dello spirito di lotta e di discussione suo proprio. Ma parla prevalentemente agli adepti e li conferma nella loro fede; può crescerne il numero, pur non essendo a ciò bastevole da solo. Esso deve appoggiarsi ad una organizzazione di partito, che gli vieta autonomia di condotta. Tende ad essere fazioso e noioso.
Per lo scarso appello agli inserzionisti, fa difetto una pubblicità redditizia; epperciò non di rado il giornale deve, per vivere, ricorrere alle elemosine degli adepti del partito. Esso non si sottrae perciò al fato proprio degli altri due tipi di giornali fin qui discorsi, i giornali detti indipendenti e quelli di interessi. Nessuno dei tre appartiene al genere dell’impresa autonoma, vivente di vita propria. Gli economisti li classificherebbero tra le imprese parassitarie o complementari. Li classificheranno tra le une ovvero tra le altre per ragioni morali. Se lo scopo non è palese, se il fine particolare si nasconde e prende le sembianze di fine generale, il moralista in segno di spregio li classificherà tra le imprese parassitarie; se il fine particolare, di interesse economico o di partito, è dichiarato, il moralista, classificandoli tra le imprese complementari, affiderà all’economista lo studio, certo interessante e forse elegante, dei rapporti intercedenti fra l’impresa ed il gruppo economico e politico di cui essa è il complemento.
4
Il giornale
Scrissi ripetutamente[i] che il vero fondatore del giornale senza aggettivi, del giornale per antonomasia, del «giornale» senza coda, fu colui che ebbe un’idea semplice: perché non potrei con profitto vendere «notizie» come altri vende pane o scarpe o vestiti? Se ci sono panettieri i quali si procacciano clientela vendendo pane ben fatto, confezionato secondo il gusto dei consumatori, pane fresco, pane croccante, pane grosso, pane piccolo, biscottato od a forma di grissini, pane al latte od al burro, pane bianco o pane nero (naturalmente si parla di panettieri del tempo in cui non esistevano ammassi, calmieri, tessere ed altrettali piaghe d’Egitto); perché io non potrei procacciarmi abbonati e compratori quotidiani vendendo le notizie di cui io riuscirò ad avere giorno per giorno conoscenza? Non si sa con precisione chi abbia avuto per il primo secoli addietro questa idea semplice; ma colui creò per fermo una delle maggiori industrie moderne, una industria vivente di vita autonoma, più o meno prospera a seconda del genio giornalistico dei fondatori e direttori.
L’industria del giornale lotta con difficoltà peculiari. Il panettiere prospera se vende pane ben fatto; ed il giornale trae la sua diffusione dalla attitudine del suo direttore a vendere molte notizie, la più parte delle notizie vere che egli si può procacciare ed a venderle il più presto possibile e, se ci riesce, prima dei concorrenti. L’arrivar prima è raro trionfo, che può fare per qualche tempo la fortuna del giornale. La fatica quotidiana sta nel dare notizie vere. Il lettore si conquista solo a patto di non incappare se non eccezionalmente ed innocentemente nella notizia erronea o falsa. Nessuno volontariamente acquista bugie. Perciò il giornalista il quale sappia il mestiere, da nulla aborre più che dalla notizia infondata o falsa.
Purtroppo, non esiste la notizia «oggettivamente» vera. Innumeri sperimenti dimostrano che il medesimo avvenimento, il medesimo oggetto è visto in modo diverso da osservatori differenti. Ognuno di noi sa che la narrazione da lui fatta di un avvenimento famigliare è leggermente diversa od almeno colorata diversamente dalla narrazione fatta dalla moglie, dal figlio, dal nipote. Perciò al venditore di notizie non si può chiedere se non quella verità la quale umanamente è possibile. Non si può pretendere che il redattore credente descriva una processione religiosa con le stesse parole con cui la descriverebbe uno scettico; si può pretendere ed il direttore del giornale pretende, con la sanzione del licenziamento, che non si enunci in mille il numero dei partecipanti alla processione, quando invece erano al più cento. Un margine di errore è lecito, purché non sia eccessivo.
L’oggettività od imparzialità assoluta è assurda, essendo impossibile mutar la testa agli uomini e vietar loro di vedere i fatti e giudicare le idee con il proprio cervello, addestrato da quella educazione che fu sua propria. Ma il direttore del giornale, il quale ambisca trovare e conservare lettori, sceglie redattori i quali siano costrutti intellettualmente in maniera da sapere riprodurre con la minore approssimazione il pensiero altrui.
Forse la perfezione dell’obbiettività fu toccata quando, per un certo periodo di tempo, gli storici preferirono ricorrere ai rendiconti parlamentari del Times piuttosto che a quelli ufficiali dell’Hansard; ed innanzi al 1925 l’ambizione di parecchi giornali italiani era quella di riferire con uguale ampiezza i discorsi dei deputati appartenenti alla propria ed alle altrui tendenze. I parlamentari, od i più di essi, accusano di favoritismo i «giornali», perché, dovendo riassumere, è naturale si dia la preferenza agli oratori di maggior grido od a quelli che ebbero più successo nell’aula od esercitarono più influenza nelle votazioni. Ma è accusa infondata perché ad una scelta fa d’uopo giungere e la scelta dipende necessariamente dal giudizio subiettivo del direttore del giornale. Non basta riuscire a pubblicare con la maggiore rapidità, sottoponendole a quel vaglio che nell’urgenza dell’ora è possibile, il maggior numero di notizie vere, presentandole in modo chiaro ed attraente, con linguaggio semplice ed appropriato. Occorre, se si vuol vivere, vendere, come si disse sopra, annunci.
Qui non vi sono altri vincoli, fuor di quello di far palese ai lettori, in modo non dubbio, che quelli sono annunci a pagamento, pubblicati sotto la responsabilità dell’inserzionista. Il giornale vende millimetri quadrati di spazio prezioso e costoso e l’inserzionista paga il prezzo convenuto. Il negozio è perfetto e non lascia strascichi. Un inserzionista, pretestando di aver versato al giornale centinaia di migliaia o milioni di lire per annunci, chiede di essere difeso nel corpo del giornale contro un provvedimento legislativo che lo danneggia o di vedere invocato un provvedimento a lui favorevole? Il direttore del giornale, il quale non dico sappia il suo dovere, ma semplicemente conosca il suo interesse, ringrazia l’inserzionista per i buoni rapporti d’affari intervenuti in passato e lo dispensa dal fare nuovi annunci per l’avvenire.
Operando altrimenti, il direttore screditerebbe il giornale, procaccerebbe a sé fama di venduto, ed alla lunga vedrebbe diminuire la tiratura in confronto ai colleghi più avveduti. La correttezza giornalistica è anche l’ottima delle condotte economiche; e la correttezza esige che il reparto pubblicità ignori la redazione e viceversa. Ad un sol punto il direttore deve aver occhio quanto a pubblicità; rifiutare le inserzioni contrarie alla pubblica salute ed al buon costume o quelle che, a suo giudizio, gli sembrino mascherare affari illeciti.
Rinunciare a guadagni dubbi è sempre ottimo strumento per crescere i guadagni leciti e permanenti. Naturalmente, l’osservanza delle poche norme sopra riassunte non basta ad assicurare il successo del giornale. Come in tutte e più che nelle altre intraprese economiche, molti sono coloro i quali immaginano di avere le qualità del fondatore e direttore di giornali pochissimi sono gli eletti. Walter Bagehot, elegantissimo economista e pubblicista dell’epoca vittoriana scrisse un brano stupendo sul direttore dei Times, brano che per un terzo di secolo usai leggere, preludiando all’analisi dell’impresa economica, ai miei studenti del Politecnico di Torino.
Non ho sott’occhio il brano; ma suppergiù diceva così: «I Times non sono il frutto dell’opera né dei compositori, né degli stampatori, né dei macchinisti, né dei correttori e nemmeno dei redattori. Nonostante che essi tutti siano abilissimi e scelti tra i migliori nella loro professione, essi non sono il giornale. Come ogni altra impresa economica, il giornale ha una struttura monarchica. I Times sono creati di giorno in giorno dal direttore. Esso è il cervello invisibile, la mano nascosta che crea ed offre al pubblico il giornale. Egli sa quel che migliaia e centinaia di migliaia di lettori, che egli non ha mai conosciuto, né visto, che egli non conoscerà nè vedrà mai, desiderano leggere. Egli intuisce le loro predilezioni, i loro gusti; sa quali sono le notizie che essi vogliono conoscere subito, sa qual sorta di commento essi si attendano da lui. Egli intuisce i loro bisogni e cerca di soddisfarli. Se egli riesce, il giornale prospera ed egli diventa una forza; se non riesce, l’insuccesso, ossia il fallimento, lo aspetta». Quasi sempre, la sorte che aspetta al varco il fondatore del giornale è il fallimento.
La sorte è giusta, perché gli uomini i quali hanno le qualità necessarie per riuscire sono pochi, più rari di quanto non siano rarissimi i capi delle altre grandi aziende industriali o commerciali. L’impresa giornalistica non vende infatti beni materiali, che il tecnico può fabbricare perfetti. Il suo prodotto è immateriale, spirituale. La tecnica della presentazione può essere perfetta; ma se l’anima difetta, il giornale non va. Il direttore deve ricreare giorno per giorno quel bene inafferrabile indefinibile che è il contatto tra lui ed i lettori. Se il contatto viene meno, comincia la decadenza e scompare il margine, al di là del quale nascono insieme il potere morale ed il guadagno economico.
Perciò il «giornale» è indipendente nel senso che nessun mecenate, nessun gruppo gli fornisce i mezzi di vivere. Esso non vive di vita parassitica sulle rendite private di chi lo pubblica. Ma è il servo dei lettori e da questi dipende per la sua vita quotidiana. Non è un giornale di interessi; ché guai ad esso se il pubblico intuisse che esso serve ad interessi privati!
Perché comprare un giornale quando non si crede più che esso gli venda merce genuina, genuina perché creduta tale dal direttore? Non è un giornale di partito, perché, se così fosse, mancherebbe la chiave di volta del direttore, del direttore autonomo, persona libera, che pensa colla sua testa, che raccoglie attorno a se collaboratori e redattori e corrispondenti, nei quali ha fiducia ed essi hanno fiducia in lui. Il giornale è un’impresa la quale ha per iscopo di rendere servigi, servigi di notizie e di annunci, i quali abbiano per il lettore un valore almeno uguale al prezzo pagato.
Se l’impresa riesce essa dà un profitto all’imprenditore; se non riesce, gli procaccia perdite. Il lettore vuole, in cambio del prezzo pagato, ottenere, oltre alle notizie ed agli annunci, il servigio di commenti. Primo essenziale fra i commenti è il modo di presentazione delle notizie. Le notizie debbono essere vere, nei limiti della possibilità di un’analisi critica la quale deve essere compiuta in un giorno, in un’ora, talvolta in un minuto, ma devono anche essere scelte e messe in prosa. Vi sono mille modi di esporre le notizie in buona lingua italiana. Il lettore, tra le tante maniere di tradurre in prosa le notizie pervenute dalle agenzie e dai corrispondenti, finisce per preferire quella la quale meglio si avvicina al suo modo di vedere il mondo, alla sua concezione della vita, alla parte politica verso la quale egli nutre qualche simpatia.
Il lettore ordinario non ha tuttavia quasi mai idee ben definite e ragionate sui problemi fondamentali della vita politica civile ed economica. Se il direttore sa il suo mestiere ed ha, come dovrebbe, una sua concezione della vita, egli cercherà di spiegarla ai lettori. Non a guisa di lezioni, le quali per il loro carattere generale non lasciano traccia sulla mentalità del lettore. Non a guisa di spiegazioni di un programma di partito; ché qualsiasi programma di qualsiasi partito è il frutto di compromessi e non può fotografare le idee di nessun uomo singolo. Il «giornale» non può farsi l’eco e il propugnatore del programma di un partito, anche perché il direttore sa – e se non lo sa o non lo intuisce, non conosce l’abici del mestiere – che i partiti, tutti i partiti, come tali, hanno un programma il quale risulta dalla stratificazione di idee ricevute dalle generazioni passate, solo in piccola parte modificate dalle idee nuove, che si stanno facendo largo nella meditazione politica economica e tecnica contemporanea. Perciò, il direttore del «giornale», se vuole essere un vero direttore, deve essere lui e non un altro, lui e non il portavoce di idee di nessun partito.
Sia egli liberale a socialista, egli è tale a modo suo e non alla maniera di nessuna particolare professione di fede scritta nelle tavole di un qualunque partito. Potrà sbagliare; ma deve tentare di essere qualcosa di più di un ripetitore. Egli non deve difendere le tesi in base alle quali agisce il suo partito. Il partito deve osservare il principio antico ed accettato per cui i partiti vincono le battaglie elettorali: ripetete, ripetete sino alla noia sempre le stesse dichiarazioni, non stancatevi mai di ripetere le stesse affermazioni, quelle che i vostri uditori attendono da voi, quelle e non altre. Egli ha per ufficio di intuire le tesi neglette della propria fede ideale, quelle che la faranno vivere domani. L’oggi è, per il giornale, già il passato. A lui importa si dica domani: il mio giornale aveva ragione; aveva veduto giusto!
Non occorre che i lettori sappiano che esiste un direttore, conoscano il nome suo e quello dei collaboratori che egli ha scelto e formano un tutt’uno con lui. Non è escluso che i nomi siano noti, ma non è neppur necessario lo siano. In qualche paese dalle grandi tradizioni giornalistiche, i nomi non sono noti o sono tenuti in un’ombra discreta, aliena dalla pubblicità. Coloro che danno rinomanza agli uomini politici, ai letterati, agli scrittori, ai soldati vivono una vita oscura; e spesso il gran pubblico viene a sapere solo al momento della dipartita suprema che colui era l’uomo che tanta influenza aveva esercitata sul suo pensiero e sulla sua condotta. L’opera del direttore deve essere indirizzata a guadagnare a poco a poco questa influenza, inavvertita, non ostentata, ottenuta con la lenta persuasione e senza parole grosse. Il succo dell’arte consiste nel guidare il lettore alla meta, alla conclusione politica ritenuta giusta dal direttore, avendo l’aria di secondare, di dar corpo a quelle che sono le idee già esistenti nella testa del lettore. Il direttore ha vinto la sua battaglia quando il lettore, riponendo l’articolo od il rendiconto o la corrispondenza, è soddisfatto e tra sé e sé pensa: «queste cose le ho sempre pensate anch’io!». In verità non aveva pensato nulla; ma una dimostrazione od una tesi si dice evidente appunto perché essa entra pianamente nella convinzione altrui senza suscitare reazioni o critiche. Talvolta il direttore sa di avere contro una sua opinione l’unanimità dei lettori; ed egli sa anche che lui ha ragione ed i lettori hanno torto. Egli non li può prendere di fronte; ché sarebbe la rottura irrimediabile e la perdita del prestigio acquistato a gran fatica, la perdita dello strumento medesimo con cui può far trionfare la sua tesi. I fatti gli devono dar ragione.
Socrate non affrontava bruscamente gli avversari e gli allievi; ma li conduceva via via, con domande aggiustate, alla conclusione alla quale egli voleva arrivare. Hanno torto coloro, i quali, dinnanzi al vento di follia che talvolta sommuove le moltitudini ed i popoli, usano le parole forti. Si possono usare parole aspre mosse dal dolore o dalla pietà, non mai dall’ira. Il linguaggio piano pacato del ragionamento della esperienza forse non farà presa subito, ma sarà ricordato domani, quando, venuta meno la tormenta, ognuno comincerà a riflettere sui fatti accaduti e sulla saggezza delle parole di eccitamento o di monito che si erano lette sui giornali.
Così nasce e cresce quello che fu detto il quarto potere. Non a torto i governanti ed i politici di ogni paese guardano spesso con ansia a ciò che di essi e dell’opera loro si scrive sui «giornali». Non guardano massimamente ai giornali della propria parte politica, Perché sanno che dell’opera loro i giornali debbono parlar bene. Né si impressionano oltremisura delle critiche avversarie le quali anzi non di rado sono fonte di orgogliosa soddisfazione: il silenzio sprezzante nuoce, laddove essere attaccati dall’avversario dà rilievo alla propria posizione politica. Giova o nuoce al politico sovrattutto il giudizio del «giornale», a capo di cui sta un uomo libero, il quale giudica con la sua testa. All’indomani del trionfo parlamentare, della vittoria schiacciante o di quella faticosamente guadagnata per piccola differenza di voti, la critica misurata del giornale può valere una sconfitta. Il quarto potere non ha in mano sua l’arma del voto di maggioranza, della soluzione legale data ad un problema dalla votazione parlamentare.
Ha un’arma assai più potente, quella della persuasione, la quale sta veramente alla radice dei governi liberi. Un grande progresso fu fatto quando, per distinguere il torto dalla ragione, si passò o si ritornò a passare (il ritorno in Italia è recentissimo ed è tuttora labilissimo) dal metodo del rompere la testa dell’avversario al metodo di contare le teste dei contendenti. Fu davvero un grande progresso, il coronamento di un’opera di educazione iniziata quando gli uomini si persuasero della sconvenienza di mangiare, dopo averlo ucciso, il nemico. Non illudiamoci però supponendo che a tal punto, facendo il conto delle teste, si sia conquistata veramente la libertà. Si è attuato soltanto uno dei tipi di governo democratico. Aristotele ne aveva già definiti i vizi e le virtù.
Il tipo democratico di governo fondato sul novero dei noti si muove diuturnamente sull’orlo dell’abisso. Se si immagina che la maggioranza possa fare tutto ciò che vuole, la tirannia è alla porta. Ci sono molte cose che nessuna maggioranza può fare. Non è mai stato vero che la Camera dei comuni possa fare ogni cosa, salvoché tramutare l’uomo in donna. Forse i trionfi futuri delle scienze biologiche renderanno più agevole tramutare l’uomo in donna e viceversa – già si leggono accenni di scienziati di valore e terrificanti possibilità di [cosidette] conquiste della scienza nella genetica umana – di quanto non sia mai per diventare possibile ad una qualsiasi assemblea parlamentare di prendere quella qualunque deliberazione piaccia alla maggioranza. Già oggi, vi sono limiti ai poteri delle maggioranze.
Piacque un giorno ad una assemblea fascistica di proclamare ad unanimità la verità dell’autarchia e l’errore della libertà degli scambi. Ma il voto era chiaramente nullo e risibile perché appartenente al campo delle verità e degli errori teorici, nel quale il voto contrario di uno solo basta a far cadere nel nulla il consenso dei mille. Dal pari nessuna maggioranza riuscirà mai a mutare il torto in diritto. Mille testimonianze false non esimono il giudice dal prestar fede all’unica testimonianza da lui ritenuta veritiera.
Il potere delle maggioranze trova un limite nella verità della deliberazione da esse assunta. La prova del fuoco delle leggi comincia nel giorno in cui esse si attuano. Perché attuazione vi sia è necessario che esse ricevano il consenso anche dei meno; o che i contrastanti si riducano ad una frazione così esigua da non eccitare più l’attenzione di nessuno. In una società libera, il processo di discussione non finisce col voto di maggioranza. Quel processo continua; ed il giornale, organo degli uomini che pensano, ha il diritto e il dovere di continuare a discutere. Perciò la più gran parte delle leggi le quali sono votate dai parlamenti non giunge a sera. Quanto più le maggioranze hanno lavorato e prodotto leggi, tanto meno queste durano ed hanno vigore. L’applicazione che si pretende farne, eccita la discussione sulla stampa; e provoca modificazioni, correzioni, riforme.
Una legge veramente entra nel sacrario delle tavole legislative scritte nel bronzo, quando la critica tace, quando le minoranze malcontente si riducono a poche voci nel deserto; quando il giornale volge ad altro la sua attenzione. Perciò il vero, il supremo potere legislativo in ogni paese libero non sta nel Parlamento. Questo è solo una delle manifestazioni, quella legale, del potere. Il giornale è uno dei poteri reali; e la sua forza effettiva è spesso più grande di quello di coloro che legalmente sono investiti della potestà di far leggi. Ma anche questa è una proposizione sbagliata.
Se è vero che il giornale diretto da un uomo può avere una forza politica maggiore di quella di un parlamento, ciò accade non perché esso sia un giornale; ma perché e se dietro a quel giornale c’è un uomo che pensa e dice quel che egli crede la verità; perché e se quell’uomo è la bocca delle verità che sono state pensate e scritte in passato dai pochi uomini che nei secoli pensarono. Al disopra delle maggioranze parlamentari vi sono alcune parole eterne: non rubare, non bestemmiare, non offendere la libertà altrui, opera verso gli altri come vorresti che gli altri si comportassero verso di te. Il direttore del giornale che conosce ed applica le verità eterne è più forte dei tiranni e delle maggioranze. Per bocca sua parla la coscienza dell’uomo il quale anela a Dio.
[i] In un volume di Saggi, in un articolo su «Foreign Affairs» e in una nota aggiunta; tutti riprodotti, o nuovamente stampati, col titolo Il problema dei giornali, nella «Nuova Antologia» del luglio 1945.