Tecnicismo e parlamentarismo nel progetto sull’esercizio di stato delle ferrovie
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/03/1904
Tecnicismo e parlamentarismo nel progetto sull’esercizio di stato delle ferrovie
«Corriere della Sera», 19 marzo[1] e 20 aprile[2] 1904
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 116-124
I
Le norme predisposte nel disegno di legge preparato dal ministro Tedesco, sull’esercizio di stato delle ferrovie, sono certo meditate profondamente e frutto di larga esperienza e di dottrina non comune. Il giovane ministro dei lavori pubblici si è in tal modo dimostrato convinto della necessità di non lasciarsi cogliere alla sprovveduta nel momento in cui sarà d’uopo risolvere il problema ferroviario.
Non è facile esaminare criticamente un progetto così complesso ed organico e che tocca tanti e così momentosi punti del problema delle ferrovie. Più che critiche, le nostre vogliono quindi essere osservazioni frammentarie e domande dubitative che sorgono in noi dalla lettura del disegno di legge. Il quale si propone soprattutto di creare un’azienda autonoma, sottratta alla ingerenza ed agli arbitri del governo e del parlamento.
Tanto cattivi sono i frutti della inframmettenza parlamentare, che tutti son d’accordo nella necessità di non fornirle nuova esca coll’esercizio interamente governativo delle ferrovie. Sia l’azienda autonoma; le nomine degli impiegati sieno fatte per concorso; i viaggi gratuiti per sedicenti ragioni di servizio siano ristretti al minimo possibile; non possa la camera proporre nuove spese stravaganti o ridurre le previsioni dell’entrata. In questo modo si ovvierà ad uno dei più gravi pericoli delle aziende di stato, che esse diventino lo scaricatoio di tutti gli agenti elettorali dei deputati, il mezzo per render favore ai collegi; e che, come dice per il Belgio un testimone non sospetto, il socialista Vandervelde, si vadano a cercare per preporli alla direzione delle ferrovie «uomini politici, avvocati, che, il più sovente, non hanno altri titoli alla direzione delle locomotive nazionali che i servizi resi al loro partito».
Ma è davvero autonoma l’azienda ferroviaria quale è immaginata dall’on. Tedesco? Innanzi tutto l’azienda dovrà essere soggetta al controllo di quattro autorità diverse: del parlamento per l’approvazione dei bilanci di previsione e di assestamento e del conto consuntivo, della Corte dei conti per la legalità delle spese, del ministero dei lavori pubblici per la parte tecnica ed amministrativa, e del ministro del tesoro per la parte contabile e finanziaria. Quanto siamo lontani dall’agilità e dalla scioltezza di movimenti che dovrebbe avere un’azienda industriale! Chi può prevedere i ritardi, inevitabili, ai quali, con tutta questa organizzazione di controllo, si va incontro? Anche oggi, con gli attriti continui tra società e governo, non si cammina spediti; ma in avvenire è dubbio se il passo potrà venire accelerato.
D’altra parte, trattandosi di un’amministrazione pubblica, per quanto autonoma, non si può rinunciare al controllo della Corte dei conti. Al ministro del tesoro non si può negare il diritto di vigilare su un bilancio che può turbare l’equilibrio delle entrate e delle spese complessive dello stato. Né alla camera può sottrarsi il diritto primordiale della votazione dei bilanci, quando non si voglia creare un nuovo e gigantesco e pericolosissimo fondo segreto. Né, infine, il ministro dei lavori pubblici può essere costretto ad assumere, di fronte al paese, la responsabilità di un bilancio presentato da un suo subalterno, senza dargli almeno il diritto di proporre nuove spese od aumento di spese. A meno che non si sopprima senz’altro la dipendenza dell’azienda ferroviaria dal ministero dei lavori pubblici, creando, anche ad evitare le mutazioni frequenti di governo, un commissariato permanente direttamente responsabile dinanzi al parlamento.
Accanto alla preoccupazione dell’autonomia si ha la preoccupazione della finanza. L’on. Tedesco ha avuto paura che per motivi politici elettorali si aumentassero le spese e si diminuissero le entrate di qui le regole minute per il numero dei treni, per le tariffe, per le promozioni ed i miglioramenti d’organico del personale. L’iniziativa delle spese deve spettare al direttore generale dell’azienda, e tutt’al più il ministro può far nuove proposte, coll’obbligo di dar notizia del parere contrario del consiglio d’amministrazione delle ferrovie. Tutto ciò per legare le mani alla camera e per impedirle di commettere stravaganze. Ma si è raggiunto in tal modo l’intento? O il pericolo, una volta girato, non risorge più minaccioso di prima? La causa dell’aumento delle pubbliche spese non sta essenzialmente e direttamente nelle proposte di iniziativa dei deputati. Queste ben di rado giungono all’onore della discussione ed ancora più di rado sono approvate. La responsabilità maggiore risale al governo – al comitato della maggioranza dei deputati – che per sostenersi al potere fa sue le proposte che partendo dai singoli deputati avrebbero poco peso, le ravvalora e le presenta al parlamento. Quindi, finché si dice soltanto che la camera non può approvare nuove spese, quando non siano proposte dal governo, si dice ben poco. La camera approverà mozioni o voterà ordini del giorno per invitare il governo a proporre quelle spese che essa di sua iniziativa non può votare.
Si aggiunga un dubbio: che cosa ci sta a fare il parlamento in un’azienda, della quale il bilancio attivo è sottratto al suo controllo perché le tariffe vecchie si debbono conservare provvisoriamente, e di cui il bilancio passivo non può essere mutato in più per il divieto di votare nuove spese e difficilmente può essere mutato in meno perché gli stipendi del personale non si possono toccare, ed i prezzi del carbone, dei vagoni e delle locomotive dipendono dalle oscillazioni del mercato e non dal voto dei deputati e senatori?
Sono dubbi codesti che forse una discussione approfondita potrà risolvere; e perciò li accenniamo appena, senza svolgerli. Un ultimo dubbio ancora. Il disegno di legge provvede a tutelare le sorti del personale, ne sistema l’ammissione, ne regolarizza le promozioni, e cerca di dar ragione ai loro reclami istituendo un collegio speciale d’arbitrato. Ma come si è pensato al pubblico che viaggia e spedisce merci? Qui è il punto che sovratutto occorre chiarire, sia per i reclami, sia per le tariffe.
Per le controversie sui trasporti il disegno di legge conserva la competenza attuale dell’autorità giudiziaria; ma aggiunge che l’azienda autonoma non potrà essere condannata alle spese di lite se prima non si sia sperimentato il ricorso in via amministrativa. È un impaccio, non lieve, per coloro che hanno ragioni da far valere contro le ferrovie. Per le tariffe poco si dice: ed è a temersi che la sorveglianza del ministro del tesoro sull’azienda autonoma non si risolva in una remora continua alle diminuzioni delle tariffe a vantaggio del commercio. L’on. Giusso ebbe a dire una volta che il più grande nemico delle riduzioni tariffarie in Italia fu sempre lo stato; e la stessa cosa si può ripetere per la Germania, per il Belgio ed ora per la Svizzera. Il disegno di legge dell’on. Tedesco non elimina il dubbio che così sia anche in avvenire in Italia.
II
Discorrendo, subito dopo che erano stati sommariamente resi di pubblica ragione, dei principii informatori del disegno di legge dell’on. Tedesco sull’esercizio di stato, avevamo manifestato alcuni dubbi intorno alla possibilità di raggiungere quegli scopi di autonomia dell’azienda, di snellezza nell’amministrazione che sono i postulati primi di un proficuo governo delle ferrovie. I dubbi permangono anche ad una più attenta lettura del disegno di legge e della concettosa relazione che l’accompagna; ma nasce altresì la persuasione che il disegno dell’on. Tedesco si avvicini molto più di altri ad un ideale che per molte ragioni forse è irraggiungibile: ottenere coll’esercizio di stato quei medesimi fini di rapidità, di esecuzione e di indipendenza dagli influssi parlamentari che sono quasi connaturati all’esercizio privato.
Ad infondere in chi lo studia questa persuasione, il progetto Tedesco è stato aiutato singolarmente da una forse non fortuita concomitanza: la diffusione avvenuta per opera della «Federazione nazionale fra i sindacati dei ferrovieri» di un progetto di amministrazione autonoma delle strade ferrate dello stato dell’on. Quirino Nofri. Fu una vera fortuna per l’on. Tedesco che il progetto Nofri sia venuto subito a dimostrare la notevole superiorità del suo disegno.
Amendue vogliono ottenere il medesimo fine: l’autonomia dell’esercizio ferroviario di stato. Ma quanto diversi i mezzi! Per l’on. Tedesco, il fatto che l’azienda ferroviaria è di stato, non ne muta la natura di impresa da gerirsi con criteri industriali, con unità e rapidità di indirizzo, con responsabilità quasi accentrata in chi è preposto alla sua direzione. Perciò a capo di essa stia un direttore generale nominato dal ministro, il quale abbia l’iniziativa dei provvedimenti e insieme la responsabilità dell’esecuzione. Perché egli non sia un autocrate assoluto, dovrà avere allato un consiglio d’amministrazione, poco numeroso, composto di un presidente e di appena quattro membri, chiamato a dare il suo parere sulle proposte di lavori e forniture più importanti, ad approvare i contratti, a pronunciarsi sul personale, sulle disposizioni generali di servizio, sugli stanziamenti da iscriversi in bilancio, sui prelevamenti dal fondo delle spese obbligatorie e d’ordine e dal fondo di riserva per spese impreviste, sull’aggiunta dei treni oltre dati limiti, ecc.
Direttore generale e membri del consiglio d’amministrazione dovranno essere tutti residenti a Roma e tutti dovranno essere incompatibili con pubbliche cariche elettive, solo modo di sottrarre questi altissimi uffici alle più sfrenate ambizioni politiche.
Al disotto del direttore generale stanno tutti gli organi esecutivi e di controllo. Il criterio dominante è sempre quello della unità di indirizzo e della economicità della gestione. L’on. Tedesco difatti non è tenero verso i concetti di coloro che, sotto pretesto di concentrare, produrrebbero una inutile moltiplicazione di uffici. La questione più importante era se dovessero istituirsi una o più direzioni di esercizio. Dovrà, ad esempio, esservi una sola direzione a Roma coi servizi del movimento, della trazione, della manutenzione, i quali provvedano poi con uffici dipendenti distaccati nelle principali città all’effettivo andamento dell’azienda? Ovvero si dovrà dividere la rete in parecchi compartimenti con ciascuno una propria direzione di esercizio coi servizi del movimento, della trazione, ecc. ecc.? A prima vista questo secondo sistema può sembrare più consono ai postulati del decentramento e delle autonomie locali, e come tale fu adottato in Austria, in Prussia e dalla Mediterranea in Italia. Ma questa divisione in compartimenti in realtà ha portato soltanto ad una moltiplicazione di servizi ed alla necessità di istituire nel centro, presso la direzione generale, uffici intesi a mantenere uniforme per ogni ramo l’azione dei servizi nei diversi compartimenti. Donde diversi inconvenienti, principale quello di far intervenire nei particolari di servizio il direttore generale, svisandone così la caratteristica di amministratore centrale e di supremo ordinatore e confondendola in taluni casi con quella dei direttori compartimentali di esercizio, i quali alla loro volta, mancando di sufficiente autorità, devono continuamente richiedere istruzioni alla direzione generale, con grave danno alla speditezza propria dell’esercizio ferroviario e notevoli aumenti di personale. Perciò, seguendo l’esempio dell’Adriatica, della Sicula, delle ferrovie di stato della Francia e del Belgio e delle ferrovie private della Francia e dell’Inghilterra, l’on. Tedesco, nella fiducia fors’anco che l’esercizio di stato non dovrà estendersi a tutte le ferrovie italiane, propone di seguire il sistema della unicità della direzione di esercizio.
Il direttore generale, assistito così da un direttore dell’esercizio e da un ragioniere centrale per il controllo, potrà veramente dedicarsi alle sue funzioni di alta sorveglianza. Niente impedirà che l’unica direzione possa poi attribuire larghi compiti agli uffici locali. Quando si mantenga l’unità e la rapidità dell’esercizio, il decentramento è cosa possibile ed anche economica.
L’on. Nofri è partito da concetti intieramente diversi. Le sue ferrovie di stato saranno l’immagine del parlamentarismo applicato alle più grandi branche della industria moderna. Eccone i capisaldi:
La dirigenza e la sorveglianza superiore saranno affidate al parlamento per l’approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi, dei ruoli organici del personale, dei prestiti, sussidi chilometrici, riscatto di linee private, sussidi per costruzione di nuove ferrovie, stazioni, ecc.; ed al ministro dei lavori e servizi pubblici per la compilazione del regolamento generale, sentito il consiglio del lavoro ed il consiglio di stato, la nomina di parte dei membri dei consigli generale e compartimentali di amministrazione, ecc.
Fin qui nulla di male. L’ingerenza del governo e del parlamento è forse qui più visibile che nel progetto Tedesco, ma in parte è un malanno inevitabile.
Il più bello viene dopo, col potere amministrativo affidato ad un consiglio generale di amministrazione, composto di 35 membri, di cui 19 nominati dal consiglio dei ministri, 8 dall’unione delle camere di commercio, da quella dei comizi agrari e delle rappresentanze dell’industria agraria, ed 8 dai comitati centrali delle federazioni operaie di mestiere e delle camere di lavoro ed in modo che una metà almeno faccia parte del personale della strade ferrate del regno.
In seno al consiglio generale e nelle medesime proporzioni di classe si nominerà un comitato permanente di 8 membri residenti in Roma. Il concetto dell’on. Nofri è certamente plausibile per l’intenzione di dare ai ceti interessati voce per far valere i loro diritti. Ma noi crediamo che il modo sia errato. Il commercio ha interesse ad un buon ordinamento delle ferrovie; ed i ferrovieri ad un buon ordinamento del lavoro. Questo è tutto. Si dia ai primi una larga rappresentanza in un consiglio superiore consultivo del traffico o delle tariffe ed ai secondi in un collegio dei ricorsi del personale ferroviario, come propone il Tedesco; ma basta lì. Che cosa hanno a che fare queste 35 degnissime persone ed i loro otto delegati nell’amministrazione dell’azienda ferroviaria? Qui ci vogliono tecnici e non una persona qualunque, «purché sia eletta secondo le varie norme che reggono i vari enti che hanno diritto di partecipare alla elezione» (art. 8). In pratica questi qualunque saranno – per almeno i due terzi dei membri eleggibili dal governo – deputati e senatori, per i membri operai, in parte capi dei sindacati ed in parte avvocati o deputati patroni dei ferrovieri. Gli unici tecnici saranno i rappresentanti del commercio e dell’industria; ma saranno tecnici in altri mestieri, non in ferrovie, come sarebbe necessario. Avremo molte bellissime discussioni simili a quelle che avvengono oggi in seno al consiglio superiore del lavoro o al consiglio dell’emigrazione; ma anche continui bastoni fra le ruote ai dirigenti.
Né l’invadenza dello spirito parlamentare nel disegno Nofri si ferma qui: la rete ferroviaria dello stato si dovrà dividere in sei compartimenti, per ognuno dei quali vi saranno sei consigli compartimentali di 15 membri, nominati 7 dal ministro dei lavori e servizi pubblici, 4 dalle locali camere di commercio, comizi agrari ed altre rappresentanze agrarie e 4 dalle camere di lavoro e federazioni operaie di mestiere, in modo che almeno 2 siano ferrovieri. Anche qui chiunque potrà far parte dei consigli compartimentali.
Il male non è nella creazione dei sei compartimenti, a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Napoli e Palermo. Sono troppi è vero; ma per sé il progetto Tedesco, pur amantissimo dell’unità di indirizzo, non esclude che la rete ferroviaria italiana sia divisa in parecchie parti, essendo il progetto compilato nell’ipotesi che lo stato eserciti una parte soltanto della rete e le altre siano lasciate a società private. Forse, se il progetto Tedesco avesse previsto la possibilità di tutta la rete italiana divenuta di stato, avrebbe creato due o tre direzioni, per l’alta Italia, l’Italia peninsulare e la Sicilia. Il difetto del progetto Nofri sta nella creazione di tutti questi piccoli parlamentini locali, coi loro interessi collidenti, colle loro gelosie e coi loro attriti. Il male sta nel sottomettere a questi parlamenti, uno grande e parecchi minuti, il direttore generale e i direttori compartimentali. Il direttore generale diventa un servo del consiglio generale. Da questo deriva la sua nomina; alle sedute sue partecipa, ma con voto puramente consultivo; e ne esegue le deliberazioni. Ben poco resta di quella larga facoltà d’iniziativa e di spinta che forma uno dei pregi migliori del progetto Tedesco.
Molte altre osservazioni ancora potremmo fare sui disegni di legge Tedesco e Nofri; né vogliamo astenerci dal riconoscere che anche in quest’ultimo sono parecchi particolari bene congegnati. Sono le linee sue essenziali che ci trovano assai dubbiosi e, a guisa di contrasto, fanno eccellere la semplicità e la snellezza del sistema Tedesco. Il quale ben potrebbe essere definito il progetto di un tecnico persuaso dei benefici immensi dell’iniziativa individuale dei competenti, anche nei servizi pubblici; mentre il progetto Nofri è caratteristico di chi vuole infiltrare dappertutto, pur negli affari industriali, i criteri delle rappresentanze di classe, delle elezioni e del parlamentarismo. Quale dei due sistemi sia il migliore, è facile giudicare a chi sappia che cosa sieno industria e commercio.