Opera Omnia Luigi Einaudi

Superamento

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1934

Superamento

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1934, pp. 315-320

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 102-107

 

 

 

 

1. – «Superato» – «fuor del tempo nostro» – «intellettualmente morto» ecco parole o combinazioni di parole venute in uso da qualche decennio nella polemica filosofica e critica e trasmigrate recentemente nel campo delle discussioni economiche e sociali; parole, delle quali v’ha per fermo un uso legittimo, da nessuno contestato. Lo schema ricardiano del mondo economico è stato superato dallo schema gosseniano-mengeriano- pantaleoniano, al quale possiamo immaginare idealmente succeduti quello marshalliano e poi l’altro walrasiano-paretiano, così come domani questi potranno, ove si faccia talun passo decisivo, essere superati da un qualche nuovo schema di equilibrio dinamico. Superamento vuol dire in senso proprio perfezionamento della teoria ammessa, suo arricchimento di elementi nuovi, ed affinamento per eliminazione delle scorie caduche; sicché ad un certo punto la teoria ricevuta pare in tutto diversa da quella antica. Ma non è, perché l’ultima contiene in sé le traccia di ognuna delle precedenti; e tutte queste sono, insieme con quella odierna, proprie del tempo nostro, ché esse sole, dando una parte di sé, hanno reso possibile alla dottrina di essere quella che oggi è. Sicché, una ideale storia delle dottrine economiche potrebbe semplicemente consistere nel ricordo che si facesse, nel trattare sistematicamente la dottrina oggi ricevuta, del debito da questa contratto verso le precedenti meno perfette formulazioni che via via la precedettero. Il legittimo uso della parola «superamento» implica l’accoglimento contemporaneo dell’idea che nulla è superato, nulla è fuor del tempo presente ed ogni teoria che visse vive ancora perfezionata ed affinata nella teoria attuale. Se si rifletta alla diversità del vocabolario e dei mezzi tecnici di espressione usati dai vari conventi di studiosi, dagli adepti della scuola di Cambridge, da quelli della scuola di Losanna (altri direbbe italiana), dai neoaustriaci, ecc., per cui si stenta, e forse sempre più si stenterà, dagli uni ad intendere quel che gli altri dicono, potrebbe sembrare che davvero ognuno di questi corpi di dottrina si trovi fuor del tempo altrui. Ma è pura apparenza; ché, di fatto, con misconoscimenti reciproci, tutti collaborano ad un’unica meta. Venga lo scienziato il quale possegga a fondo i diversi linguaggi e le tecniche variabili; ed egli farà vedere che v’ha una unità fondamentale di dottrina e che, per diverse vie, v’era solo gara nel superare, in sé accogliendole, le dottrine passate.

 

 

2. – Non di questa legittima accezione del «superamento» a cui collabora, tra qualche perdonabile rivalità, che, per adoperare il motto dell’amico Rosenstein, si potrebbe dire parrocchiale, la non folta schiera degli studiosi i quali attendono nel mondo a fantasticare ed a ragionare sugli ultimi veri economici, mi voglio qui occupare: ma di altre accezioni, più comunemente correnti nel piano terreno della polemica economica, e delle quali l’uso è a prima vista dubitabile.

 

 

Quando invero si sente dire che il tale scrittore di problemi concreti, attuali, propri ad un paese o ad un tempo non conta perché superato, perché uomo fuor del tempo suo, ci si chiede: in che cosa consiste questo essere fuor del tempo proprio?

 

 

3. – Non pare che il criterio dell’essere fuor del tempo consista nell’indole dei problemi posti e discussi. Anzi, questi sono sempre problemi vivi contemporanei, d’oggi e non di ieri. Ed invero si rimprovera sempre al superato di porre e discutere per l’appunto problemi vivi.

 

 

4. – Non pare neppure che il criterio tocchi il metodo logico tenuto nell’argomentare. Suppongasi si discuta intorno al vecchissimo e sempre vivissimo quesito della convenienza di limitare il numero dei negozi in una città (o delle imprese in uno stato o dell’industria nel mondo). Dagli uni si assevera che il crescere del numero dei negozi, a cagion d’esempio delle panetterie, scema la quantità venduta di pane per ogni negozio, e perciò cresce il quoziente delle spese generali per unità di merce venduta e cresce il costo ed il prezzo. Dagli altri si ribatte essere assurdo immaginare basti crescere il costo per crescere il prezzo; ché il mondo sarebbe in mano degli imbecilli. Così argomentavasi hic et hinde ottant’anni fa, quando Le Play, Giulio e Cavour scrivevano memorandi rapporti sulla regolazione della vendita del pane; e prima, all’epoca di Turgot e prima ancora risalendo nei secoli fino ai tempi antichi. Le argomentazioni odierne non differiscono gran fatto da quelle passate; mutandosi soltanto i dati statistici raccolti, ed arricchendosi, non troppo, i particolari del ragionamento. Il problema è immutato: conviene limitare, regolare o lasciar libertà di concorrenza? Se la risposta sia di limitare, quali i limiti, quali le norme regolatrici più convenienti? È chiaro che qui c’è poco campo al superamento; od almeno questo è contenuto nei modestissimi confini in cui gli strumenti più perfezionati della logica economica moderna possono essere utilizzati a risolvere problemi, che, per essere concreti, variabili di caso in caso, spesso imponderabili, sfuggono quasi in tutto a quelle esatte misurazioni che sono l’ambizione dell’economista teorico moderno.

 

 

Del pari non si capisce facilmente in che cosa consista un possibile superamento nel modo di trattare il problema del dazio sul grano o di qualunque altro immaginabile dazio doganale protettivo. Sempre si dovrà partire dalla domanda: quali sono gli effetti del dazio in discussione? S’intende gli effetti reali, osservabili e ragionabili, non gli effetti voluti nell’intenzione di chi deliberò o propose il dazio. L’intenzione, nel ragionare gli effetti di un dazio, è apprezzabile solo nei limiti in cui essa di fatto si concretò ed agì in un senso o in un altro. Anche qui il superamento ha luogo solo in quanto tra gli argomentatori vi sia chi superi gli altri per ricchezza di dati osservati, per acume nella interpretazione di essi, per potenza di ragionamento nell’intravvedere ed anticipare gli effetti non facilmente osservabili, per capacità di intuizione nello scorgere effetti lontani o nascosti. Trattasi di concorrenza fra teste ragionanti; ed è chiaro che nessuna regola ci dice che una schiera di ragionatori sia inevitabilmente vinta perché nata in un dato anno piuttostoché in un altro, in regione nordica piuttostoché meridionale e simili. Può ragionar bene il giovane e male il vecchio, o viceversa.

 

 

5. – Neppure il richiamo che il ragionatore faccia o sia supposto fare ad una concezione o visione generale del mondo in genere e del mondo economico in particolare è bastevole a caratterizzarlo come superato. Assumasi, ad esempio, la concezione liberistica, di cui l’attribuzione a tale o tale altro scrittore basta spesso oggi a squalificarlo: «il tale è liberista, quindi è un superato, quindi le sue scritture non devono essere prese sul serio». Faccio astrazione dai grotteschi equivoci in che gli squalificatori per lo più cadono; attribuendo siffatta qualifica a chi non la merita; ed attribuendola fuor del campo (doganale o concorrenziale interno e simili) in cui probabilmente quello scrittore è veramente liberista o beatamente meravigliandosi, quasi si trattasse di inspiegabile contraddizione, se il tale, che ha sulla schiena attaccato il cartellino di «liberista», sia, in perfetta logica con se stesso, da decenni o forse da mezzo secolo notissimo propagandista di cooperazione o di associazionismo operaio o di legislazione sociale. Cortesia vuole si faccia astrazione da codesti troppo grossolani equivoci, e si assuma che lo squalificatore abbia attribuita la qualità di liberista a chi davvero è tale e nel campo in cui la qualifica è, nei suoi riguardi, corretta, ad esempio, nel campo del regime doganale. La conclusione è ovvia. Il liberista, nel ragionare sulla convenienza di mantenere, accrescere od istituire il tal dazio su tale merce in un dato tempo e in un determinato paese fa appello alla dottrina del massimo vantaggio collettivo in regime di libertà degli scambi internazionali, come ad una comoda ricapitolazione razionale e storica di tutte le esperienze e di tutti i ragionamenti che in passato in casi analoghi dimostrarono che la franchigia era vantaggiosa ed invece la proibizione o l’ostacolo daziario era dannoso al paese? Costui adopera puramente e semplicemente e legittimamente un metodo stenografico di discorso. Chi non capisce quella stenografia o non ricorda le esperienze ed i ragionamenti che il liberista abbreviatamente riassunse col suo appello alla dottrina da lui ricevuta, ha ragione di farseli ripetere e rispiegare e di obbligare il liberista  a dimostrare che esperienze e ragionamenti si adattano e son validi per il caso oggi discusso. Qui deve essere “superata” soltanto la ignoranza, spesso legittima, dell’ascoltatore ovvero la pigrizia del predicatore liberista. Qui la discussione non verte sul liberismo, ma sul ragionamento addotto stenograficamente a provare il qualsiasi assunto del discorso.

 

 

6. – Ovvero il liberista fa veramente appello al liberismo come ad una prova in sé compiuta, indipendente dalle esperienze e dai ragionamenti di cui la dottrina liberistica in materia di commercio internazionale si compone; ed allora il liberista non è un superato, perché egli è ora e sempre fu, anche quando era a balia, un invincibile scemo, un poltrone intellettuale. È scemo e poltrone colui il quale, avendo appreso sui banchi della scuola una dottrina, se la ficca mnemonicamente in testa, non indugia a penetrarne l’intima sostanza e la ripete pappagallescamente, persuaso di risolvere, con quel pappagallare, ogni problema senza fatica. I poltroni intellettuali disturbano, ma non val la pena di superarli. Come far capire a costoro che non esiste, non può esistere e non esisterà mai un “principio” liberistico, il quale debba essere infallibile norma di condotta agli uomini? Che lo studioso cerca invece di risolvere problemi di massima convenienza dell’individuo, del gruppo, della nazione, di un gruppo di nazioni? Che tal massima convenienza potrebbe astrattamente, in casi bene definiti, essere meglio raggiunto col dazio che senza dazio; che la definizione di questi casi fu fatta precisamente da economisti volgarmente cartellinati come liberisti: Stuart Mill, Marshall, Pantaleoni, Pareto, ecc., ecc., e niente affatto da coloro che si dicono protezionisti? Che se per lo più codesti teorici conclusero, anche in quei casi bene definiti, a favore della libertà di importazione in franchigia di dazio, ciò fecero non per ragioni astratte di principio, ma per considerazioni concrete, applicate, terra terra, di estrema difficoltà di applicazione del “principio” protezionistico? Sicché si verrebbe quasi a concludere, adoperando il linguaggio corrente, che quella protezionistica è una teoria, laddove le massime liberistiche hanno indole pratica? Ma tutto ciò, sebbene raccontato le mille volte (a lungo qui, in Logica protezionistica, saggio di polemica con il più pugnace protezionista italiano della generazione passata, Napoleone Colajanni, a carte 822-872 di La Riforma Sociale del 1913), dai poltroni non fu mai ascoltato, Né inteso. Si concluda dunque che il superamento non è della dottrina liberista, ma dei liberisti scemi e poltroni; ed è dei socialisti, dei protezionisti, dei corporativisti della stessa razza. Sempre ha dato e sempre darà fastidio trovarsi costoro tra i piedi; laddove fu e sarà sempre cagion di gioia discutere con liberisti, socialisti, protezionisti e corporativisti ansiosi di vincere dimostrando l’eccellenza della propria attitudine a ragionare.

 

 

7. – Perché non metterci d’accordo nel dire che i soli «superati», i soli «fuor del tempo» presente sono coloro i quali, invece di mettere al servizio di una tesi il buon senso, il ragionamento logico, l’esperienza passata rivissuta e criticata, si riempiono la bocca di una parola o di un viluppo di parole e pretendono che quella parola o quel viluppo da sole bastino a sostituire buon senso, ragionamento ed esperienza? Giovanni Ansaldo (in Il Lavoro, di sabato 28 aprile 1934) ha divertentemente preso in giro i creatori di una nuova scienza chiamata “urbanistica” la quale avrebbe lo scopo «di disciplinare, di regolare organicamente la vita in comune [di molti o di pochi uomini], nell’equilibrio di tutte le attività, nel giusto rapporto di tutte le energie» e mirerebbe a costruire piani regolatori, che sarebbero «la disciplina della singola città, in quanto organismo vivente e gerarchicamente classificato nel complesso della vita nazionale, ecc., ecc.». Ansaldo si rivolta contro queste solenni parole, auspici e precorritrici di cattedre universitarie, piucché di sensati piani regolatori, e gli par di sentir l’eco di tutta una prosopopea teutonica sulla Sistematische Bearbeitung einer neue organischer Stadtbauwissenschaft; «quando si ragiona alla buona, e ci si dice che, per esempio, anche la nostra Genova deve adattarsi ai tempi, deve mutare, deve rifare i suoi quartieri vecchi, e tutto ciò secondo un piano ben studiato; e ci si dice tutto ciò con garbo, e col rispetto dovuto ad una città come Genova, siamo subito d’accordo; non c’è bisogno di discutere. Ma quando ci si viene innanzi a bandire sia pure in lingua italiana i principi assoluti della Stadtbauwissenschaft, quando ci si viene a dire che le città d’Italia devono essere rimesse all’onor del mondo da degli esperti in

Stadtbauwissenschaft, e ci si fa capire che noi non possiamo parlare perché non abbiamo il diploma in Stadtbauwissenschaft, allora fischiamo la Stadtbauwissenschaft senza neppur l’ombra di un piccolo timore reverenziale».

 

 

8. – Fischio anch’io; fischio il linguaggio solenne misterioso incomprensibile avviluppato, che s’adopera ad enunciar concetti economici semplici e quotidiani. C’è del difficile e del tecnico nella scienza economica; ci son libri che è meglio leggano solo gli iniziati, i quali, per dati problemi e per date maniere di avvicinamento ad essi, possono forse essere, sì e no, una dozzina nel mondo. Ma i problemi economici ordinari, quelli concreti che soli interessano il pubblico, i politici e gli uomini d’affari, non sono per ora trattabili con quegli strumenti d’analisi. Bastano, ma occorrono, il buon senso, il buon senso ordinario dell’uomo che capisce i fatti comuni della vita, ed il ragionamento ben condotto secondo le regole della logica comune. Se, nel campo della vita economica ordinaria che tutti conduciamo, quando si discorre di dazi, moneta, banche, imposte, prezzi, tariffe di salario, cottimi, saggi di interesse, quotazioni di borsa e simili una verità non può essere dimostrata con l’appello al buon senso ed al ragionamento ordinario; quando il contradditore pretende farvi star zitti con l’appello a qualche solenne principio scientifico di liberismo, protezionismo, nazionalismo, pianismo, nuovo idealismo, corporativismo, fischiate sul sicuro; fischiate con irreverenza. Colui non è un vero liberista, Né un vero corporativista. Colui non sa niente, non ha coscienza del suo non saper niente, e va preso a patate marce. Mussolini non ha voluto la corporazione, il ministro e il consiglio superiore per la pubblica educazione non hanno sostituito negli statuti universitari alla tradizionale denominazione di «economia politica» la nuova di «economia generale e corporativa», perché sorgesse una fungaia di prüfezzür o di candidati-prüfezzür ad intronarci le orecchie di pagine, di cui non si sa quale sia il succo od in cui alle vecchie verità od ai vecchi errori, riconoscibili le mille miglia lontano si è data una tinta verbale corporativistica. Essi hanno voluto una cosa seria; ossia a coloro, ai quali è e sarà affidato il compito di cercare

insieme coi giovani la via della verità, hanno voluto additare l’ufficio di interpretare i fatti nuovi, sottoporli ad analisi scientifica e tentare di scoprire le leggi del loro comportamento. Ma all’ufficio non si ubbidisce contentandosi, per pigrizia mentale, di forme verbali esteriori. Anche i fatti nuovi corporativi devono essere analizzati in sede teorica con gli strumenti raffinati della analisi economica moderna; in sede concreta per i problemi correnti applicati, ai quali quegli strumenti non giungano, con il buon senso e con la logica. Così soltanto si appartiene al proprio tempo, che è tempo di religioso rispetto per i problemi i quali, attraverso dura fatica, importa oggi affrontare e risolvere.

 

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