Stipendi e caro-vita
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/02/1925
Stipendi e caro-vita
«Corriere della Sera», 4 febbraio 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 50-54
Il comunicato sulle deliberazioni del consiglio dei ministri rispetto all’aumento di stipendio agli impiegati statali dimostra che il progetto di legge è tuttora in corso di elaborazione e che la formula concreta di esso non potrà essere deliberata in tutti i particolari prima dell’inizio del mese di aprile. Per ora furono affermati soltanto taluni principii generali destinati a regolare la materia, principii che si potrebbero riassumere così:
- 1) Trattasi di un «aumento di stipendio» ; ma non è detto se esso abbia carattere permanente o sia come il caro-viveri destinato a variare in relazione al caro-vita.
- 2) L’aumento di stipendio non riguarda soltanto il personale direttamente dipendente dallo stato, ma tocca anche altre categorie miste come gli insegnanti elementari; e non solo gli impiegati in carica, bensì anche alcune categorie di pensionati.
- 3) L’aumento non pare che debba essere uniforme; essendo dichiarato che esso ha per iscopo di «ottenere in base ai dati dell’esperienza una migliore perequazione sulle condizioni di talune categorie del personale».
- 4) L’aumento non deve essere dato senza corrispettivo, bensì ha per iscopo di «assicurare il massimo rendimento da parte del personale stesso».
- 5) All’aumento di spesa deve corrispondere un aumento di entrate bastevole a coprire il nuovo onere di bilancio.
Chi scrive non può non approvare la cautela con la quale il comunicato governativo, evidentemente ispirato dal responsabile ministro delle finanze, si è limitato a esporre taluni principii generali da tradursi maturamente in formule concrete. Il problema è invece multiforme e non può riassumersi in una delle solite concessioni di caro-viveri. La parola stessa di «caro-viveri» è impropria e mal può essere adoperata per indicare un fenomeno più complesso. Non di caro-viveri si tratta; ma di rincaro generale dei prezzi delle cose necessarie all’esistenza. Se noi supponiamo esatti i numeri indici i quali, con voce quasi unanime, proclamano cresciuto in Italia il costo della vita da 1 a 6, il problema da risolvere sarebbe il seguente: ha lo stato cresciuto nella stessa proporzione lo stipendio – indennità diverse e caro-viveri compresi – dei suoi funzionari? La risposta è difficile a darsi, perché da un lato lo stato spende per i suoi funzionari forse più di sei volte la somma spesa nel 1913-14 e dall’altro lato moltissimi funzionari non hanno visto crescere altrettanto i loro guadagni complessivi – ogni sorta di indennità ed assegni, ordinari e straordinari compresi, prima e dopo – e quelli che se li videro crescere in ragione più alta se ne sono dimenticati. Gioverebbe, a chiarire le idee, che il ministro delle finanze pubblicasse qualche confronto chiaro e persuasivo.
In secondo luogo, non dimenticare mai che, se lo stato deve dare qualcosa ai funzionari in carica, non minori obblighi ha verso gli antichi funzionari ora pensionati. Il maggior numero, la più vicina ed intensa attività dei funzionari in carica non debbono far passare sopra agli uguali diritti dei vecchi pensionati. Qualunque somma il ministro delle finanze intenda poter dare, essa deve essere «equamente» ripartita tra funzionari e pensionati. Sarebbe ingiustizia somma dare in genere ai primi e negare in genere ai secondi; ed è perciò evidente che, essendo il totale delle due categorie maggiore, dovrà piuttosto darsi un po’ meno a tutti, piuttostoché nuovamente dimenticare gli uni a pro’ degli altri.
Quando si dice «equamente» non si vuol dire «ugualmente». Se c’è chi dal 1913-14 ad oggi è passato da 1 a 10, mentre altri passò da 1 a 3, ed un pensionato talvolta rimase ad 1 – parmi che i pensionati provveduti delle massime, ed ora miserande, dato il grado, pensioni di 8.000 lire lorde, nulla abbiano ricevuto – sarebbe ingiusto, ad esempio, dare a tutti il dieci per cento. Crescerebbe la distanza tra gli uni e gli altri e crescerebbe il malcontento. Ogni aumento di cosidetto caro-viveri deve fornire occasione al governo di scemare le eventuali sperequazioni sorte dal disordine monetario degli ultimi dieci anni. Più di caro-viveri, ragion vuole si parli di integrazioni degli stipendi o pensioni che maggiormente rimasero indietro al cresciuto costo generale della vita.
La osservazione ora fatta mi induce a farne un’altra. La distinzione invalsa tra stipendio e caro-viveri, per cui il primo sarebbe qualcosa di stabile ed il secondo avrebbe carattere straordinario è priva di senso comune. Gli impiegati tendono a far rientrare a poco a poco il caro-viveri nello stipendio, sperando così di consolidare per sempre il conseguito miglioramento; e lo stato lotta per concedere di preferenza aumenti col nome di caro-viveri, illudendosi per tal modo di poterli più facilmente ritogliere. Fallaci speranze ed illusioni; ché se la lira si rivaluterà, ossia se il dollaro da 24 lire tenderà a ridursi verso la pari delle lire 5,18, lo stato dovrà non solo abolire il caro-viveri, ma ridurre gli stipendi di un quarto, di un terzo, di una metà, dei due terzi fino al livello del 1914, nel caso che la lira tornasse alla pari coll’oro. Dove troverebbe, in tempi di lira rivalutata, le imposte necessarie a pagare stipendi secondo il metro attuale della lira deprezzata? Per contro, se la lira peggiorasse, nessuna forza umana potrebbe impedire un aumento di caro-viveri e di stipendi in ragione dell’eventuale e deprecabile deprezzamento della moneta cartacea.
La distinzione tra stipendio e caro-viveri ha, di fatto, un semplice valore contabile. Per ragioni di scritturazione, può essere più semplice lasciare relativamente ferma una parte della remunerazione complessiva, a cui si dà il nome convenzionale di stipendio, e far muovere un’altra parte a cui si dà il nome di caro-viveri. Se tizio riceve in tutto 10.000 lire all’anno, di cui 9.000 a titolo di stipendio e 1.000 a titolo di caro-viveri, è indifferente per lui si aumenti il tutto del 10% o il caro-viveri del 100 per cento. In ambedue i casi egli riceverà 1.000 lire all’anno di più.
Quale deve essere il metodo di calcolare l’eventuale aumento? In passato si seguirono alternatamente i più diversi sistemi:
- quello dell’aumento proporzionale agli stipendi e fu quando si crebbero gli stipendi medesimi al disopra del livello del 1914;
- quello della somma fissa, uguale per tutti gli impiegati, come quando si diede a tutti un caro-viveri uniforme di 100 lire a mese;
- quello della somma proporzionale ai bisogni degli impiegati, come allorché si diedero ai coniugati 25 lire mensili per ogni persona della famiglia a carico.
L’ultimo metodo in verità non ha nulla a che fare con le circostanze straordinarie create dalla guerra. Se il principio di pagare gli impiegati non in ragione del loro merito, ma in quella del numero delle persone di famiglia è valido oggi, esso resta valido sempre. Esso si può giustificare con ragioni sociali – incoraggiamento alle famiglie numerose – o industriali – convincimento che l’impiegato con famiglia è più assestato e redditizio dell’impiegato scapolo -;in ogni modo con ragioni permanenti, le quali non hanno nulla a che fare col caro-viveri.
Il caro-viveri o caro-vita porterebbe per se stesso ad una sola conclusione: che lo stipendio – od una parte di esso, se si vuole, per ragioni formali di scritturazione contabile, tenere ferma l’altra – debba variare in funzione del numero indice del costo della vita. Il che oramai è pacifico in moltissime industrie, i cui capi ritengono di avere in tal modo eliminata una cagione potente di malcontento tra i loro dipendenti. L’applicazione agli impiegati e pensionati dello stato di un caro-vita variabile col variare degli indici dello caro-vita suscita una obbiezione: può lo stato crescere le imposte con la stessa facilità con cui gli industriali crescono, in tempi di caro-vita, il prezzo delle merci da essi vendute? Se si dovesse badare all’esperienza passata, converrebbe rispondere di sì; ché il provento delle imposte è cresciuto in ragione più che proporzionale alla svalutazione della lira. Ma non si può dall’esperienza passata trarre pronostici sicuri per l’avvenire; parecchi indizi concorrendo oggi a mettere in luce una tal quale ripugnanza dei tributi a crescere ulteriormente il lor gettito. Non si deve tacere d’altra parte che il caro-vita variabile, il quale dovrebbe essere applicato anche al caro-viveri già vigente, automaticamente tenderebbe a risolvere il problema della riduzione automatica degli stipendi nel giorno in cui la lira dovesse rivalutarsi.
È noto invero come uno dei più formidabili ostacoli contro la rivalutazione della moneta sia la difficoltà somma di ridurre gli stipendi ed i salari in ragione della maggior potenza d’acquisto della moneta. Il problema fu risolto in Germania, non perché si sia rivalutato il marco-carta; ma perché questo fu annullato. Tanto era il disordine generato dalla fantastica svalutazione del marco, che qualunque sistema parve accettabile in paragone dei malanni preesistenti. Ma se si dovesse applicare nei paesi tipo Italia o Francia un sistema di lenta rivalutazione, converrebbe preparare la mente degli interessati all’idea che lo stipendio od il salario non e una quantità monetaria fissa, ma una variabile in funzione di determinati fattori. Il bilancio dello stato non si sottraeva, neppure innanzi al 1914, all’influenza delle variazioni nella potenza d’acquisto della moneta corrente. Il ritmo delle variazioni era meno celere, parlandosi di decenni, laddove oggi si discorre di mesi. Lo stato ha questo di peculiare in confronto all’industria privata: che i suoi movimenti sono lenti. Gli impiegati statali devono rassegnarsi ora a variazioni annue, laddove i salariati privati chiedono variazioni a mesi od a trimestri. Entro i limiti di lentezza imposti dalla formazione solenne e dibattuta dei pubblici bilanci, sembra tuttavia sia ragionevole, e vantaggioso allo stato medesimo, studiare qualche metodo che faccia automaticamente crescere e diminuire i compensi dei funzionari in ragione della variabile potenza d’acquisto della moneta.