Spropositi protezionisti
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/10/1921
Spropositi protezionisti
«Corriere della Sera», 9 ottobre 1921
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 419-423[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 391-395
Inevitabilmente, nelle polemiche politiche ed economiche, si è esposti a male interpretazioni, ed a capovolgimenti del pensiero proprio, che, trattandosi di un infortunio quotidiano, non giova rilevare mai. Sarebbe poco divertente per i lettori e poco conclusivo, poiché nulla irrita di più l’avversario di essere sorpreso in flagranza di svisamento del pensiero altrui e nulla lo dispone maggiormente ad inasprire la contesa. Ma vi è un argomento nel quale questi peccati veniali di polemica diventano mortalissimi; ed è quando Giretti, Cabiati od io ci attendiamo a parlare male della nuova tariffa doganale. Poiché diciamo che la tesi protezionistica economicamente è errata, subito si afferma che noi non ammettiamo mai nessun dazio protettivo; il che è falso, perché la tesi economica è soltanto questa: che bisogna tenere bene gli occhi aperti quando si mettono i dazi; che bisogna tener ben presente che col dazio ci infliggiamo un danno economico, e che quindi il dazio protettivo è ammissibile solo quando sia ben dimostrato che esso ci procura un altro vantaggio economico o ci salva da qualche sciagura politica o militare o di altra qualunque specie. È questione di discutere e di precisare. Ciò che non è tollerabile è che si confondano volgarmente le carte, tentando di far passare per vantaggio generico ciò che è lampante come la luce del sole essere in genere un danno; è che si giustifichi con frasi fatte o con errori manifesti la generalizzazione di un sistema, il quale può essere ammesso solo quando sia limitato a casi specifici, ben chiari e ben precisati.
Che sugo ci sia a difendere i dazi spifferando spropositi, non si capisce. È uno sproposito dire che i dazi sono necessari perché altrimenti le merci straniere inonderebbero il paese e noi non potremmo, nonché vendere all’estero, neppure produrre per il proprio paese. Rincresce che lo sproposito l’abbia ripetuto l’on. Crispolti; ma è proprio da pigliare colle molle. Intanto esso suppone la verità di una calunnia oltraggiosa per gli italiani: che cioè essi non siano buoni a produrre nulla a minor costo degli stranieri. Non passa giorno senza che si vanti l’abilità, la genialità, la laboriosità dei nostri contadini, artigiani, industriali; e poi d’un tratto, appena si parla di dazi, diventiamo buoni a nulla! Questa è calunnia sfacciata e contraria al vero. La mancanza o la deficienza di talune materie prime – né è detto che noi si difetti di tutte – non toglie nulla alla nostra capacità di produrre certe cose ed anche molte cose a miglior mercato degli stranieri. Sono industrie “naturali” ad un paese non solo quelle per cui si fanno le materie prime in casa, ma quelle sovrattutto per cui si possiede la tecnica e l’abilità della trasformazione. L’industria del cotone è naturalissima al Lancashire, sebbene in Inghilterra non cresca una pianta sola di cotone: quella della lana fu naturale a Firenze e quella delle armi a Milano, sebbene le materie prime venissero anche da lontano. Nel Biellese l’industria della lana è divenuta naturale da più di un secolo, sebbene la materia prima locale entri per infinitesima parte nella produzione di quelle fabbriche. Ciò che conta è l’abilità, l’operosità, la diligenza, il genio commerciale; e perché denigrarci tanto proclamandoci buoni a nulla? Perché disprezzare tanto gli industriali e gli agricoltori italiani, da invitarli ad ogni piè sospinto a venire a chiedere a noi economisti che cosa essi dovrebbero fare se scomparissero i dazi? La scomparsa di un dazio di 20 lire a quintale vuol dire soltanto che il prezzo di quella merce tende, ad es., a ridursi da 100 ad 80 lire. Infinite volte sono successi ribassi di questa fatta ed anche peggiori; e, la Dio mercé, l’industria non si è rovinata ed ha ritrovato nelle difficoltà lo stimolo a perfezionarsi ed a produrre a minor costo. In Italia sta oggi attuandosi un processo somigliante. Le industrie erano state corrotte dai facili guadagni della guerra; qualunque scimunito che si fosse trovato a possedere un tornio od un altro congegno, guadagnava denari a bizzeffe. Oso dire che persino i professori d’economia politica, se l’avessero voluto, avrebbero potuto senza disonore mettersi a far l’industriale. Ma è tempo che la bazza finisca; che i balordi, gli incompetenti, i professori sgombrino il campo ed in gran fretta. I bravi, i tecnici abili, gli ardimentosi non verranno a chiedere a noi economisti, stia sicuro l’on. Crispolti, quel che essi devono fare. Scopriranno da sé, con la propria intelligenza, col proprio coraggio, la via di produrre con guadagno.
Ma se anche, per dannata ed ingiuriosa e falsa ipotesi, noi italiani fossimo tanto dappoco da non essere capaci a produrre nessuna merce a più basso costo degli stranieri, se anche tutto, senza eccezione veruna, costasse più caro a produrre tra noi che all’estero, non perciò dovremmo cospargerci il capo di cenere e in massa abbandonare gli inospitali lidi d’Italia. Supponiamo, per ipotesi ridicola che, fulminati dalla nostra inferiorità, noi non potessimo più produrre niente, neppure per vendere all’interno. Quel che a noi costerebbe 10, e non potremmo vendere a meno di 10, gli stranieri lo venderebbero ad 8, a 7, a 5, battendoci in pieno. Che significato avrebbe una siffatta disastrosa ipotesi?
Semplicemente quello che ho già detto: noi non produrremmo più nulla e nulla avendo da dare in cambio, non compreremmo ugualmente nulla dagli stranieri. Avrebbero un bell’aver voglia, gli stranieri, di venderci le loro merci a 5; ma più che la voglia, potrebbe in essi il legittimo istinto di non regalarci addirittura il frutto dei propri sudori. Per darci la merce a 5, pretenderebbero di ricevere da noi altrettanta merce per ugual valore. La si giri e rigiri come si vuole. In qualunque tempo, anche oggi, anche in tempo di guerra e nel dopo guerra, è una stravagante fantasia quella di un popolo che tutto riceve e nulla dà in cambio. I nostri nonni, che l’on. Crispoldi ama raffigurarsi in riso nel leggere la petizione dei francesi del ’48 contro la sleale concorrenza del sole, non scrivevano di queste corbellerie, perché, invece di ridere, avevano letto e meditato le pagine di Bastiat, e quelle di Say e le altre di Ricardo e di Adamo Smith. In Piemonte – l’ha dimostrato Giuseppe Prato in un magnifico libro su l’associazione agraria e l’ambiente scientifico economico in cui sorse e grandeggiò Camillo di Cavour – nel periodo dal 1830 al 1860 l’editore Guillaumin di Parigi aveva tanti associati al suo «Journal des Economistes», dove pure scriveva il Bastiat, quanti in nessun dipartimento francese; a Torino i Pomba fondavano la Biblioteca dell’economista e, affidatala a Francesco Ferrara, trovavano per quei grossi volumi in ottavo grande da 1.000 pagine l’uno più di 2.000 associati. Perciò nei comizi dell’associazione agraria, diffusi anche in piccoli comuni rurali, i verbali delle adunanze fanno fede di una cultura economica diffusa e seria, tanto che uomini ignoti citavano con criterio e con critica i libri dei grandi economisti. Perciò non sarebbe stato possibile, negli anni che preludevano alle riforme liberistiche di Camillo di Cavour, trovar qualcuno tra le classi dirigenti piemontesi che irridesse alla petizione contro il sole di Bastiat e non avesse rispetto verso le dottrine economiche. Sarebbe stato impossibile sentir dire tra noi, salvoché dai meno colti tra gli industriali, a cui il conte di Cavour diede fiere risposte, che era necessario elevar «salde e sicure trincee» di dazi allo scopo di «rafforzare» l’economia nazionale e «ridurre» i costi interni, così da eliminare le differenze di prezzi che oggi la pongono in condizioni di inferiorità verso lo straniero. Sarebbe stato impossibile, perché allora si sapeva che i dazi rialzano i costi di produzione; e posti su un prodotto, si riverberano sulle merci che hanno quei prodotti come materie prime, si trasferiscono sulle merci di ultimo consumo, crescono il costo della vita e provocano rialzi nei salari, che a loro volta producono aumenti nei costi. Non è singolare la posizione logica di quegli industriali italiani, i quali vogliono i dazi, che hanno già ricresciuto dal luglio in poi il costo della vita, e nel tempo stesso vogliono ridurre i salari operai, perché affermano, e giustamente affermano, che l’industria italiana ha bisogno di ridurre i costi per poter concorrere con quella straniera? Ma come si possono ridurre i costi, quando i dazi enormi della nuova tariffa ad uno ad uno rialzano tutti i prezzi? La più grande ricchezza potenziale dell’Italia è la abilità, la operosità, l’intelligenza dei suoi figli. I prodotti in cui possiamo eccellere ed in cui possiamo battere gli stranieri sui mercati esteri sono, accanto a quelli in cui entrano le condizioni favorevoli del nostro clima e del nostro sole, accanto ai prodotti elaborati dell’agricoltura, quegli altri in cui è massima la quota del lavoro e minima la quota delle materie prime. A vincere non basta certo avere le materie prime a buon mercato; occorrono trasporti facili, servizi portuali perfetti, organizzazione bancaria adeguata, concordia tra capitale e lavoro, istruzione professionale, amore al lavoro nelle maestranze, spirito di sacrificio negli imprenditori. Ma importa altresì che i dazi non rincarino artificialmente le materie prime; e per materie prime non si intendono solo quelle grezze, provenienti direttamente dai campi e dalle miniere, ma i prodotti semi – lavorati, che hanno già ricevuto una o parecchie elaborazioni. Passato il tempo dei facili guadagni, oggi bisogna rassegnarsi a lottare nuovamente al centesimo; ed occorre persuadersi che in genere una larga ed estesa tariffa doganale è uno strumento tremendo di rialzo di costi di tutti i coefficienti materiali della produzione ed una causa di disfatta nella lotta per la diminuzione di costi. E, domani, vincerà quel paese il quale potrà lavorare a costi più bassi.