Scienza economica ed economisti nel momento presente[1]
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1950
Scienza economica ed economisti nel momento presente[1]
«Annuario dell’Università degli studi di Torino», anno accademico 1949-50, Torino, Tip. Artigianelli, pp. 27-63
«Giornale degli economisti e annali di economia», gennaio–febbraio 1950, pp. 1-17
«L’Opinione»,19 febbraio 1950, p. 3
«Nuova antologia», marzo 1950, pp. 225-241
In volume autonomo, Torino, Giappichelli, 1950, pp. 37[2]
Non direi il vero se non confessassi candidamente di avere colto volentieri l’occasione di parlare ancora una volta, tenendo il discorso inaugurale dell’anno accademico, nel momento nel quale per limiti di età ne esco, in questa università, nella quale, entrato come studente nel lontano 1991, conseguii la laurea, la libera docenza e poi la cattedra. Lascio questa, dopo alcuni anni di assenza per pubblico ufficio; anni che non furono mai di oblio né per i colleghi carissimi né per gli studenti sia di questo ateneo sia di quella scuola degli ingegneri, abbandonata anzitempo ed involontariamente, nella quale ebbi pure l’onore di insegnare le scienze economiche.
Chieggo venia all’amico Jannaccone, il quale continuò con tanto lustro una tradizione di insegnamento che si onora dei nomi di Antonio Scialoja, di Francesco Ferrara, di Achille Loria e di quello del comune maestro Salvatore Cognetti de Martiis, di aver compreso nel titolo dell’odierno discorso, inaugurale tutta la materia economica, inclusa in essa quella scienza delle finanze, che sempre considerai parte della più ampia scienza economica. Esattamente cinquantun anni fa, un grande maestro italiano, Maffeo Pantaleoni, dalla cattedra di Ginevra enunciava una tesi, della quale l’eco tra noi non è ancora spenta: «che la storia delle dottrine economiche deve contenere soltanto la storia delle verità economiche, ma non già quella degli errori».
La tesi fu, allora, contraddetta dai più; ed invero, se accadeva allora di scorrere qualcuna delle più celebrate sintesi della storia del pensiero economico, quelle, a cagion d’esempio, dell’eruditissimo Cossa o dell’amabile Gide, si aveva l’impressione che le nostre scienze dovessero essere l’eco delle battaglie combattute sui giornali, nei parlamenti, per le piazze e le strade.
Accanto alle antiche scuole rinascevano, sotto nuove denominazioni, vecchie scuole: tra le altre il corporativismo, di cui poi si fece scempio a scopo di dominazione politica. Gli studiosi parevano schierati in eserciti opposti: ottimisti e pessimisti, laudatori e critici dell’ordine sociale esistente, liberisti e protezionisti, individualisti, socialisti e comunisti. Scuole contro scuole, verità contro errore; ma a volta a volta quella che era verità per una scuola appariva errore agli occhi della scuola opposta.
Se oggi Pantaleoni ripetesse quella sua prolusione, vedrebbe grandemente scemato il numero dei contradditori. I battaglianti sociali si interessano scarsamente dei problemi proprii della nostra scienza; e gli studiosi guardano con aria distratta ai contendenti delle piazze e dei parlamenti. Chi scorra gli indici di recenti trattati di economia, di finanza e di statistica non vede più traccia di scuole, non sente più l’eco delle battaglie delle strade, delle piazze e dei parlamenti. Si discute ancora e si discuterà sempre tra economisti; ma si discute di problemi che non fanno più appello alle passioni ed ai sentimenti degli uomini, ai contrasti di popoli e di classi.
Passioni e sentimenti, contrasti e lotte esistono pur sempre e rumoreggiano intorno alle mura del tempio sacro alla scienza: ma entro di esso le voci sono pacate e si discorre di fini e di mezzi, della natura del giudizio economico, di beni materiali ed immateriali, di beni diretti e strumentali, complementari e succedanei, presenti e futuri, di calcoli di utilità ovvero di scelte, di criteri informatori della misura della ricchezza e delle loro difficoltà, di capitale e di reddito, di ricchezza e di benessere, di curve di domanda, di curve di indifferenza, di saggi marginali di sostituzione, di elasticità della domanda, di produttività marginale, di costi fissi e di costi variabili, di economie interne ed esterne, di rapporti fra risparmio ed investimento, di propensione al consumo e di moltiplicatori.
Il laico che 50 anni addietro aspettava di sentire dalla cattedra la soluzione dei problemi di cui discuteva al caffè cogli amici o su cui lo intrattenevano articoli di giornali o discorsi di comizi, che 100 anni or sono affollava le aule di via Po – e sui banchi di quell’aula Camillo di Cavour prendeva appunti per il rendiconto che ne avrebbe dato il giorno appresso nelle colonne del suo Risorgimento – per sentire dalla bocca eloquente di Francesco Ferrara discutere i problemi massimi della libertà economica e politica, quel laico meraviglia oggi contemplando nelle aule destinate all’insegnamento economico professori che sulla lavagna tracciano curve e risolvono equazioni.
La sua meraviglia chiude la polemica suscitata da Pantaleoni. Una curva od una equazione può essere vera o sbagliata può essere più o meno perfetta o rappresentativa; può aprire una nuova strada alla interpretazione della realtà od essere un mero esercizio scolastico; non può dar luogo ad una battaglia di scuole. Se ancor si parla di scuole: di Losanna, di Vienna, di Cambridge, italiana, svedese, americana, la denominazione ha indole retorica.
In verità non esistono scuole; ma studiosi i quali spesso cortesemente e talaltra irosamente, non di rado in amichevole collaborazione e talaltra con gelosia sospettosa, come è costume di tutti gli studiosi in tutti i campi dello scibile, collaborano alla costruzione di un unico edificio. Collaborando insieme, attraverso a contrasti e a polemiche, essi formano ognora più un corpo chiuso, una confraternita di iniziati, che non conosce confini nazionali ed intrattiene corrispondenze a mezzo di accademie internazionali e di riviste scambiate tra i paesi più lontani.
Come tutte le congreghe di iniziati, anche quella economica parla un linguaggio proprio, che allontana i laici e riesce spesso arduo a chi, avendo iniziato il tirocinio economico nel 1893, è ancora abituato al linguaggio della logica ordinaria, da Pareto in poi tenuta in poco conto come letteraria.
Tuttavia i «superati» pur si lusingano di intuire, se non sempre di comprendere appieno, il valore dell’avanzamento continuo che tuttodì si osserva nella scienza economica e che sta nel sostituire a schemi passionali, perché grezzi e parziali e semplici, di interpretazione della realtà, schemi sempre più raffinati e complessi.
Tutto il progresso della scienza economica, al pari, immagino, di quello delle altre scienze, sta nel cercare schemi di interpretazione dei fatti della vita economica, i quali si avvicinino, meglio degli schemi e degli strumenti adoperati prima, alla comprensione della realtà compiuta. Fra i più giovani trattatisti si osserva una impazienza crescente verso la utilizzazione degli strumenti e degli schemi usati anche solo verso la fine del secolo scorso; e taluno ignora volontariamente quelli inventati innanzi alla prima guerra mondiale.
Può darsi che questa sia una necessità imperiosa di studio; e se si poté leggere in una introduzione metodologica dettata da uno dei maggiori storici viventi che non era possibile, per ragioni di tempo e di spazio, tener conto della letteratura anteriore al 1870, così non stupirei di veder ignorata in un moderno trattato di economia addirittura tutta la letteratura anteriore alla rivoluzione detta Keynesiana.
Per fortuna, la confraternita economica è ancora consapevole che la nostra scienza è il frutto di un lento progressivo continuo sviluppo, nel quale nulla si perde di quel che fu un vivo vitale contributo alla costruzione dell’edificio odierno; e come la data di nascita della scienza (al più tardi 1734) è caratterizzata dalla invenzione ad opera di Cantillon di due strumenti i quali col nome di «caeteris paribus»e di «impresa» ancora rendono oggi qualche servizio agli indagatori; e come pochi anni dopo (1750)
Ferdinando Galiani inventava altri strumenti che oggi, col nome di teorema della decrescenza della utilità delle dosi successive dei beni o di valutazione alla grida delle monete diverse da quella scelta come unità di conto, non sono ancora del tutto disusati; così il «tableau oeconomique» dei fisiocrati è o dovrebbe essere ricordato dai costruttori moderni della dinamica economica come il primo, sia pur oscuro e confuso, tentativo di rappresentare il mondo economico non nel suo stare in un certo momento ma nel suo flusso continuo; e chi faccia la storia dello schema più generale e meraviglioso che si conosca di interpretazione della realtà che è quello generale di Walras e Pareto, non può dimenticare dei medesimi fisiocratici il principio di un ordine naturale e necessario, che se poté, presso gli storici della filosofia, essere interpretato come l’eco delle dottrine naturalistiche del secolo XVIII, in realtà era l’anticipazione del teorema per cui tutti i fatti economici son legati tra loro non da un vincolo di causa ed effetto, ma di interdipendenza e di equilibrio, e nulla dura invariato se ripugna agli altri elementi del sistema; ma, mutando uno di essi, gli altri sono costretti pure a variare ed a giungere ad un nuovo equilibrio.
Nulla si perde degli strumenti e degli schemi i quali giovarono parzialmente in passato alla conoscenza del vero; e se correttamente un moderno trattatista afferma che «ogni traccia della influenza di Carlo Marx sulla scienza economica si è oramai perduta» ed in verità la teoria del valore lavoro e del sopravalore non ha luogo alcuno in essa; non così dei teoremi ricardiani intorno al costo di produzione, ai costi comparati, alla carta moneta, che ancor oggi, per contraddizione e soprattutto per perfezionamento, sono alla base dell’insegnamento economico.
Dalla contemplazione dello schema splendente dell’equilibrio generale, per cui tutto nel firmamento economico si tiene e si lega e nulla può essere mutato nel più lontano e minimo mercato senza che quella mutazione si propaghi in tutti gli altri mercati e ne modifichi l’azione, gli economisti, disperati di aggiungere alcunché al quadro d’insieme dei Walras e dei Pareto, si rivolgono di nuovo, ricorrendo per un istante – ma sono istanti che durano decenni e son fecondi di letterature sterminate – all’antico strumento del «caeteris paribus», allo scavo in profondo degli equilibrii parziali; e, con la reverenza dovuta al grande maestro, Keynes prende il posto di Marshall come provocatore di dubbi e produttore di nuovi schemi, i quali, a pochi anni dalla sua morte, già provocano nuovi dubbi e stimolano all’offerta, sul mercato dei teoremi economici, di nuove ipotesi che si affermano meglio adatte ad interpretare il meccanismo delle società economiche.
Come il fisico, come il chimico, l’economista reputa dunque suo ufficio proprio di travagliare alla ricerca di nuovi strumenti, di nuove ipotesi che giovino meglio ad interpretare quel mondo economico in mezzo al quale egli vive. Nell’indagare egli soffre e fatica – in questo senso il nostro grande Francesco Ferrara adoperava un secolo fa, succedendo qui ad Antonio Scialoja nella cattedra economica, la parola «travagliare» – soffre e fatica più del fisico e del chimico; ché a lui manca la possibilità di quel potente mezzo d’indagine che è l’esperimento e deve contentarsi dei mezzi assai meno fecondi dell’osservazione aiutata dall’incerta introspezione e dal ragionamento, i quali possono essere fallaci.
Soffre e fatica, perché i suoi ideali son alti. In primo luogo, non vorrei che i miei compagni di studio fossero fatti da me comparire troppo orgogliosi quando dico che essi hanno, fra l’altro, l’ambizione medesima che ha l’architetto, il pittore, lo scultore, il musicista, il poeta di immaginare, di sentire, di aspirare alla bellezza, di intendere alla costruzione dell’opera d’arte. Mi dicono che ogni grande matematico è anche un poeta; e che egli nel risolvere un’ardua equazione, nello scoprire il nuovo teorema, a cui darà il suo nome, prova il medesimo rapimento di chi dona al mondo un poema o un quadro.
A me non fu dato mai di provare quei rapimenti: ma non ho ignorato i rapimenti che si provano nel leggere talune grandi pagine di Riccardo Cantillon, di Ferdinando Galiani, di Francesco Ferrara, di Davide Ricardo, di Vilfredo Pareto, di Maffeo Pantaleoni, di Filippo Wicksteed, di John Maynard Keynes, dove il ragionamento fino, la logica impeccabile, la intuizione profonda del fatto studiato fanno per un istante credere di aver veduto le ragioni dell’agire degli uomini e fanno provare una gioia della medesima natura di quella che si sente dinanzi al Partenone di Atene, ai templi di Pesto od al cesellato pensiero di Giacomo Leopardi. Intuizione del vero, contemplazione estatica di esso, sforzo di pensiero nel persuadere gli altri della verità novellamente scoperta; che cosa è ciò se non bellezza pura, opera d’arte?
Nella nostra scienza, la bellezza è congiunta, anzi è derivata dal vero. Non affermo nulla riguardo alla natura del bello nell’arte. Affermo che le teorie, gli schemi, i teoremi, sono belli perché sono veri, od almeno perché ai nostri occhi appaiono come approssimazioni successive, sempre più perfette, verso la conoscenza del vero.
Quel che ci rende talvolta orgogliosi, intolleranti, spregiatori è l’aspirazione mai soddisfatta alla conoscenza del vero. Siamo sicuri di perseguire questo culto, solo perché e finchè sappiamo di non sapere. Guai al giorno in cui uno di noi sa. Quando talvolta leggiamo che un tale autore sa, afferma di sapere che la verità è quella e non altra, che colui il quale non crede in quella verità è un eretico vitando, una certezza, un certezza sola noi abbiamo: la certezza del diritto di cacciar via il sapiente, colui che afferma di sapere, colui che afferma di poter insegnare altrui quella verità, di cacciarlo senza pietà colla frusta dal tempio.
Noi apparteniamo alla confraternita aristocratica dei cultori delle scienze economiche solo perché e finché sappiamo di non sapere, perché e finché siamo avidi di imparare; perché e finché teniamo gli occhi aperti intorno a noi per intuire, per apprendere qualche nuova verità o correggere o perfezionare le verità che per un istante avevamo avuto la presunzione di conoscere. Se la consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze ci fa aborrire coloro i quali sanno le cause ed i rimedi del male economico e sociale, non siamo affatto disposti a subire le contumelie di coloro i quali gridano all’impotenza ed al fallimento della scienza economica perché questa non ha pronto lo specifico atto a creare l’abbondanza durante le guerre, ad impedire il rialzo dei prezzi quando si moltiplicano i mezzi di pagamento o difettano i beni di consumo ed è costoso e rischioso trasportarli dalle campagne nelle città od il crescere dei salari nominali non riesce ad eliminare gli effetti dei prodotti scemati.
Mentre i laici gridano al fallimento, gli iniziati esultano; perché solo durante i tempi di difficoltà grandi, di rivolgimenti politici e sociali e, malauguratamente, bellici, essi possono cogliere l’occasione rarissima di disporre di dati di studio, che, pur non avvicinandosi se non lontanissimamente al rigore dell’esperimento scientifico, consentono di isolare in parte alcuni fattori, dei quali essi invano avevano desiderato di conoscere partitamente il comportamento e gli effetti. Non senza un perché le guerre napoleoniche ed il dopoguerra che ne seguì fin verso il 1830 videro il fiorire più rigoglioso che mai si sia conosciuto della scienza economica classica; ed allora Ricardo scrive i Principii e detta le pagine intorno ad una moneta economica e sicura, ché gettarono le basi della teoria della circolazione cartacea; e Sismondo de Sismondi pubblica, occupandosi degli assegnati, la prima analisi scientifica della svalutazione della moneta cartacea; e, dopo levate le sobrie mense mensili, i soci dell’Economic Club di Londra disputano intorno a problemi ancor oggi attuali; e di quelle dispute si ha il ricordo nei carteggi di G.B. Say e di Malthus, il primo dei quali espone la teoria degli sbocchi ed il secondo la critica, insistendo sulla mancanza della domanda effettiva, e Sismondi lo affianca, ricordando la impossibilità dei poveri contadini toscani, a lui familiari, di far domanda effettiva, mancanza che provoca il ristagno nella vendita delle cotonate inglesi; e durante quelle sedute un oscuro impiegato di banca, il Pennington, espone la teoria delle aperture di credito che creano i depositi bancari e non viceversa.
Di nuovo, dal 1914 al 1945, guerre e rivolgimenti ingrandiscono e mettono in evidenza circostanze e fattori che in tempi tranquilli non passavano inosservati, no; ma lasciavano legittimi dubbi intorno al peso della loro azione a causa delle interferenze di altri fattori pur essi rilevanti. Le inchieste e le discussioni intorno ai rapporti fra oro, argento, moneta cartacea fiduciaria ed a corso forzoso, prezzi, salari, profitti, cicli di prosperità, di crisi e di depressione non erano mai cessate durante il tempo che volge tra le guerre napoleoniche e quelle mondiali recenti; e nella letteratura di quel tempo si trovano quasi tutti i germi delle teorie moderne in proposito; ma le dimensioni dei fenomeni erano modeste; ed una variazione dei prezzi o dei cambi del 5, del 10 e del 20% appariva preoccupante ed a lungo si disputava intorno alle ragioni di essa.
Dispute feconde, perché quando tra il 1914 ed il 1945 le variazioni ingigantirono ed i prezzi, ad es. in Italia, non crebbero più soltanto dall’indice 100 a quello 110 o 120 e non diminuirono più solo da 100 a 90 e ad 80, ma balzarono, tra il 1914 ed il 1926, da 100 a 600 e poi tra il 1926 ed il 1930-33 scemarono da 600 a 500; e quindi tra il 1939 ed il 1947 di nuovo crebbero da 100 a 6000, ed ancora, pur riducendosi solo del 10 o del 15 per cento, tracollarono nel 1947 da 6000 a 5000 mentre i cambi sul dollaro si riducevano da 900 a 575; noi non stupimmo più e potemmo studiare, con maggiore sicurezza, le correlazioni tra quantità e velocità della circolazione delle varie specie di monete cartacee e creditizie, prezzi, investimenti, depositi, giacenze di magazzino ecc. ecc.
Se oggi le teorie monetarie e creditizie sono molto più raffinate di un tempo, se esse non sono più un capitolo singolare a sé stante dei trattati economici, ma formano un tutt’uno con le teorie più generali, ciò è dovuto anche alla esperienza della prosperità tranquilla; con variazioni tenui nel livello dei prezzi, del decennio posteriore al 1920 seguita dalla catastrofe della grande depressione fra il 1929 ed il 1932, – che offrì l’occasione di studiare i rapporti esistenti fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e di trarne schemi di interpretazione della realtà e strumenti di lavoro – ad es. il moltiplicatore – dimostratisi utili alla intelligenza di quel breve periodo di tempo e di quegli altri periodi nei quali in avvenire si rinnovassero – ma finora non accadde – le medesime circostanze di impianti industriali esuberanti, di mano d’opera disoccupata e di risparmi abbondanti, timidi ed inoperosi.
Non si dica però che gli economisti sono bramosi di guerre e rivolgimenti sociali per libidine di trovare più ampia materia di studio. Finché essi guarderanno al mondo circostante con gli occhi limpidi di colui il quale va esclusivamente in traccia del vero, non mancherà mai ad essi ampio pascolo di studio anche in tempi tranquilli. Il pascolo sarà anzi più opimo; ché, non più distratti dal rumore delle armi, non più chiamati a raccolta dai governanti per essere aiutati nella soluzione di quotidiani problemi assillanti, gli economisti raccolgono nei tempi ordinari il frutto delle lunghe esperienze del passato.
Se noi infatti guardiamo al tempo relativamente ordinato e pacifico corso dal 1870 al 1914, vediamo che proprio a quell’epoca risalgono le moderne grandi sistemazioni teoriche. In Austria i Menger, i Bohm Bawerk, i Von Wieser, in Inghilterra i Jevons analizzano il concetto dell’utilità economica e sistematizzano attorno alla tabella mengeriana la scienza partendo dai teoremi dimenticati di Lloyd e di Gossen. Un meditante solitario, il Marshall, elabora teoremi lungamente meditati durante ascensioni alpine o nelle invernali tepide giornate trascorse nella siciliana conca d’oro; ed un ecclesiastico, studioso di Ariosto, Philip Wicksteed, emula il suo contemporaneo Pantaleoni nella nitidezza splendente della successione dei teoremi e corollari della esposizione. Sono meditanti solitari gli svedesi che nella quiete operosa delle loro università danno innanzi al 1914 tanto contributo al progresso della scienza; e se nel primo tempo della loro vita il Walras ed il Pareto erano stati giornalisti, propagandisti, ingegneri minerari, né mai dimenticarono i sentimenti e le esperienze dei loro anni più giovanili, fu nelle meditanti passeggiate intorno alle ridenti rive del lago Lemano che essi crearono i sistemi di interpretazione più generale del mondo economico che ancora oggi si conoscano.
Non estranei a nulla di ciò che accade intorno ad essi, sia che i tempi sembrino stazionari e quasi immoti, sia che il barometro economico segni tempesta e mutazioni, gli economisti sono dunque dei puri esteti occupati diuturnamente a studiare gli schemi, gli strumenti, i concetti tramandati dalle generazioni passate; ed a perfezionarli, modificarli, sostituirli perché essi meglio interpretino i fatti già noti o raffigurino i nuovi fatti che l’esperienza della vita ogni giorno crea o trasforma? Confessiamo candidamente che questo e non altro è il nostro ufficio; e che tradiamo il nostro dovere, non adempiamo alla nostra missione quando per disavventura noi consentiamo ad uscire, in qualità di economisti, dal compito conoscitivo, interpretativo, che, come per ogni altro cultore della scienza, è il solo nostro compito.
Naturalmente, essendo noi uomini intieri, come sono uomini intieri il chimico, il fisico, il matematico, il giurista, noi non solo siamo tentati, ma dobbiamo uscire dal nostro campo perché siamo padri di famiglia, cittadini di un borgo, di una città, della nazione, capi di amministrazioni private o pubbliche, uomini politici, difensori di questo o di quel credo politico o sociale. Ma conserviamo la nostra qualità di cultori della scienza, la nostra dignità morale di studiosi; solo se, uscendo dal nostro compito, sappiamo di uscirne. Sarebbe assurdo chiedere all’economista di vivere nella torre d’avorio della scienza pura; assurdo perché egli annullerebbe se stesso, in quanto egli vale solo nella misura in cui è atto a comprendere ed a far comprendere il fatto economico che è un aspetto della vita degli uomini. Ma egli deve anche vivere nella torre d’avorio: sinché dà opera alla ricerca, finché cerca d’intravvedere il comportamento di un aspetto della realtà, non deve avere altro scopo dinanzi a sé fuorché la ricerca del vero, qualunque esso sia, e quali si siano gli effetti che il vero da lui esposto possa avere su lui stesso e sugli altri uomini.
Pronuncia bestemmia atroce chi assegna allo studioso il compito di lavorare a pro di un ceto, di un gruppo sociale, di una classe, di una classe più numerosa, della stessa umanità intera. L’economista non sa, non deve sapere, non deve essere infastidito dalla preoccupazione che i suoi teoremi, i suoi schemi, i suoi strumenti di ricerca servano, o debbano servire ai pochi, ai molti, all’unico, a tutti, a nessuno. Egli inventa teoremi, propone schemi o strumenti o definizioni. Se son fecondi, altri li riesporrà, li modificherà, li perfezionerà. Potrà morire contento di avere recato una piccola impercettibile pietra all’edificio che senza posa si va innalzando e rendendo sempre più maestoso e bello. Tutto sarà finito lì; e sarà fine gloriosa, la più degna augurabile all’uomo di scienza.
Ho detto però che l’economista, essendo uomo, può e deve uscire dal suo campo, purché sappia di uscire. Qual è – forse è la domanda che vedo affiorare spontanea sul vostro labbro – l’ufficio dell’economista il quale esca dalla torre d’avorio? La risposta è ardua perché tutti, uscendo, abbiamo peccato contro il comandamento di non dimenticare di essere usciti da quella torre, che è la nostra dimora e il nostro scudo. Tutti, talvolta, hanno dimenticato, anche i più grandi; non solo il passionale Pantaleoni, ma forse anche l’impassibile Pareto. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Chiedo venia, se, pur ricordando che anch’io ho peccato, oso tratteggiare il compito dell’economista che, uscito dal tempio, si trova sulla piazza dove tumultuano le passioni e gli uomini lottano gli uni contro gli altri.
Il compito gli è dettato dal supremo comandamento morale di non mai tradire quella che a lui è parsa essere la verità. L’economista non è un tecnico incaricato di tradurre in precise proposizioni legislative o propagandistiche il pensiero od il proposito altrui. Se a lui si ricorre come perito o, come oggi si suol dire, esperto, i limiti della sua collaborazione sono posti dall’obbligo che egli ha di non fare o di non dire cosa contraria alla visione sua della verità.
Egli non è, come il giurista che, uscendo parimenti fuori della sua torre, sia patrono di parte nei giudizi civili e penali ed in tale qualità adempia ad una nobilissima missione, il difensore degli interessi o degli ideali di una persona o di un ceto. Nulla vieta che egli apertamente si dichiari tale; e nessuno potrà in tal caso muovergli appunto. Ma se egli tace e lascia credere che il suo pronunciato sia esclusivamente quello dell’uomo di scienza, egli deve ubbidire alla legge morale, la quale gli ordina di dire il vero. Se con una immagine si potesse riassumere il compito dell’economista uscito in piazza, lo vorrei – è un confronto già altra volta da me offerto – paragonare allo schiavo seduto ai piedi del capitano trionfatore in Roma, a cui era affidato il compito di ricordare al vittorioso che accanto al Campidoglio vi era la rupe tarpea.
Una delle più belle pagine dei ricordi del conte Mollien – già ufficiale al controllo delle finanze sotto l’antico regime, educato alla scuola dei Colbert e dei Necker; ma affinato dallo studio dei libri di Turgot, dei fisiocrati e di Adamo Smith, dal 1806 al 1815 ministro del tesoro con Napoleone – è quella nella quale egli, che pur ammirava l’uomo ai suoi occhi grandissimo per la intelligenza potente, per la intuizione prontissima, per la memoria formidabile, per la capacità somma ad organizzare ed a comandare, ne descriveva la propensione, propria di chi non è addestrato al ragionamento economico, ad immaginare progetti atti a risolvere il problema finanziario od economico che in quel giorno lo angustiava.
Mollien, l’economista schiavo, ascoltava compunto il padrone, consentiva nello scopo e nei principii; ma subito a poco a poco iniziava l’analisi e la demolizione della proposta specifica; conducendo l’una e l’altra innanzi così raffinatamente che alla fine l’imperatore restava persuaso di non aver mai concepito l’assurdo progetto da lui primamente esposto ed anzi di essere lui l’autore delle critiche e delle conclusioni a cui artatamente era stato condotto dallo schiavo fedele. Fedele, perché critico. Questo è il rapporto logico naturale tra il politico e l’economista.
Tratti dalla visione immediata dei mali, delle miserie, delle ineguaglianze, della necessità di elevare i loro popoli a più alte condizioni di vita, gli uomini politici sono spinti a fare ciò che essi reputano il bene, a cercare i mezzi per alleviare dolori e miserie, a promuovere spese pubbliche, risanamenti, bonifiche; rimboschimenti, a dare incremento all’educazione ed all’istruzione dei più, a diminuire le cause e la durata delle malattie, ad assicurare a tutti un minimo decente di vita. Lo schiavo economista non nega la bontà del fine, e consente nella necessità di giungere alla meta; aggiunge anzi che non esiste una meta ultima, ma toccata la cima che oggi appare più alta, altre si profileranno all’orizzonte ed anche quelle dovranno essere scalate.
Ma ricorda sommessamente che, dal giorno in cui Dio, nel momento in cui lo cacciava dal paradiso terrestre, ordinò al primo uomo: tu lavorerai col sudore della tua fronte, il principio fondamentale economico fu e rimane e rimarrà sempre la limitazione dei mezzi atti a conseguire i fini numerosi e mutevoli ed ognora moltiplicantisi che gli uomini si propongono. Da un lato aspirazioni, desideri, bisogni indefiniti e non mai sazi; dall’altro mezzi limitati.
Gli avanzamenti della scienza e della tecnica fanno ogni giorno arretrare, in maniere che ogni volta appaiono insperate e stupende, l’ostacolo posto dalla limitazione dei mezzi alla soddisfazione dei desideri umani; ma i desideri dell’uomo corrono di più di quel che non corra la scienza nell’apprestare nuovi mezzi ai cresciuti e nuovi bisogni. Se lo sguardo dell’uomo non fosse così rivolto verso il nuovo e verso l’alto, in che egli si distinguerebbe dalle specie animali? Feconda è perciò la illimitatezza dei desideri umani e causa ultima degli avanzamenti della tecnica. Ma ad ogni istante il limite esiste; ad ogni istante il mezzo usato per conseguire un dato fine non può contemporaneamente essere adoperato per conseguire un altro fine.
Perciò oggi la scienza economica è correttamente definita la scienza delle scelte; ed ufficio dello schiavo economista è di ricordare all’uomo politico che scegliere bisogna; e che nessun giudizio sulla convenienza di far qualcosa, di spendere il denaro pubblico per un dato fine può mai essere un giudizio assoluto; ma è sempre un giudizio comparativo; e che in ogni dato momento, posti i mezzi in quel momento esistenti, un voto positivo a favore di un capitolo di qualsiasi bilancio pubblico o privato vuole necessariamente, per definizione, dire un voto negativo contro un altro capitolo. Verità evidente; ma spiacevolissima a molti politici di tutti i paesi del mondo, i quali desidererebbero contentar tutti e nel tempo stesso non scontentare il contribuente chiamato a pagare le imposte che pur si devono riscuotere se si vuole che l’uno o l’altro fine si consegua.
Lo schiavo economista sa anche che le buone intenzioni non giovano spesso a raggiungere il fine; che, pur chiari i fini e pur esistenti i mezzi, non sempre i mezzi sono congrui al raggiungimento del fine; e che se anche si raggiunga un dato fine, alla lunga quella consecuzione medesima può avere sapore di amaro tosco. Un economista, il cui nome non è ricordato dagli storici delle teorie economiche, e giustamente è trascurato, non potendosi a lui ascrivere alcun nuovo teorema, ma ebbe acutissimo il senso della applicazione delle verità economiche note ai suoi tempi, Federico Bastiat, scrisse un opuscolo: Quel che si vede e quel che non si vede nell’economia politica, il cui titolo potrebbe ancora oggi essere il vademecum dello schiavo economista. Non conta nulla risolvere un problema. Non esistono in economia problemi singoli.
Tutto si tiene nel meccanismo economico. Non di rado il mezzo che si suppone e forse è adatto a risolvere un dato problema, ad impedire il ribasso del prezzo di una merce o di un gruppo di merci, a dare occupazione ad un dato gruppo di lavoratori, ad innalzare il tenor di vita di una categoria sociale, quel mezzo pone ed aggrava altri problemi, rialza e ribassa altri prezzi, con nocumento universale, provoca la disoccupazione di ben più vaste schiere di lavoratori e condanna alla miseria categorie sociali più numerose di quelle con quel mezzo innalzate.
Ufficio ingrato dello schiavo economista è di porre sotto gli occhi dell’uomo politico, dalla sua umanità tratto a fare il bene che si vede, le eventuali conseguenze dannose ultime della sua azione. Può darsi che sotto altri aspetti, di ordine pubblico o di preservazione nazionale, il piccolo bene presente debba essere preferito al maggior danno futuro. Rimane fermo l’ufficio dello schiavo che ricorda a chi deve deliberare che una scelta fra vantaggi presenti e danni futuri deve essere fatta; e fatta a ragion veduta. Vorrei perciò – e qui il mio discorso si rivolge in modo particolare agli studenti – che il fervore rinnovellato di discussione, anche intorno ai problemi economici e sociali contemporanei, di cui mi si dice date oggi prova nelle radunanze dei vostri circoli di cultura e di interfacoltà, fosse tenuto a freno dalla presenza di qualcuno degli economisti schiavi di cui ho parlato dianzi.
Ricordate sovratutto che la battaglia intorno ai diversi ideali sociali che voi professate rimarrà sterile, rimarrà infeconda, apparterrà sin dall’origine al limbo delle cose che mai non furono; ricordate che da quella battaglia voi non trarrete frutti se non di odio distruttivo, se manterrete quelle discussioni nel campo degli ideali da raggiungere, delle buone intenzioni da attuare. L’antico proverbio dice che di buone intenzioni è lastricato il pavimento dell’inferno; vorrei aggiungere che la lotta intorno alle intenzioni, anche ottime, ha per se stessa il risultato fatale di precipitare nell’inferno della discordia e della dissoluzione i popoli che vi si addicono.
Ma quelle vostre discussioni saranno invece feconde per voi di ammaestramenti utili per la vostra condotta futura nella società di cui vi apprestate a diventare il ceto dirigente nei vari campi della vita politica ed economica, se non vi dimenticherete mai di saggiare le intenzioni alla dura cote della limitazione e della adeguatezza dei mezzi scelti per attuarle. Perciò non è degno di rimanere nel sacro recinto della università il giovane che a 20 anni sa già tutta la verità intorno a ciò che si deve fare per salvare il mondo.
È bello l’entusiasmo di chi aspira alla salvazione; ma ad impedire che l’entusiasmo travalichi nel fanatismo, ascoltate lo schiavo economista il quale vi rammenta che gli ideali sono il nulla, sono una quantità negativa se la loro attuazione urta contro la indisponibilità dei mezzi, contro la inadeguatezza di essi o contro il loro uso più urgente per la consecuzione di altri ideali.
Forse l’impazienza dei giovani – e guai se i giovani non fossero impazienti ed entusiasti! – stupisce altresì dinanzi ad una curiosa maniera di comportarsi degli economisti chiamati od autoffertisi a dar consigli a governi od a parlamenti. Per lo più, costoro ripugnano dalle soluzioni diritte le quali prendono nettamente di fronte l’ostacolo e tentano di rovesciarlo.
Ripugnano perché, al pari del costruttore di strade in montagna, diffidano della bontà delle soluzioni rapide e delle strade diritte. Le resistenze e le reazioni atte a mandare a monte qualunque azione, sono troppo forti. Meglio le strade traverse, le mosse aggiranti, le vie lunghe che paiono tornare all’infinito su se stesse. Il politico, il quale voglia il successo immediato, è indotto a guardare di traverso un consigliere tanto freddo e scoraggiante. Scoraggiante tuttavia solo nell’apparenza. Ché lo schiavo economista conosce i limiti delle sue conoscenze. E sa che, quando egli ne esce fuori, entra in un campo ben più vasto e ricco e vario di quel che non sia il già bello e ricco mondo delle scelte fra i molti e varii ed indefiniti desideri, nel quale, con mezzi limitati, egli è costretto a muoversi, a calcolare, a concludere. Egli sa di non recare al politico la chiave della decisione risolutiva.
Egli, appunto perché vive dentro al mondo economico, non ha nessuna simpatia per le interpretazioni economiche della storia. Ben altri, ben più profondi, ben più efficaci sentimenti e passioni muovono gli uomini, per i quali le scelte fra il più e il meno e le leggi della uguaglianza marginale della utilità ponderata dei beni hanno poco peso. Se il politico ha l’intuito compiuto del momento nel quale la nazione vive; se la sua azione risponde alle esigenze, alla volontà matura e ragionata del popolo, troverà nello schiavo economista un mentore, non mai un dottrinario fanatico.
Alla modestia il consigliere è indotto dalla consapevolezza della distanza la quale corre fra gli schemi di interpretazione della realtà da lui assiduamente perfezionati e la realtà intiera, la realtà vivente, per la conoscenza della quale egli nei suoi schemi ha tenuto conto di alcuni dati soltanto, laddove i più gli sono ignoti o malamente e grossolanamente noti. Ufficio suo, non secondo a quello della critica è dunque quello di apprestare i dati, bene scelti ai fini della indagine scientifica, che il politico deve conoscere prima di agire.
Era grande, sotto tale rispetto, la tradizione britannica delle pubbliche inchieste rigorose che precedettero tutte le maggiori riforme monetarie economiche e sociali del secolo tra il 1815 ed il 1914; né la tradizione è del tutto spenta in quel paese. Anche noi abbiamo tradizioni gloriose. L’inchiesta agraria, l’inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno sono monumenti che resteranno. è di ieri in Italia la pubblicazione di una indagine statistica, diretta, con la collaborazione dei migliori economisti agrari italiani, dal nostro collega nella facoltà agraria Giuseppe Medici, sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia.
Da anni, forse da quando l’Italia divenne una, si discute tra noi di riforma agraria; ma sempre si discusse senza conoscere i dati del problema quanti sono i proprietari in Italia? Sono decine o centinaia di migliaia o milioni? Quanta superficie occupano i piccolissimi, i piccoli, i medi, i grandi proprietari? Come varia la distribuzione nelle diverse regioni d’Italia? «Hic sunt leones»: la risposta che si leggeva un tempo sulle carte dell’Africa tenebrosa, era sino a ieri la sola risposta che si potesse dare al quesito.
La più parte degli stranieri da cui talvolta ho occasione di essere intervistato sui maggiori problemi nostri non va – in ciò favorita da una deteriore letteratura giornalistica – al di là della conoscenza derivata dall’antico motto latino: «latifundia perdidere Italiam». Oggi, per la prima volta, noi sappiamo quanti sono i proprietari, quanta terra possiedono distintamente per classi di superficie e di reddito; se sia vero che la Sicilia sia la regione tipica della grande proprietà ovvero del latifondo, che è cosa diversa; conosciamo per la prima volta che cosa sieno e dove sieno situate le maggiori proprietà italiane, che si scopre essere sovratutto concentrate non nel mezzogiorno o nelle isole, ma nella ubertosa e non latifondistica Toscana; impariamo quanta parte (più di un quinto) della terra italiana sia già di proprietà dello Stato, dei comuni o di enti pubblici e con quali risultati economici sia condotta.
Ufficio primo dello studioso non è di imporre al legislatore una sua soluzione del problema della riforma fondiaria o di ogni altro problema sociale; ma di dire ad essi: ecco i dati del problema; e la soluzione alla quale tu giungerai sia quella propria ai fatti nostri attuali indagati con il solo intento di conoscerli nella loro compiuta realtà. Nel campo della conoscenza, lo schiavo economista può in altra maniera ancora servire al politico: chiarendo cioè che il problema è posto in maniera da renderlo insolubile o da condurre a risultati opposti a quelli
desiderati.
Gli economisti hanno appreso dai colleghi matematici che nessun problema può essere risoluto se il numero delle condizioni indipendenti e non contradditorie, che noi vogliamo siano soddisfatte, non sia uguale al numero delle incognite.
Un paese assediato, ad esempio, non può distribuire ad ognuno dei cittadini 400 grammi di pane o di farina al giorno, al prezzo di 50 lire al chilogrammo di pane e 70 per la farina; se, essendo i cittadini 45 milioni e non essendoci la possibilità di far gravare sui contribuenti la perdita, né di introdurre frumento dall’estero, gli agricoltori al prezzo del frumento corrispondente a quel prezzo del pane producono soltanto 50 milioni di quintali invece degli 80 che sono necessari per ubbidire alle condizioni poste di quantità e di prezzo. Occorre mutare i dati del problema: o scemare la razione od aumentare il prezzo; o costringere con la forza – scarsamente efficace – o con allettative di maggior prezzo gli agricoltori a produrre di più, ovvero ottenere in prestito od in dono dagli amici stranieri il frumento mancante.
Gli esempi della impossibilità di risolvere i problemi, quando le condizioni postulate si contraddicono od il loro numero non sia uguale al numero delle incognite, si potrebbero moltiplicare. Se qualche volta si udì e si ode tuttora favoleggiare di battaglie monetarie fra paesi poveri e paesi ricchi, fra paesi capitalisti e paesi proletari, di guerre fra dollaro e sterlina, al luogo delle favole infantili si devono porre sempre (qui sarebbe fuor di luogo persino la riserva del quasi sempre) posizioni insolubili di problemi dovuti a cause esclusivamente interne proprie ad ogni paese che sia costretto a svalutare la sua unità monetaria.
A tanto compito, tanto più arduo quanto più raffrenato dalla consapevolezza, da parte della nostra confraternita, dei limiti delle nostre conoscenze, non forse è impari la scienza economica nel suo stato presente? Per fermo, noi non siamo ingenuamente persuasi che sia possibile codificare la scienza economica in un trattato definitivo. Siamo invece travagliati da sempre nuovi dubbi sulla compiutezza dei teoremi accolti ieri e siamo sospinti dalla critica ad una revisione continua di essi. Ma son critiche e dubbi costruttivi.
Non mai, come oggi, il panorama offerto a chi, distratto da altre cure, per un istante si affaccia avido di sentir almeno l’eco del travaglio scientifico che pur nel campo che era un tempo il suo prediletto, non mai il panorama è apparso tanto luminoso e beneaugurante. Si moltiplicano le riviste di scienza pura ed applicata; risorgono le effemeridi di storia economica, si stenta a tener dietro ai soli titoli di libri e di comunicazioni nei quali sembra contenersi un qualche contributo al progresso delle conoscenze. Tutto il mondo è divenuto un unico cantiere. I nomi di scuole diverse son pallidi ricordi di divergenze di metodo oramai superate.
Non esistono più contrasti decisivi, se non di predilezione naturale verso questo o quel campo di studio; ed ogni metodo è a volta a volta adoperato in ragione della sua adeguatezza alla materia indagata. Pochi osano richiamarsi ai principii od ai metodi di una scuola per difendere una tesi od oppugnare quella avversaria; perché le scuole servono se offrono altrui schemi, strumenti, concetti nuovi e questi, appena offerti, divengono patrimoni universali e nessuno studioso vuole squalificar se stesso rinunciando all’uso di un metodo, di uno schema utile a scoprire nuove verità solo perché il metodo o lo schema è stato elaborato da chi ha lavorato in una università o scuola diversa dalla sua. Perciò le vecchie antipatie tra economisti puri ed economisti storici; fra inventori di schemi e studiosi delle istituzioni sono cessate; ed il rispetto degli uni verso gli altri è pari soltanto alla noncuranza sprezzante con cui tutti insieme d’accordo guardiamo all’improntitudine di coloro che decisi a sottrarsi alla dura disciplina nostra, vorrebbero trasformare una scienza che non posseggono in strumento di propaganda e di lotta per raggiungere fini concreti vantaggiosi a questa od a quella classe, a questo od a quell’interesse particolare. Il fervore della ricerca è siffattamente intenso nel momento presente da turbare talvolta gli spiriti desiderosi di quiete.
Lo studioso che sia stato temporaneamente assente – e quanti non furono durante la guerra incatenati dallo stato ad assolvere compiti ben più urgenti della contemplazione della verità pura! – e ricorda, ad esempio, i semplici pochi tipi fondamentali di mercato che ai suoi tempi tenevano il campo: concorrenza pura, monopolio puro, e, in mezzo, duopolio, oligopolio, monopolio bilaterale; e d’un tratto legge che taluno studioso egregio ha, invece di una mezza dozzina, individuato, ossia analizzato e teorizzato 200 forme diverse di mercato ed altri ne ha elencato 900, è indotto, con la peritanza propria di chi non sa e vorrebbe apprendere, a chiedere: l’analisi spinta a tanta e non chiusa moltiplicazione di tipi giova davvero alla conoscenza della realtà?
L’utilità del moltiplicare modelli o schemi con cui lo scienziato cerca di approssimarsi gradatamente ad una sempre più compiuta intelligenza del vero non sottostà anche essa, come tante altre azioni umane, alla legge della produttività decrescente? Il fervore nella formulazione dei casi o tipi non fa correre il rischio di smarrire, studiando ad uno ad uno gli alberi, il senso e la visione della foresta? Il timido dubbio non vuole tuttavia essere una critica; è un augurio. è sempre accaduto, nella storia dell’avanzamento di una scienza, che le epoche delle analisi particolari si alternassero a quelle delle sintesi; ed è sempre accaduto che gli studiosi dediti appassionatamente alla ricerca della verità, atti a trarre da una idea, da una ipotesi tutto ciò che essa è capace di rendere, ansiosi di analizzare a fondo un frammento della realtà presente o di una vicenda passata; pronti a perfezionare uno schema, un modello, una formula esistente siano più numerosi di quei pochi i quali dagli studi, dalle ipotesi, dalle analisi particolari altrui traggono la sintesi potente, la quale illumina per qualche decennio il cammino degli studiosi.
Non lamentiamoci troppo del resto se i Law, i Cantillon, i Galiani, gli Smith, i Ricardo, i Mill, i Ferrara, i Gossen, i Jevons, i Marshall, i Fischer, i Pareto non si incalzino ogni anno sospingendosi gli uni gli altri e togliendo il respiro ai più umili eppur necessari lavoratori bisognosi di trovare un punto di appoggio, per il momento sicuro, nelle loro indagini particolari.
Se, dopo Pareto, un nuovo punto di appoggio non è ancora trovato, la colpa, felice colpa, è dovuta a ciò che il maggiore innovatore, ho nominato il Keynes, fu sovratutto un iconoclasta. Troppo cercò il nuovo; troppo irrise agli errori dei grandi che non avevano errato se non nel vedere un momento della realtà diverso da quello da lui visto; ed è incerto quale dei momenti fosse davvero il più rilevante; ed è assai dubbio se gli eretici da lui esaltati meritassero di prendere il posto dei classici, il cui contributo era stato consacrato dal tempo.
Quando la sintesi nuova verrà, e verrà sicuramente, essa non distruggerà nulla di ciò che in due secoli di gloriosi progressi è stato costruito. Un grande indagatore delle cause per cui le società umane crescono, si fortificano, grandeggiano e decadono, Federico Le Play – il quale ebbe il solo torto di irridere alla scienza economica, che, al pari dei più che ne parlano male o ne parlano troppo, non aveva mai curato di conoscere – scrisse un giorno una verità solenne: che nelle scienze sociali tutto è stato detto. Il creatore della nuova sintesi, che tutti attendiamo, sarà colui il quale, nulla dimenticando di quel che fu detto ed è ancor vivo nella lenta faticosa elaborazione bisecolare della nostra scienza, offrirà agli studiosi un modello sintetico meglio atto di quelli passati ad interpretare questa nostra realtà economica contemporanea, tanto più varia, tanto più ricca, tanto più complessa della realtà di ieri; ed anche tanto più soggetta a mutazioni, che noi chiamiamo crisi e che gli storici soltanto potranno dire se abbiano condotto l’umanità verso la distruzione o verso mete più alte.
Auguro all’università italiana che, rinnovando la gloria del decennio 1890-1900, faccia già parte della nostra confraternita studiosa o stia per entrarvi colui il quale darà al mondo la nuova sintesi della nostra scienza.
[1] Il 31 ottobre 1949 il prof. Luigi Einaudi usciva, per compiuti limiti di età, dall’insegnamento, tenuto per cinquant’anni negli istituti tecnici di Cuneo e di Torino e, contemporaneamente, prima come libero docente e poi dall’1 novembre 1902 come professore di ruolo, nella università di Torino. Il rettore Mario Allara ed il Senato accademico vollero consentire che egli porgesse l’ultimo saluto a colleghi ed a studenti a mezzo del discorso inaugurale dell’anno accademico 1949-50.
[2] Tradotto nello stesso anno in inglese col titolo Economie science and economists at the presati day; in francese col titolo Science économique et économistes d’aujourd’hui. [Ndr.].