Rivalutazioni e revisioni di fabbricati
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/02/1924
Rivalutazioni e revisioni di fabbricati
«Corriere della Sera», 17 febbraio 1924
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 598-601
La rivalutazione del reddito dei fabbricati è stata ordinata con concetti in generale ragionevoli ed equi. Non sarà male tuttavia che nelle istruzioni siano chiaramente risoluti alcuni dubbi che mi vengono da varie parti segnalati.
Che cosa accadrà delle revisioni in corso? Poiché il decreto provvisoriamente, per il 1925, conferma gli imponibili vigenti, aumentandoli del 300, del 250, del 150 e del 50%, a seconda della data a cui risale l’accertamento, parrebbe ragionevole che le controversie in corso per revisioni parziali annunciate dalla finanza e contestate dal contribuente fossero sospese in tronco, applicandosi senz’altro l’aumento di legge. Si vedrà poi, a partir dall’1 gennaio 1926, se il nuovo imponibile, aumentato automaticamente, sia eccessivo o troppo tenue. Oggi continuare la procedura speciale di revisione equivarrebbe a mettere in situazione deteriore alcuni contribuenti in confronto ad altri.
Che cosa significa la revisione parziale che potrà aver luogo dall’1 gennaio 1926 in poi? L’art. 8 della legge dice che se il contribuente sia persuaso che il nuovo reddito imponibile automaticamente aumentato è superiore di almeno un quarto rispetto al valor locativo del quale lo stabile è suscettibile potrà chiedere la revisione. Lo stesso diritto compete alla finanza se c’è l’inferiorità del terzo. Colla legge fino a ieri vigente si richiedeva, per le revisioni parziali, che l’aumento o la diminuzione fosse dovuta «a causa con effetto continuativo». Adesso l’indagine sulla causa parrebbe abbandonata; né dobbiamo rimpiangerla, essendo in verità poco agevole accertare la continuità di una causa. L’istruzione opererà bene se escluderà in modo tassativo che si abbia a tener conto di aumenti o diminuzioni evidentemente precoci o incerti (ad esempio da esposizioni, fiere, terremoti, ecc.
Sovratutto dovrà escludere che le revisioni parziali, ad iniziativa della finanza, abbiano luogo a caso. Accenno a criteri erronei che occorre scartare: la avvenuta vendita di un immobile che abbia messo in luce un prezzo capitale superiore all’imponibile. Perché rivedere solo quello e non i cento o mille che si trovano nell’identica situazione?
Sarebbe altresì erroneo fondarsi sulla vistosità del reddito di quello speciale immobile revisionato. Ad esempio, potrebbe taluno preferire che si rivedano tutti gli imponibili superiori a 1.000 lire, lasciando in pace quelli al disotto. Ciò può essere comodo per la finanza; ma sarebbe supremamente ingiusto e contrario alla natura dell’imposta sui fabbricati. Questa è un’imposta «reale» che non bada alle condizioni personali del contribuente. Il fabbricato piccolo può essere posseduto da un gran signore; quello grosso da un tale crivellato di debiti o da una società, le cui azioni sono in mano di migliaia di azionisti. Perciò tutti i fabbricati, grossi e piccoli, debbono essere trattati alla medesima stregua. Ciò potrà dare molto lavoro e molto fastidio ai funzionari delle imposte; ma questi sono benemeriti solo perché e sinché si pigliano fastidii e li sciolgono con equità. Se le revisioni parziali del 1926 volessero dire revisioni solo per gli imponibili superiori a una certa cifra, sarebbe meglio abolire l’imposta sui fabbricati. Essa tenderebbe infatti a diventare una brutta copia di una parziale imposta personale sul reddito. Imposta per imposta è sempre preferibile l’originale alla brutta copia.
Del resto, ho citato queste ipotesi, allo scopo di procedere per assurdo. A nessuno può venir in mente di procedere con criteri così balzani. Invece parrebbe ragionevole procedere sistematicamente; a sezioni. Una città può essere divisa in zone, ad esempio cinque, determinate dalla ubicazione economica. I funzionari ogni anno concentrerebbero il loro esame su ogni zona; farebbero paragoni e calcoli generali; li applicherebbero ai casi singoli, in modo da sollevare i meno tassati e da abbassare gli altri. La revisione generale contemporanea, nella cui possibilità io non credo, sarebbe costituita da successive revisioni parziali annue, che per la loro estensione, equivarrebbero a quella. Siamo, fortunatamente, giunti a un tal punto nell’assetto del bilancio che il problema capitale torna ad essere quello che era prima della guerra: perequare, mantenendo fermo o crescendo di poco il gettito totale. La circolare più urgente del ministro delle finanze sarebbe quella che dicesse ai suoi ispettori superiori e quindi a tutti i funzionari: sarà onorato e premiato di più non colui che avrà fornito un incremento qualunque di reddito, ma colui, che, lavorando apparentemente a vuoto, avrà, con buone e documentate ragioni, mutata la distribuzione della somma precedente d’imposta. Perché costui solo in apparenza avrà lavorato a vuoto: in realtà avrà contribuito potentemente all’elasticità del bilancio e lo avrà reso capace di sforzi stupendi. A quando la circolare?
Essa sarebbe logica, se venisse dalla penna del ministro che ha decretato il blocco delle sovrimposte ed ha ridotto dalla sguaiata varietà precedente al 16% uniforme l’aliquota dell’imposta di stato sui fabbricati. Che cosa infatti vogliono dire blocco e uniformità dell’aliquota se non perequazione?
Rispetto al blocco, la istruzione futura dovrà chiarire una certa nebulosità del testo del decreto. Molto chiaramente il ministro nella relazione scrive che «per effetto del blocco le rivalutazioni non si ripercuotono con aumento alcuno sulla massa delle sovrimposte». Il che vuol dire che, se un comune incassava 10 milioni di sovrimposta su un reddito imponibile di 20 milioni di lire, ove per effetto delle rivalutazioni e delle revisioni il reddito imponibile aumenti a 40 milioni di lire, la sovrimposta comunale rimarrà ferma a 10 milioni. La percentuale discenderà dal 50 (10 su 20) al 25% (10 su 40). Ciò è naturale, ciò è sensato. Solo in un mondo di pazzi tributari, quali eravamo diventati, si poteva supporre possibile ai comuni incassare, essi soli, il 50% del reddito. Bisogna avvicinare i redditi alla realtà, ma avvicinare nel tempo stesso le aliquote alla sanità mentale.
Se ciò è chiarissimo nella relazione, è forse un po’ meno chiaro nel testo: «Per le sovrimposte locali non potrà in ogni caso eccedersi la misura deliberata nell’anno 1922 per l’anno stesso o quella minor somma a cui le sovrimposte siano state ridotte per gli anni successivi». È abbastanza chiaro che il legislatore ha voluto dire somma o cifra assoluta, ad esempio 10 milioni di lire; non ha voluto dire percentuale, ad esempio 50%. Mi dicono però che taluni amministratori comunali vanno già cavillando intorno alla parola misura e sperano che il ministro voglia ad essi consentire di conservare l’identica enorme percentuale nonostante i redditi imponibili siano aumentati o triplicati. Una perentoria risposta negativa sarà utile sia scritta nelle istruzioni a tagliare corto a vane ed inique speranze.