Resistere alle imposizioni
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/01/1920
Resistere alle imposizioni
«Corriere della Sera», 11[1], 15[2] e 18[3] gennaio 1920
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 560-569
I
Lo stato deve cedere sempre?
Noi crediamo che sia giunto il momento di ricordarsi che esiste uno stato in Italia e che la sua esistenza è necessaria. Contro gli assalti che allo stato si muovono, contro la minaccia dello sciopero dei ferrovieri se entro il 15 gennaio il loro ultimatum non è accettato, bisogna che lo stato, bisogna che la nazione resistano virilmente, accettando anche ad occhi aperti l’eventualità di dover fronteggiare le conseguenze della resistenza.
Non possiamo in un articolo generale discutere tutte le domande dei ferrovieri. Può darsi che alcune di esse siano giustificate. Altre non lo sono affatto, neppure ad una prima e fugace lettura. I ferrovieri sono già ora, a parità di coltura, i privilegiati tra i funzionari dello stato: godono di stipendi maggiori, hanno una carriera più rapida, il loro trattamento di quiescenza è più favorevole di quello in uso nelle altre amministrazioni pubbliche: le trattenute per imposta di ricchezza mobile non sono, ingiustamente, applicate a certe loro competenze, o sono applicate in misura minore che agli altri impiegati. Alla porta d’ingresso nella carriera ferroviaria vi sono sempre moltissimi aspiranti; e quei ferrovieri i quali furono in passato licenziati piatirono a lungo per essere riammessi in servizio.
Se oggi le loro domande fossero intieramente accolte, la sperequazione a danno delle altre categorie di funzionari pubblici crescerebbe a dismisura. Limitandoci ad alcune funzioni paragonabili e trascurando i compensi accessori, sempre più larghi per i ferrovieri, un segretario di ministero, con laurea, comincia la sua carriera a 4.000 lire e la finisce a 10.600; un professore di scuola media la comincia pur esso a 4.000 e la finisce a 9.600. Nelle ferrovie, non diciamo gli ispettori, che sono la categoria paragonabile a quelle ora citate, ma il personale di ufficio, di coltura e titoli minori, avrebbe stipendi più elevati: i segretari da 6.800 a 12.500, gli scrivani da 5.600 a 10.000. Scrivani – molti sono scrivane – si può diventare con studi modestissimi. Gli uscieri dei ministeri cominciano con 3.200 lire di stipendio; gli uscieri ferroviari cominciano da 5.800 ed anche gli inservienti prendono le mosse da 5.400; e si può finire uscieri con 9.700 lire, ossia con stipendi superiori a quelli di molti ingegneri, professori, funzionari di concetto anziani di altre pubbliche amministrazioni.
Dinanzi a domande, le quali renderebbero necessario un gravissimo ulteriore aumento delle tariffe ferroviarie, deve essere consentito discutere. Lo stato deve preoccuparsi non solo del baratro finanziario che si apre nel bilancio delle ferrovie, ma delle ripercussioni di malcontento che il confronto inevitabile farà nascere nelle fila degli altri funzionari dello stato. È una serie interminabile di agitazioni in tutte le categorie di impiegati, è un nuovo aumento di miliardi del disavanzo che l’accettazione delle domande dei ferrovieri provocherebbe. Perché, con la minaccia dello sciopero fra pochissimi giorni, si vuole impedire di discutere richieste gravide di conseguenze tanto profonde e vaste?
La minaccia vuole dire: lo stato deve cedere sempre, ad ogni costo, alle imposizioni dei suoi funzionari organizzati; lo stato deve ridursi in balia dei servitori pubblici i quali hanno in mano i più delicati meccanismi della vita nazionale. Purtroppo i progressi tecnici ed economici fanno oggi dipendere la vita di ogni paese moderno dal funzionamento preciso, continuo di particolari industrie, di speciali organi che si trovano collocati nei punti attraverso a cui devono passare merci, uomini, comunicazioni epistolari o telegrafiche. Pagare pedaggio a coloro che si trovano su questi punti è giusto: perché essi lavorano e rendono servizio altrui. Pagare un pedaggio tale che equivalga ai compensi normali in altri lavori, è giusto. Ma assoggettarsi a pagare a braccia alzate quanto piace al pedaggiere di chiedere, no. A questo punto diventa doveroso resistere se non si vuol far ritornare la pubblica finanza ai tempi della tenebra medievale più profonda. Se non si vuole ridurre il paese e gli stessi ferrovieri alla miseria, occorre discutere ed occorre che il potere di deliberare sia lasciato agli organi competenti, rappresentanti degli interessi generali e cioè al parlamento. Che cosa si direbbe se i risparmiatori inferociti di vedere i loro sudati risparmi finire inghiottiti nella voragine del disavanzo ferroviario o postelegrafonico, proclamassero lo sciopero dalle sottoscrizioni al prestito nazionale? Che cosa si direbbe, se i contribuenti stanchi di lavorare per produrre le somme necessarie a pagare le imposte, con cui si pagano gli stipendi ai pubblici funzionari, si unissero in lega di resistenza e proclamassero lo sciopero dalle imposte fino a quando non siano stati licenziati tutti gli impiegati i quali non rendono abbastanza in confronto al loro costo? I primi a gridare sarebbero i socialisti e gli organi di classe degli impiegati; ed anche noi diremmo alto che la condotta dei risparmiatori e dei contribuenti sarebbe antipatriottica ed incivile perché non col mezzo dello sciopero, ma con l’arma delle elezioni e con quelli della pubblica discussione oggi si deve influire sulla cosa pubblica nel senso di una maggiore economia, di una severa gestione, di una riduzione nelle funzioni e nei funzionari inutili dello stato. Ma la regola, che è buona per i risparmiatori e per i contribuenti, deve essere valida anche per i funzionari, per i ferrovieri. Nessuno deve minacciare lo stato; tutti devono poter discutere, attraverso gli organi legali dello stato, delle questioni di proprio interesse.
Né dicano i ferrovieri che la discussione è impossibile con lo stato e che la colpa del disavanzo è della mala amministrazione per cui il personale è male guidato, peggio utilizzato, e nonostante tutta la sua buona volontà non è posto in grado di dare un adeguato rendimento. Nessuno più di noi, che abbiamo condotto e tuttora conduciamo una viva campagna per la riduzione della circolazione, la riduzione dei cambi e il fermo al costo della vita, siamo consapevoli della necessità di una azione energica dello stato a favore di un miglioramento nelle condizioni di vita delle classi che soffrono. Ma tra le classi che più soffrono noi non mettiamo i ferrovieri i quali, per confessione di uno di loro, hanno avuto in media aumenti di paga del 127,50% in confronto al 1914. Ribassando il costo della vita, lo stato avvantaggerà sovratutto le classi che non hanno avuto aumento alcuno e quelle che ebbero aumenti solo del 20 e del 50 per cento. Quelle che ebbero aumenti superiori al 100% forse si troveranno in una condizione di favore in confronto al 1914. Né ce ne lamenteremo. Anzi saremo lieti che le sorti di grandi masse di servitori dello stato si avvantaggino. Purché della loro posizione strategicamente favorevole i capi di essi non si servano per eccitare il malcontento delle masse contro una pretesa incapacità a discutere dello stato, per trovare pretesto a intimare l’accettazione di domande rovinose entro pochissimi giorni.
Rovinose, diciamo. Sovratutto moralmente. I ferrovieri, i quali pretendono che la causa del disavanzo non sono gli alti stipendi ma la cattiva amministrazione, quale aiuto danno a migliorare questa? Essi chiedono, ad esempio, fra l’altro, l’abolizione delle multe, che dovrebbero essere sostituite dai diversi gradi di censura. Chiedono la soppressione di ogni aumento anticipato o di merito. Ossia chiedono che siano soppressi alcuni degli ultimi freni alla indisciplina e degli ultimi premi alla laboriosità , di cui dispongono i dirigenti. Solo l’invidia, il desiderio del pareggiamento dei cattivi ai buoni, la brama di distruzione di ogni autorità che non sia quella del capolega, possono spiegare due domande così insane. Come possono pretendere i ferrovieri che lo stato, a occhi chiusi, in cinque giorni, firmi la sentenza di rovina dell’azienda ferroviaria? Discutere sull’onesto e sull’utile è necessario; ma resistere ai ricatti è doveroso, se si vuole che lo stato si salvi.
II
Bisogna discutere!
La proclamazione improvvisa dello sciopero dei postelegrafonici ha commosso l’opinione pubblica perché questa vi ha veduto una sfida alla sola e ragionevole richiesta che unanime essa aveva rivolto agli interessati: consentire che una larga, proficua discussione avvenisse. Non si chiede troppo, quando ci si contenta di sapere dati e fatti precisi su un argomento che interessa tutto il paese: il bilancio dello stato, i contribuenti, il commercio, l’industria, i cittadini in generale. Altre categorie di pubblici funzionari hanno trovato favorevole ascolto presso il pubblico, perché hanno recato dati precisi, dimostrazioni evidenti del loro malessere e dei loro bisogni. Da parte dei postelegrafonici e dei ferrovieri manca la volontà di illuminare il pubblico. Sui giornali che rispecchiano i loro interessi, si leggono cifre non verosimili: ad esempio, che la media mensile del telegrafista (minimo 260, massimo 530 lire) non giunge a 400 lire; che i fuochisti guadagnano da 1.350 a 2.400 lire all’anno, ed i macchinisti da 1.860 a 3.600 lire, oltre l’aumento da lire 1.000 a 1.500. Qui non sono calcolate le ore straordinarie, le competenze accessorie, le indennità varie, e non si capisce se sia tenuto conto del caro-viveri. La cifra nominale dello stipendio in moltissimi casi non ha alcun valore. Quella che conta è la cifra del guadagno totale netto che, sotto qualsiasi forma e con qualsiasi denominazione, un funzionario porta a casa durante l’anno. Devesi, s’intende, tenere conto dell’importanza, della durata e della intensità della prestazione; ma non bisogna portar innanzi dati monchi o reticenti che insospettiscono e inquietano il medio cittadino e contribuente, al cui contributo di imposte sostanzialmente si fa appello.
Il medio cittadino, a ragione od a torto, ritiene che i guadagni complessivi dei postelegrafonici e dei ferrovieri non siano così bassi come essi affermano. Egli quindi ha appreso con indignazione – è la parola adatta – la notizia dello sciopero proclamato dai postelegrafonici. Nessuno afferma a priori che essi abbiano torto nelle loro richieste; nessuno però è disposto a sottostare ad occhi chiusi alle imposizioni intimate colla rivoltella dello sciopero in mano.
Una parte della colpa è , fa d’uopo riconoscerlo, anche del governo, il quale non ha illuminato il pubblico con comunicati precisi sulle richieste degli impiegati, sulla loro portata finanziaria, sulle controfferte del governo.
Pare che il governo avesse consentito alla più gran parte delle richieste dei postelegrafonici. Aveva consentito ad equiparare la carriera degli appartenenti alla prima ed alla terza categoria a quella dei corrispondenti funzionari centrali. Non aveva intieramente accolta la equiparazione dei funzionari della seconda categoria ai ragionieri dei ministeri, perché i primi – gli ufficiali postali e gli ufficiali d’ordine – per la loro origine, per i loro studi, per le loro mansioni non possono equipararsi ai ragionieri dei ministeri. Aveva però offerto un aumento di stipendio di lire 600 o 700 invece delle 1.000 richieste. La distanza non era molta ed i motivi addotti dal governo per rifiutare l’equiparazione erano seri. Perché il governo su tutte queste trattative non pubblica un ampio comunicato spiegativo?
Lo stesso dicasi del problema delle ore straordinarie, una delle piaghe dell’amministrazione postale. Adesso sono pagate lire 1,25 l’una per gli impiegati della prima categoria e lire 0,75 per quelli della seconda. Durante le precedenti trattative erasi da ambe le parti riconosciuta la convenienza di aumentare piuttosto lo stipendio che non il compenso delle ore straordinarie, sia perché queste rendono poco, essendo le ultime ore della giornata, sia perché era parso opportuno non crescere lo stimolo a lavorar poco durante l’orario ordinario, per aver pretesto a fare molte ore straordinarie. Era un concetto giusto perché occorreva scoraggiare uno straordinario voluto dal personale, e rispondeva ad un più alto senso di dignità umana. Improvvisamente questa volta, il personale chiede che il compenso venga portato da 1,25 e 0,75 lire a 2,75 e 2 lire. Il governo va, contraggenio, sino alle 2,25 e 1,50. Ciononostante, lo sciopero viene proclamato. Perché il governo non chiarisce il punto e non chiama a giudice il paese?
Perché, in questi frangenti, il ministro delle poste e telegrafi va a commemorare Crispi a Palermo? Crispi poteva aspettare ancora qualche giorno. Il paese non aspetta. Vuole sapere la verità , vuole formarsi una convinzione precisa intorno al punto se lo sciopero dei postelegrafonici sia stato proclamato per valide ragioni economiche. Si sta oggi compiendo in Italia la grande impresa del sesto prestito nazionale, al cui esito gli stranieri, alleati ed ex nemici, guardano. L’interruzione dei servizi postali potrebbe riuscire di nocumento al successo, il quale dovrebbe stare tanto a cuore a tutti gli impiegati.
Il governo deve agire con energia e con risolutezza. Deciso a rendere giustizia, non può ammettere che si radichi l’opinione che la giustizia sta solo nella forza delle organizzazioni e nel loro sovrapporsi alle autorità dello stato. Deve cessare lo spettacolo che i capi delle organizzazioni postali e di quelle ferroviarie, anche se, come impiegati, non compiono il loro dovere o non lo compiono regolarmente, siano non solo tollerati, ma ossequiati e trattati con reverenza. Ciò non può non crescere forza allo spirito di indisciplina e spingere ad agitazioni continue. Bisogna invece incoraggiare e premiare gli impiegati volonterosi, quelli che, per fare il loro dovere, sapranno sfidare l’impopolarità e le minacce. Non si vuole il crumiraggio; si vuole solo che il servitore dello stato non dimentichi mai che il suo primo dovere è di far funzionare il servizio pubblico che gli è affidato; e che il sabotarlo, che l’abbandono del lavoro non è un atto di guerra contro il capitalismo, ma una offesa all’interesse generale, una sfida alla collettività . Prima, importa reprimere, frustrare il tentativo di rivolta contro lo stato. Poi, a ragion veduta, si renderà giustizia a tutti, agli impiegati ed ai contribuenti. In nessun paese civile è permesso al privato di farsi giustizia da sé. Ma tutti debbono, per ottenerla, sottoporsi alla legge comune.
III
Prima tassare i profittatori!
«Come può lo stato negare ai postelegrafonici pochi milioni, ai ferrovieri alcune, poche o parecchie, centinaia di milioni di lire quando esso non ha ancora osato pigliare i milioni dove sono, non ha osato toccare le ricchezze lucrate con la guerra, quando non ha ancora voluto fare la minima indagine sul modo con cui si sono spesi o sperperati i miliardi della guerra?»
Con questa domanda taluni giornali continuano nella loro opera sottile e velenosa di eccitamento all’odio, di indulgenza alle domande più stravaganti, pur di servire alla propria vendicativa passione di recriminare contro il grandioso fatto storico della guerra.
L’unico risultato pratico di tal modo di porre il problema è di spingere il governo a crescere le spese pubbliche, ad allargare il baratro entro cui taluni sperano abbia ad inabissarsi la finanza italiana per aver agio a dir dopo: «Avevamo ragione noi a non volere la dichiarazione di guerra nel maggio del 1915!» A seguir tale logica, bisognerebbe accogliere tutte le domande di nuove spese, a milioni ed a centinaia di milioni, solo perché si sono spesi miliardi durante la guerra e si pretende siano stati spesi male. Fosse pur questa la verità, il che non è conforme a verità e in notevole parte è probabilmente indimostrabile nonostante qualunque inchiesta – quale assurdo è la pretesa di una guerra condotta senza errori, quando da che mondo è mondo la vittoria è sempre stata, diceva Napoleone, che se ne intendeva, di quella parte la quale ha commesso, alla stretta finale, il minor numero, minore anche di poco, di errori strategici, tattici, politici ed economici? – non ne discende la conseguenza logica che si debba continuare a spender male. Anzi la logica insegna il contrario: quanto più si è speso, per ipotesi, male prima, tanto più presto bisogna mutar sistema, se non si vuole andare in rovina. Tanto più presto bisogna metter testa a partito, ridurre le spese, e spendere ragionevolmente: molto, dove occorre spendere molto e con utili risultati, nulla dove la spesa sarebbe inutile o dannosa.
Ma v’è di più. L’on. Nitti si è levato con indignazione e con fiere parole contro coloro i quali pertinacemente accusano il governo di non aver voluto o saputo adempiere al suo dovere di fare sul serio una riforma finanziaria, capace di risanare la finanza; contro chi calunnia il governo italiano per non aver saputo tassare le fortune create con la guerra. Egli e l’on. Schanzer, alla camera ed al senato, hanno dimostrato che, fuor dei paesi vinti, obbligati a pagare indennità gravose, fuori anzi della Germania, la quale tuttavia ha concesso da 30 a 50 anni di tempo a chi deve pagare l’imposta sul patrimonio, nessun paese ha stabilito imposte così forti come l’Italia sulle ricchezze create dalla guerra: fino al 67% sui sovraprofitti di guerra, con la vigente imposta sui sovraprofitti, e fino al 60% su ciò che resta con la recente imposta sugli aumenti di patrimonio; in totale fino all’87% dei guadagni di guerra. Quelli che la pagano, dicono che si tratta di una spogliazione e di una spogliazione in molti casi produttrice di gravi dissesti. Quelli che non la pagano hanno il dovere di astenersi dall’affermare cosa profondamente lontana dal vero, ossia che l’imposta, da essi desiderata, non esiste e deve ancora essere decretata. Dicendo cosa tanto contraria al vero, ingannano, traviano ed esasperano ingiustamente il pubblico. Essi avrebbero il dovere di segnalare i difetti concreti della legge vigente, proporre le riforme precise da introdursi nei testi di legge, indicare i metodi pratici ed efficaci per accertare i guadagni sfuggiti all’applicazione della legge vigente, collaborare con lo stato, indicando alla finanza nomi e cifre di arricchiti non tassati. Solo così si adempie al proprio dovere; non gridando che non esiste una imposta che invece funziona ed è la più alta di tutti i paesi vincitori.
Ben a ragione l’on. Nitti si è elevato con ira contro un’altra calunniosa accusa rivolta al governo: quella di non avere osato proporre una riforma tributaria atta a risanare le finanze. La verità invece, incontrovertibile, è che in Europa, dopo le grandi riforme di Roberto Peel in Inghilterra nel 1842 e di von Miquel in Prussia nel 1891, nessun disegno di riforma dei tributi sul reddito e sul patrimonio è stato decretato il quale uguagli per profondità e vastità quello portato dai reali decreti del 24 novembre 1919. Qual carità di patria urge coloro i quali vanno gridando che in Italia non si fa nulla, quando invece si è iniziata una riforma destinata, se la si conduce a termine, se la si completa, se non la si deforma, ad assidere la finanza nostra su basi granitiche? Si indichino i difetti che viziano i decreti, si propongano le necessarie modificazioni. Noi abbiamo cercato a questo proposito di fare il nostro dovere con segnalazioni precise di errori e di varianti. Tutti possono in questo campo rendersi benemeriti del paese.
Affermare, allo scopo di eccitare il malcontento delle masse e spingere il bilancio alla rovina, che non si è fatto nulla, non è solo contrario al vero, non è soltanto calunnioso, ma è dannoso, come è sempre dannosa la retorica, al credito del paese, in un momento in cui il paese ha bisogno urgente di credito, e le nazioni straniere hanno gli occhi fissi su noi per vedere quale è l’opera nostra e quel che noi siamo capaci di fare.