Recensione – Antonio Graziadei, La produzione capitalistica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1898
Recensione – Antonio Graziadei, La produzione capitalistica
«La Riforma Sociale», dicembre 1898, pp. 1173-1176
Antonio Graziadei: La produzione capitalistica, XIX° vol. della “Biblioteca di Scienze sociali”. Fr. Bocca, Torino, 1899.
Uno dei fenomeni più interessanti i quali abbiano contrassegnato la storia del marxismo negli ultimi anni è l’inizio di una vera e propria auto-critica sui concetti fondamentali svolti dal suo capo-scuola. Per lungo tempo dopo il 1867, anno della pubblicazione del “Capitale”, questo fu considerato come un vangelo indiscusso, che le masse dovevano contemplare chiuso sotto sette suggelli ed i dotti dovevano contentarsi di commentare, parafrasare e sunteggiare.
Da alcuni anni però, nelle file degli stessi socialisti marxisti si è insinuato uno spirito di critica e di combattività intorno ai punti fondamentali del pensiero teorico del Maestro, spirito che pareva essersi spento da lungo tempo. Esempi notevoli di questo indirizzo auto-critico sono gli scritti del Bernstein in Germania, del Sorel in Francia ed anche, benché non in campo precisamente socialista – marxista, del Croce e del Merlino in Italia.
Mancava però ancora un libro che queste tendenze sintetizzasse in una forma rigidamente severa e precisa, un libro che partendo dalle stesse premesse economiche della scuola classico – socialista ne purgasse le deduzioni logiche dagli errori molteplici che vi si erano infiltrati e compiesse una analisi approfondita dei fenomeni della produzione capitalistica la quale fosse in armonia (e non in stridente contrasto come quella del Marx) coi fatti più inconcussi e più limpidamente dimostrati della vita economica contemporanea.
Uno di quella eletta schiera di giovani che per un complesso di ragioni psicologiche e sociali[1] dedicarono tutte le proprie forze intellettuali ed attive alla causa socialista, ha scritto questo libro; e tutti coloro i quali desiderano che nessuna scuola, anche se avversaria, si sterilizzi in una contemplazione feticista di un immobile vangelo, dovranno essere grati ad Antonio Graziadei di avere confutato l’accusa, finora vera, rivolta da molti pensatori al marxismo: di non avere prodotto nessun’opera degna di meditazione dopo il primo volume del “Capitale” di Marx.
Un brevissimo cenno del contenuto del libro del Graziadei basterà a metterne in luce la grande importanza per il socialismo teoretico e per la scienza economica.
È noto come per il Marx il valore delle merci sia determinato dal lavoro necessario alla loro produzione; ed è noto del pari come questa teoria si sia dimostrata contradditoria alla più evidente realtà dei fatti e sia stata abbandonata dai più eminenti pensatori della scuola socialista, costretti alla resa dinanzi alle serrate confutazioni compiute dagli economisti.
Ma l’abbandono o la confutazione di una teoria dimostrata falsa, significava anche abbandono e confutazione di tutte le conseguenze che logicamente i suoi fautori ne avevano tratto. E se ai socialisti importava relativamente poco di abbandonare una data teoria del valore, dispiaceva assai di abbandonare il concetto del sopralavoro, indissolubilmente connesso dal Marx alla teoria sua del valore, e dal quale zampilla tutta la critica che il socialismo muove al profitto capitalista, considerato come coagulazione valorimetrica del sopralavoro ossia del lavoro non pagato dell’operaio. Di qui i conati laboriosi e miseramente naufragati compiuti dai socialisti per difendere la teoria marxista del valore; essi sentivano istintivamente che, mancata questa, sarebbe pure mancata la base su cui si erigeva la analisi del profitto capitalista, e sarebbe stato tolto il suo fondamento più saldo alla critica della organizzazione economica presente. Per servirci delle parole stesse del Graziadei “di fronte agli abilissimi attacchi (mossi da alcuni economisti alle congiunte teorie marxiste del valore e del sopralavoro), la miopia dei più fra i marxisti è stata davvero incredibile. Invece di accettare quel tanto di vero che era nei ragionamenti degli avversari: – la confutazione, cioè, della loro teoria del valore – ma provare, nello stesso tempo, che le verità fondamentali delle proprie dottrine – appunto perché fondamentali – erano da tali teorie indipendenti, si sono ostinati nello scolastico: aut sint ut sunt, aut non sint, e, difendendo con raddoppiato fanatismo anche la parte errata delle loro dottrine, sono venuti a confermare quella pretesa importanza della teoria del valore, su cui appunto si basavano gli attacchi degli avversari.
In tal modo, essi scoprivano sempre più il fianco alla critica nemica, e, coutribuendo a diffondere il pregiudizio che stava contro di loro, erano causa principale se anche gli scienziati autentici ripudiavano, a causa della teoria del valore, la teoria del sopralavoro”.
L’idea geniale e lungamente meditata dell’A. è stata questa: separare l’analisi del profitto dall’analisi del valore e dimostrare l’indipendenza di quella da questa. In tal modo avversari e credenti della teoria marxista del valore potranno essere d’accordo nel ritenere vera la teoria che fa originare il profitto capitalista dal sopralavoro gratuito della classe operaia. È certo che non tutti gli studiosi di cose economiche vorranno accettare questa separazione ed aderire anche alle premesse fondamentali della scuola classico-socialista quali sono delineate dall’autore: che cioè il fondamento dell’economia è il lavoro e che l’operaio, dopo aver lavorato un certo tempo per ricavare le merci che costituiscono il suo salario, deve lavorare un certo altro tempo per ricavare le merci che vanno al capitalista. Ma è certo, che soltanto date queste premesse ed entro i limiti da esse prestabilite, possono essere esaminate le deduzioni trattene dall’A. Del resto chi non crede a questi principii, può, leggendo il libro, tenere presente alla mente la riserva che le deduzioni dell’A. dipendono da certe premesse note, e da cui è possibile dissentire. E le deduzioni sono le seguenti:
Siccome la produzione è un fatto anteriore alla circolazione, siccome prima di dare un qualsiasi valore, determinato in qualsiasi guisa, alle merci è necessario che desse siano prima prodotte, così è evidente che le leggi che regolano la distribuzione del prodotto fra operaio e capitalista possono studiarsi anche prima di sapere quale valore abbia il prodotto e come desso sia determinato.
L’errore del Marx è stato di ritenere che il valore fosse una qualità primordiale, inscindibile dalle merci, e che queste non si potessero studiare se non attraverso al valore. La ragione di questa che il Graziadei chiama “la superstizione del valore” si trova in ciò che nel mondo moderno basato sulla divisione del lavoro, nessuno produce una merce collo scopo di consumarla, ma unicamente collo scopo di venderla ad altri. Le merci si presentano così fin dall’inizio alla mente dell’uomo coll’impronta indelebile del valore, il quale è il mezzo più efficace per permettere di addentrarsi con una guida ed una misura comune entro l’inestricabile laberinto delle innumere merci prodotte da persone ed in luoghi diversi collo scopo di metterle in circolazione. Ma ove si voglia astrarre da questa circostanza perturbatrice, ove si voglia immaginare una società semplice in cui non esista la divisione del lavoro, l’analisi del profitto diventa possibile anche all’infuori di ogni idea del valore. È ciò che fa l’A. il quale in una prima parte compie l’analisi del profitto, supposta inesistente la divisione del lavoro, per dimostrare poi in una seconda parte che la analisi medesima rimane valida ancora quando sia riconosciuta l’esistenza della divisione del lavoro, e finalmente in una terza parte esamina, sulla scorta delle precedenti indagini, quali siano i rapporti reali tra profitto e valore.
Noi non possiamo particolareggiatamente seguire l’A. in tutte le sue minute ed acute analisi dei rapporti fra profitto e salario e nelle azioni e reazioni reciproche dell’uno sull’altro; ma importa però notare come il concetto essenziale da cui piglia le mosse il Graziadei sia non solo di analizzare il profitto nel campo della produzione delle merci, ma anche nelle merci stesse, nei prodotti che costituiscono la essenza, la materia, per così dire, del profitto ed il salario. Mentre il Marx ed i suoi seguaci facevano dipendere, ad esempio, la grandezza del profitto dalla lunghezza ed intensità del sopralavoro gratuito in relazione al lavoro necessario, scambiando così quello che è la causa del profitto con l’effetto di questa causa; l’A. studia il profitto ed il salario come consistenti di prodotti e di sovraprodotti e le variazioni dei primi colle variazioni dei secondi.
Da questa differenza che sembra a primo aspetto tenuissima e quasi verbale scaturiscono invece differenze profonde nel modo di concepire le tendenze più importanti dell’intiera vita contemporanea. La teoria marxista, appunto perché fa consistere il profitto nel sopralavoro, è tratta per necessaria deduzione a considerare l’economia capitalistica attuale come orientata nel senso di aumentare ognora più nell’interesse dei capitalisti direttori delle imprese, il sopralavoro gratuito estorto agli operai. Di qui l’intonazione pessimistica della letteratura marxista; di qui la tendenza a credere le classi operaie votate all’immiserimento progressivo, al prolungamento estenuante della giornata di lavoro, al ribasso continuo del saggio dei salari costretti intorno ad un ferreo limite. Di qui eziandio la tendenza pericolosa a preconizzare una soluzione catastrofica del dissidio ognora più grave fra la classe borghese e la proletaria; e la visione truce di una rivoluzione sanguinosa fiammeggiante ai limiti estremi della evoluzione economica moderna. Date le premesse della teoria marxista, la quale fa dipendere l’ampiezza del profitto dalla lunghezza ed intensità del sopra-lavoro ossia dallo sfruttamento sempre più feroce delle classi lavoratrici, tutto ciò era logico, se anche non tranquillante.
Ma oramai tutti, anche i più mediocremente vegenti, si erano accorti che la realtà delle cose dava ogni giorno una fiera e recisa smentita a questa teoria truce ed apocalittica del movimento sociale contemporaneo. Numerosi fenomeni, come l’aumento progressivo del saggio dei salari e la diminuzione continua della giornata di lavoro, l’elevarsi irrefrenato delle classi operaie ed il trasformarsi della lotta sociale verso forme sempre più giuridiche, pacifiche e cortesi, cospiravano a dimostrare la insussistenza delle previsioni catastrofiche della scuola marxista. Antonio Graziadei è il teorico socialista della nuova concezione ottimistica della vita sociale; egli non crede che il miglioramento delle sorti delle classi operaie sia un fatto contradditorio colla teoria socialista; e dimostra che la teoria da lui esposta del profitto come fenomeno della produzione è costituito non di sopralavoro, ma di sovraprodotto; spiega in guisa perfetta l’elevamento morale e materiale delle classi operaie, spiega la frequente identità di interessi fra le due classi sociali, dei capitalisti e dei lavoratori, che il marxismo proclama irreconciliabilmente avverse, spiega altresì la possibilità di un grandioso aumento nei salari contemporaneo ad una riduzione delle ore di lavoro; e getta un fascio di luce potente sulle tendenze politico – economiche contradditorie delle masse operaie inglesi e continentali. E mentre i marxisti vanno a gara nel gettare una luce fosca sul capitalismo moderno, il teorico del nuovo socialismo dà delle tendenze fondamentali di questo stesso capitalismo un giudizio altamente simpatico e storicamente equanime.
Ecco come finisce l’A. un capitolo sull’”Evoluzione della grande industria” che sarà forse il più avidamente letto dal grande pubblico: «L’economia capitalistica ci presenta una evoluzione che, sviluppando condizioni materiali favorevoli alla classe lavoratrice e stimolandone in conseguenza una profonda modificazione intellettuale e morale, opererà la più meravigliosa delle trasformazioni sociali col minor numero di dolori. L’economia capitalistica, preparando a sé stessa una “sepoltura” onorevole e sapienti “seppellitori”, trova il suo simbolo nella cicogna della leggenda: nella cicogna che nutriva col sangue del suo petto i suoi figli, sin che questi, quando si erano fatti più forti e non ne avevano più bisogno, l’uccidevano, affinché non fosse loro d’impaccio nelle loro migrazioni verso i nuovi continenti».
I socialisti e gli studiosi di cose economiche e sociali leggeranno dunque con grande profitto l’opera del Graziadei; i primi per vedere giustificato, con una teoria organicamente intonata alle premesse fondamentali della dottrina classico – socialista, un orientamento nuovo del loro partito, preconizzato già da molti; ed i secondi per studiare la giustificazione teorica di questo nuovo orientamento e per modificare in correlazione il proprio atteggiamento, simpatico ed avverso, verso un partito che dà prova di così grande vitalità intellettuale. Tanto più l’attenzione degli studiosi dovrà essere attirata verso questo libro, in quanto qui non ci troviamo di fronte ad uno di quei troppo numerosi esemplari della letteratura economico – sociale attuale, i quali sono il frutto di un vacuo dilettantismo od il mezzo per raggiungere uno scopo estraneo alla scienza, ma dinanzi all’opera lungamente pensata di un forte ingegno il quale ha creduto, scrivendo, di adempiere ad un dovere: quello di dire la verità, anche se questa dovesse riuscire amara agli adoratori di un vangelo oramai invecchiato e minacciante rovina.
[1] Alcune furono già splendidamente analizzate da GUGLIELMO FERRERO in “Reazione”; ma altre circostanze ancora, specialmente di indole scientifica, hanno esercitato una profonda influenza sulle nuove generazioni e le hanno indotte a rivolgersi, ad es., più verso il socialismo che verso il liberismo, ed hanno rafforzato anche le file del cattolicesimo corporativista a spese del liberalismo atomistico. Chi sarà lo storico ed il psicologo della generazione nata dopo il compimento della unità italiana?