Opera Omnia Luigi Einaudi

Questioni di parole in materia di imposte

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1917

Questioni di parole in materia di imposte

«Minerva», 1 gennaio 1917, pp. 1-3

 

 

 

Una delle tentazioni contro cui i ministri delle finanze di tutti i paesi nel presente momento devono resistere è quella della novità apparente cercata attraverso il nome nuovo dato ad imposte vecchie. Credo che i ministri delle finanze dovranno finire col costituire, se già non l’hanno costituito, un ufficio apposito per rispondere alle valanghe di lettere che giungono assai probabilmente sul loro tavolo da parte degli innumerevoli auto-salvatori della patria, i quali immaginano di aver ritrovato la pietra filosofale atta a procurare milioni e miliardi alle casse dello Stato. Nel presente articolo cercherò di mettere in chiaro che cosa in realtà si nasconda sotto il velame di novità con cui si presentano più frequentemente oggi i progetti e le proposte di tributi.

 

 

La forma più popolare di imposizione oggi è quella del monopolio. Molti hanno l’idea che basti assumere in monopolio la produzione e la vendita, o anche solo la vendita, di una merce, per farne scaturire ruscelli d’oro a pro delle pubbliche finanze. Il monopolio è un concetto caro altresì ai socialisti, i quali possono accoglierlo come un acconto sulla futura società collettivista, salvo a lavarsene le mani se la cosa finisce male e a rigettarne la colpa sulla borghesia e sul governo di classe che ne è lo strumento.

 

 

In generale, contro il monopolio, considerato come strumento fiscale, non vi sono obbiezioni di principio da fare. È inutile perdere tempo a discutere intorno ai fini sociali o economici dei monopoli. Sono discussioni inconcludenti; essendo ben difficile persuadere chi non vi creda per atto di fede (socialistica o elettorale) che vi sia del sugo nel far vendere sigari da un tabaccaio di Stato piuttostoché da un negoziante privato. Il problema, nudo e crudo, è uno solo: rende di più allo Stato tassare il tabacco col metodo dell’imposta al momento dell’entrata nel Regno o della fabbricazione lasciata libera ai privati, ovvero col metodo del monopolio? Trattasi, in amendue i casi, di un’imposta da percepire; e se, a parità di prezzo fiscale per i consumatori, il primo metodo rende 10, mentre il secondo rende 20, è preferibile il secondo. Se no, no. Il metodo del monopolio applicato al tabacco è riuscito per due ragioni:

 

 

1)    si reprime meglio la frode, vietando addirittura la fabbricazione ai privati;

 

2)    lo Stato si appropria il margine, probabilmente ampio, di utile che otterrebbero gli intermediari fra produttori e consumatori.

 

 

Nel giudicare della convenienza di introdurre altri monopoli, fa d’uopo badare se si otterrebbero questi o analoghi vantaggi. Quanto al primo, della repressione più facile del contrabbando, è quasi impossibile immaginare a che cosa gioverebbe il metodo del monopolio per quanto si riferisce al petrolio, al carbone, al caffè e suoi surrogati, allo zucchero, che vedo formare oggetto di proposte di monopolizzazione.

 

 

Trattasi di merci, le quali provengono dall’estero e che si accertano benissimo anche ai fini del dazio doganale; ovvero di merci, le quali sono assai strettamente sorvegliate e controllate già ora, per l’applicazione dell’imposta di fabbricazione. Il monopolio riuscirebbe ad acquisire come materia imponibile forse alcune poche tonnellate in più, scarsissimo compenso al maggior costo di amministrazione. Sotto questo rispetto, vantaggi rilevanti si otterrebbero solo col monopolio degli spiriti, che si sono dimostrati refrattari a ogni accorgimento di tassazione. Per gli spiriti il divieto assoluto di produzione ai privati forse faciliterebbe l’opera di controllo del finanziere.

 

 

Rispetto al secondo punto, ossia all’assorbimento dei guadagni degli intermediari, occorrerebbe avere nozioni pratiche intorno al commercio delle derrate da monopolizzare, che io non ho, ma dubito altresì siano possedute dai proponenti. Ad ogni modo, sembra pacifico, da quanto si sente dire, che i margini del commercio per lo zucchero, il caffè e sovratutto i suoi surrogati, e per il petrolio siano scarsi. Così pure sono scarsi i margini normali nel commercio del frumento, dove i guadagni dipendono dall’abilità di fare gli acquisti nei momenti opportuni. In tutti questi casi è probabilissimo che un aumento nel dazio doganale o nell’imposta di fabbricazione renderebbe, ove non provocasse troppo forti riduzioni nel consumo, assai di più che l’introduzione di un qualsiasi monopolio. I margini invece sono ampi per gli spiriti e per il vino, di cui taluno altresì propone la monopolizzazione.

 

 

Ma appunto in questi due casi, che sono i soli per i quali realmente il monopolio presenterebbe un margine di guadagno in confronto agli altri metodi tributari, insorgono difficoltà quasi insormontabili d’altra specie. Vogliamo noi che lo Stato diventi spacciatore al minuto di liquori e di vino, proprio nel momento in cui la Russia ha dato l’esempio memorando dell’abolizione della vendita delle bevande alcooliche?

 

 

Come potrà lo Stato italiano, a base parlamentare ed elettorale, resistere alla pressione dei viticultori, i quali vorrebbero per le loro uve prezzi «remunerativi», ossia in media più elevati di quelli che si potrebbero ottenere in regime di concorrenza? Come organizzare la produzione e la vendita di qualità innumerevoli di liquori e di vini, a prezzi non sbagliati? Come addossarsi l’odiosità di pagare per certe qualità di uva prezzi più alti che per altre qualità? L’apprezzamento delle qualità di uva e la fissazione dei relativi prezzi – mancherebbe il mercato e quindi ogni orientamento oggettivo al riguardo – non finirebbero col diventare una questione politica, da decidersi con palle bianche e nere nelle votazioni di fiducia al Ministero?

 

 

In conclusione, io non vedo una grande consistenza fiscale in tutti questi progetti di monopoli. O si tratta di monopoli che renderebbero meno del vecchio metodo dell’imposta; ovvero, quando sul serio si veggono i milioni, per ottenerli bisognerebbe costruire un meccanismo spaventosamente complicato e politicamente pericoloso.

 

 

Numerosi altri progetti si cristallizzano attorno al concetto della partecipazione dello Stato ai lucri delle imprese private. Io stesso su queste colonne ho proposto la creazione di Società semi-pubbliche, con azionista lo Stato, per le imprese d’armamento. Non la proposi però per intenti fiscali; ma per ragioni d’indole politica e morale. Dal punto di vista fiscale, anche qui i benefici presenti mi paiono sovratutto verbali. O che cosa altro è l’imposta, la classica, la vecchia imposta, fuorché una partecipazione dello Stato agli utili delle imprese private? Con l’imposta, lo Stato dice ai contribuenti: «Cercate di guadagnare e di guadagnare il massimo possibile. Quando l’esercizio sarà finito, facciamo i conti. Se vi sono perdite, di queste mi disinteresso. Ve le lascio tutte a vostro carico. Se vi sono utili, me ne darete il 10, il 20 od il 30 per cento». Questo è il linguaggio del buon senso, ed è linguaggio che rende allo Stato fior di quattrini.

 

 

Il metodo nuovo della finanza modernissima, a cui si dà il nome di azionariato dello Stato, di partecipazione agli utili delle aziende, dice al contribuente: «Io voglio diventare tuo socio. Io conferirò una parte del capitale, o la concessione o il permesso di esercitare l’impresa tua. Io invierò miei funzionari a sedere nei tuoi Consigli, a controllare l’opera tua. Alla fine dell’anno divideremo gli utili in una certa proporzione». Questo è il metodo delle perdite di tempo, dei bastoni fra le ruote, del funzionario che deve essere addottrinato intorno alla convenienza di fare o non fare certe cose, del funzionario che chiede istruzioni a Roma, e delle istruzioni che arrivano quando l’affare non si può più conchiudere. In sostanza l’unica differenza fra il metodo vecchio dell’imposta e il metodo moderno della partecipazione ai profitti è questo: che con l’imposta lo Stato è sicuro di ottenere il 20% da coloro che guadagnano, ed è probabile vi sia un certo numero di contribuenti in guadagno, essendo essi stati liberi di guadagnare o di perdere; mentre con la partecipazione lo Stato corre rischio di perdere, e nei casi più favorevoli di diminuire con la sua inframmettenza i guadagni delle imprese private e quindi di ottenere il 20% su una quantità minore di ricchezza. Anche questa è una novità, in fondo a cui non si vedono quattrini a pro della pubblica finanza.

 

 

Taluno ha immaginato di aver esposto un’altra novità, inventando l’imposta sul capitale, straordinaria od ordinaria. Si avrebbe l’imposta straordinaria sul capitale, quando si obbligassero i contribuenti a pagare, per le spese della guerra, il 10% del proprio patrimonio. Naturalmente, siccome non si può richiedere l’impossibile e siccome non si possono obbligare i contribuenti a vendere il 10% del loro patrimonio, si aggiunge subito: pagherete l’imposta in 10 o 20 annualità dell’1 o 0.50% del valore del patrimonio. Sicché l’imposta, da straordinaria da pagarsi una volta tanto, diviene ordinaria, da pagarsi ogni anno in perpetuo, essendo risaputo che nessuna imposta è mai abolita, anche quando sono trascorsi i dieci o vent’anni della sua vita legale.

 

 

È una varietà non importante di questa proposta quella secondo cui lo Stato emetterebbe un prestito immediato per realizzare subito il provento delle 10 o 20 annualità in cui è frazionata l’imposta straordinaria. Per tutte le imposte, anche ordinarie; questa operazione può farsi; ed è molto dubbia la convenienza di emettere prestiti garantiti su una speciale imposta.

 

 

Di modo ché tutto si riduce al pulito della convenienza di stabilire una imposta annua commisurata al patrimonio del contribuente. Anche qui il problema è puramente tecnico. L’essere l’imposta commisurata al patrimonio, piuttosto ché al reddito, non produce per se stessa nessuna conseguenza sociale, economica, di giustizia o di ingiustizia ecc. ecc. Quando i contribuenti percossi siano gli stessi, è indifferente tassare il reddito o il patrimonio. Una imposta sul patrimonio del 0.50% all’anno è perfettamente eguale, se il tasso di reddito del patrimonio è il 5%, ad un’imposta del 10% sul reddito del patrimonio. Siano 100 lire di patrimonio che fruttano 5 lire all’anno. Lo Stato ottiene egualmente lire 0.50, sia tassando col 0.50% il patrimonio, sia tassando col 10% il reddito. L’imposta sul patrimonio è solo un elegante ma modestissimo avvedimento tecnico per ottenere quel medesimo effetto che in Italia si ottiene da 50 anni con l’altro avvedimento della discriminazione degli imponibili nell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Suppongasi che si voglia tassare il reddito di lire 5000 del capitalista che dà capitali a mutuo con un’imposta doppia di quella che grava lo stipendio di lire 5000 dell’impiegato pubblico. Per ottenere questo intento il legislatore italiano tassa col 20% di imposta i 30/40 del primo reddito e solo i 15/40 del secondo reddito. Così il capitalista paga il 20% di 3750 lire imponibili (30 x 5000/40) ossia paga lire 750; e l’impiegato paga il 20% di 1875 lire imponibili (15 x 5000/40) ossia paga lire 375.

 

 

In Prussia, dove fanno le cose con eleganza, avrebbero invece istituito due imposte: l’una sul reddito, da pagarsi da ambedue i contribuenti, del 7.50% del reddito totale, e l’altra sul patrimonio, da pagarsi solo dal capitalista (l’impiegato come tale, non ha patrimonio), del 0.375% del valore del patrimonio. Il capitalista avrebbe pagato amendue le imposte: L. 375 a titolo di imposta sul reddito (il 7.50% di 5000 lire), più L. 375 a titolo di imposta sul patrimonio (il 0.375% di 100,000 lire, valore capitale corrispondente a un reddito di 5000 lire al 5% di interesse), e così in tutto L. 750. L’impiegato avrebbe pagato la sola imposta sul reddito e cioè L. 375, eguali al 7.50% sul reddito di lire 5000. Il risultato in Italia e in Prussia sarebbe identico, sia quanto a provento per l’erario, sia quanto a giustizia distributiva fra i contribuenti.

 

 

 

Ma in Prussia hanno l’onore di avere due imposte, in Italia abbiamo la vergogna di averne una sola. Poiché trattasi di puri avvedimenti tecnici, occorrerebbe spingere il confronto più a fondo; e su questo punto di vista da anni ho già avuto occasione di rilevare come il metodo tedesco, supposti certi metodi assai perfezionati di valutazione e di amministrazione, ossia fatte certe ipotesi su materie anch’esse puramente tecniche, possa essere preferibile al metodo italiano, del resto anch’esso celebratissimo all’estero se non da noi. Sicché si può anche sostenere la tesi della convenienza tecnica della istituzione di un’imposta patrimoniale.

 

 

Ma, badisi bene, quando ciò si facesse, non bisognerebbe farsi l’illusione grottesca di aver compiuto una grande riforma, degna d’essere ricordata, ad ammonimento dei posteri, su tabelle marmoree. Si sarebbe soltanto adottato un metodo, sotto certi rispetti e fatte certe ipotesi, più tecnicamente perfetto, per raggiungere lo stesso fine che da 50 anni in Italia si cerca di raggiungere per altra via.

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