Protezionismo fiscale inglese. Un pericolo per gli esportatori
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/08/1909
Protezionismo fiscale inglese. Un pericolo per gli esportatori
«Corriere della sera», 11 agosto 1909
Dall’on. Gavazzi riceviamo la seguente lettera:
Sig. Direttore,
Gli agenti delle imposte (Surveyors of Taxes) del Regno Unito si esercitano, da qualche tempo in qua, ad applicare nel suo senso più rigido la disposizione per la quale debbono sottostare alla Income-Tax anche le persone che non risiedono nel Regno Unito, siano essi sudditi o no di S. M. Britannica, le quali traggano un reddito da impieghi, proprietà o commercio esercitato nel Regno Unito.
Già la imposta venne applicata a taluni nostri industriali esportatori, i quali, col mezzo di rappresentanti od agenti residenti in Inghilterra, vi vendono i loro prodotti. In questi giorni chi scrive ebbe sott’occhio una analoga intimazione, con minaccia che, ove non si ottemperi dalla ditta italiana esportatrice alle richieste dell’agente delle imposte, questi d’ufficio determinerà l’ammontare del reddito imponibile, per rivalersi poi dell’imposta sul rappresentante residente in Inghilterra.
Ed è bene notare, a ciò nei lettori non sorga equivoco di sorta, che non si tratta già di colpire le provvigioni od utili che l’agente o rappresentante realizza colla vendita del prodotto italiano: egli soddisfa già per questo titolo all’imposta: si tratta invece di colpire il guadagno che il produttore od esportatore italiano realizza o si suppone possa realizzare colla vendita sul mercato inglese.
Si direbbe che a questo modo gli inglesi vogliano rifarsi di quanto non ottengono per mezzo delle dogane: è questa una forma di protezionismo fiscale sostituito al protezionismo doganale adottato dagli altri Stati.
Chi scrive non è sospetto di eccessive tenerezze pel sistema protezionista ma non può a meno di notare che le tariffe doganali (soprattutto quando sono vincolate da trattati di commercio) assai più difficilmente si prestano ad interpretazioni arbitrarie, che non lo strumento della imposta affidato alle mani di agenti, i quali si attentino a misurare i profitti di una ditta che risiede e che produce all’estero.
Sarebbe a chiedersi in primo luogo, a giustificare un simile provvedimento fiscale, se sia dimostrato che in un affare di compravendita gli utili siano solo di chi vende e non anche di chi compera. Perché dunque solo il venditore dovrebbe sopportare il carico dell’imposta?
Si domanda inoltre come mai sia possibile agli agenti fiscali inglesi determinare anche approssimativamente i benefici che una ditta italiana realizza coll’esportare i suoi prodotti nel Regno Unito. Anche quando riescano ad accertare con esattezza l’ammontare di tali vendite, come potranno asseverare che i profitti ne rappresentano una determinata percentuale? E come potrà l’esportatore italiano rettificare un errato apprezzamento? E non è forse noto che assai di frequente il produttore vende all’estero in perdita o con scarso utile?
Noi vediamo già quanto siano difficili le trattative cogli agenti del fisco nostrale: immaginare le delizie dell’aver a discutere in materia così incerta e variabile con quelli esotici, produrre ricorsi, adire, ove occorra, ai tribunali esteri!
A chi guardi alla cosa risulta evidente l’immenso pericolo, anzi i pericoli, che sovrastano per questa nuova applicazione di imposta alle nostre esportazioni: pericolo di arbitrarie, eccessive tassazioni, che obblighino a ridurle o sopprimerle: pericolo che il malo esempio abbia a propagarsi negli altri Stati importatori di prodotti italiani: pericolo per tutti di guerre, non più di tariffe, ma di imposte.
Pericolo altresì per le nostre finanze, giacché una casa italiana, tassata all’estero per le sue esportazioni, avrebbe ben il diritto di chiedere riduzioni delle imposte o tasse nazionali, affinché il medesimo prodotto non sia gravato due volte, all’interno ed all’estero.
Pericolo infine grandissimo per l’insieme della nostra economia nazionale.
Ed i benevoli lettori non considerano meco questa singolare anomalia, che, mentre i contribuenti d’ogni paese lamentano i crescenti gravami occorrenti a fronteggiare le necessarie difese militari, quegli stessi contribuenti potrebbero domani essere costretti a sopportare nuovi oneri per fornire armi ad altri paesi, armi forse preparate e rivolte contro di loro?
Il Governo italiano sa di questa tassazione, di questo provvedimento nuovo affatto nei rapporti internazionali e ne può facilmente misurare le conseguenze. Ma ha esso provveduto? Per quali vie? Con cortesi rimostranze al Governo britannico che ci è sinceramente amico? O attende che lagni sorgano da altri Stati? O prepara ai prodotti britannici o di quegli Stati che volessero seguire l’esempio dell’Inghilterra un trattamento analogo, colpendo colla imposta di ricchezza mobile gli utili, ad esempio, che gli esportatori inglesi di carboni, di cotoni, di tessuti, di macchine, si suppone realizzino colle loro vendite in Italia?
Sarebbe l’ultima ratio e chi scrive non la desidera, nemmeno pel bene del suo paese. Ma è ora e tempo che la stampa ecciti il Governo ad esaminare la questione ed a provvedere.
Mi creda, ecc.
Lodovico Gavazzi.
Noi non abbiamo sott’occhio il testo della legge sull’Income tax, su cui si fondano gli agenti finanziari inglesi per tassare il reddito che il produttore od esportatore italiano realizza vendendo la sua merce sul mercato inglese. Certo è che, argomentando dai principii generali dell’imposizione sui redditi industriali e commerciali, a questa pretesa del fisco inglese dovrebbe essere riservata la stessa sorte che toccò ad una analoga pretesa che, in anni decorsi, sollevò il fisco italiano rispetto alle ditte straniere. Pretendeva invece il fisco nostro che le ditte straniere dovessero essere assoggettate all’imposta di ricchezza mobile non solo per i guadagni ricavati dalle loro rappresentanze o filiali italiane ma anche per il guadagno ottenuto sulla quantità di merce fabbricata all’estero e venduta in Italia. Ma la dottrina più autorevole, a cui accedette in massima la giurisprudenza, opinò che si dovesse badare al luogo di produzione del reddito e che lo Stato italiano avesse il diritto di tassare soltanto quella parte del reddito che fosse realmente prodotta in Italia. E per definire con esattezza questa parte del reddito, che è tassabile in Italia, si ragionò così: la ditta straniera produce una merce che ha un prezzo, ad es. di 10 lire al quintale, prezzo in cui è già compreso il profitto dell’industria. Che la merce sia venduta all’estero (nel luogo di produzione) o in Italia, non monta; poiché quella merce quando usciva dallo stabilimento, aveva già quel valore di 10 lire e tutte le 10 lire erano state in esso prodotte. In Italia si verifica soltanto la trasformazione della merce in denaro; e poiché la merce già prima valeva 10 lire, la trasformazione della merce (del valore di 10 lire) in denaro (biglietto da 10 lire) nulla aggiunge e nulla toglie al valore suo; né fa si che si abbia un qualsiasi reddito prodotto in Italia. Se però la ditta straniera non vende direttamente ai clienti italiani, ma ha una filiale od una rappresentanza in Italia, allora è ragionevole ammettere che la filiale o la rappresentanza italiana colla propria organizzazione, con la clientela da essa medesima creata ottenga un guadagno ulteriore, riesca, per esempio, a vendere a 11 quella merce che la ditta straniera avrebbe, lavorando direttamente, venduto a 10 o riesca a vendere una quantità maggiore allo stesso prezzo di 10, procacciando così un utile più elevato alla ditta straniera. Questo utile speciale è dovuto alle opere del capitale e del lavoro impiegati in Italia dalla filiale o rappresentanza italiana ed è quindi reddito italiano soggetto alla nostra imposta di ricchezza mobile.
Questa la dottrina corretta, che dovrebbe mutatis mutandis essere accolta anche in Inghilterra. È vero che, da qualche tempo, il cancelliere inglese dello scacchiere ha dato ordine agli uffici finanziari di applicare nel modo più rigido le disposizioni della legge sull’Income tax allo scopo di spingere al massimo la produttività di questa imposta. Ma non è men vero che questo intento, che fu già ottenuto in proporzioni sensibilissime, non deve essere raggiunto con tassazioni ingiuste e repugnanti all’indole dell’imposta, che è di colpire i redditi sorti o goduti nell’Inghilterra.
Qui il reddito è manifestamente sorto in Italia e goduto da ditte italiane, non residenti in Inghilterra. Bene ha fatto l’on. Gavazzi a richiamare l’attenzione del nostro Governo sul grave pericolo che sovrasta all’industria nazionale esportatrice e ad incitarlo a provvedimenti efficaci. L’Inghilterra, che ha già stretto delle convenzioni fiscali con la Francia, non dovrebbe essere aliena dal sottoscrivere ad una convenzione fiscale con l’Italia la quale salvaguardasse gli industriali dei due paesi dai pericoli delle duplici tassazioni.