Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – Miti e paradossi della giustizia tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967

Prefazione

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 1-9

 

 

 

 

Rileggendomi dopo tanti anni, confesso di essermi divertito.

 

 

Non mi sembrò di leggere pagine di quelle scritture in fondo noiose le quali formano il succo delle trattazioni intorno all’imposta; e poiché, come è naturale, mi volli spiegare i mancati sbadigli, credetti di aver trovato la risposta giusta: il libro è un trattato dell’imposta, ma non se ne dà l’aria e forse non lo è. Che cosa è un trattato, nelle nostre discipline? Dico nelle nostre, perché sono persuaso che in molte altre discipline e principalmente in quelle matematiche, fisiche, naturali, tecniche, giuridiche fa d’uopo che lo studente abbia modo di conoscere lo stato della scienza in un certo momento e l’insegnante dia modo agli uditori di apprendere anche le nozioni che la brevità del tempo non ha consentito di approfondire nella scuola. Nelle nostre discipline e massimamente in quelle umanistiche – e tra esse orgogliosamente colloco quelle economiche – quale significato ha il trattato, il manuale, il compendio? salvo quello, in tutto volgare e talvolta contennendo, di aiuto mnemonico alla formazione dello sputo con il quale certe nozioni sono dal giovane appiccicate alla memoria per il solo giorno degli esami? Gran voga hanno, all’uopo, i compendi dei compendi, le sinossi, le tabelle con graffe e sottograffe, grazie a cui il giovane riesce a mettersi in testa «tutta la materia» per quella sola mattinata degli esami.

 

 

Gran nemica dei buoni studi la superstizione della materia! A cominciar dal liceo, ne siamo ossessionati, discenti e docenti; ed è ossessione che a poco a poco scema l’agilità mentale e la attitudine alla simpatia degli insegnanti verso gli scolari e li riduce, senza avvedersene, dopo dieci anni, a monotoni ripetitori di nozioni tante volte esposte, le quali un po’ per giorno, inavvertitamente, perdono quel che c’era in esse di vivo e ne rimane la foglia secca arida al tatto ed all’intelletto. Dai Principii di Pantaleoni, dove ogni parola è un concetto, è uno stimolo, è una illuminazione si passa ai Sunti di Cossa, dove tutto è perfetto, dove le parole sono pesate con la bilancia dell’orafo, ma sono tutte insipide e, se falla la memoria, è impossibile ricordarle. A distanza di qualche decennio, venuta meno la generazione da cui erano nati, chi si ricorda dei trattati? salvo dei pochi che nacquero perché l’autore aveva bisogno di creare il capolavoro? e questi pochi certamente non avevano dato fondo alla «materia».

 

 

La superstizione della «materia» avvelena la vita accademica molto al di là della scuola ed aggrava il danno di questa. Quante volte, nelle discussioni per la scelta dei concorrenti a cattedre universitarie, non abbiamo, esterrefatti, sentito o letto: il candidato è bravo, è costruttore, espone idee non comuni; ma si è occupato solo di un capitolo, di una parte della materia messa a concorso; od ha dato prova di valentia scientifica in una terra di confine, che non è quella propria della disciplina nostra. Auguri per quando avrà scritto qualcosa per dimostrare che è padrone dei campi principali della disciplina. Frattanto, passi avanti l’uomo ordinario che ha scritto un po’ di tutto. Per lo più, l’argomentazione è mero pretesto per mettere fuori combattimento chi non appartiene al gruppo dominante dei giudici del concorso; e, fortunatamente, non sempre riesce: ché di fronte all’uomo di valore, la compiutezza della ricerca nella intiera materia è messa da parte e prevale l’altro principio del semel abbas, semper abbas; chi ha dimostrato di possedere l’unghia del leone in un campo anche piccolo, anche in terra nullius, leone resta, anche se per avventura non ha dimostrato di aver ficcato l’unghia dappertutto.

 

 

Quante parole per dire che questi miei Miti e paradossi sono, a parer mio, un trattato anzi meglio di un trattato dell’imposta! Migliori, perché meno noiosi, meno sistematici, assai meno compiuti; e perché lasciano nell’ombra la maggior parte degli argomenti solitamente svolti nella disciplina tributaria! Ma, in compenso, discutono taluni dei problemi essenziali; cercano di mettere in chiaro come i più dei principii pacificamente accettati non sono affatto «inconcussi»; anzi non sono nemmeno il principio di veri principii, sono idee qualunque, le quali hanno acquistato diritto di cittadinanza fra studiosi, legislatori e pubblico, per semplice prescrizione ab immemorabile. Tutti credono di sapere che cosa è il reddito e si ergono accusatori contro coloro i quali non denunciano il reddito vero, l’unico, l’immarcescibile reddito; che, viceversa, nessuno sa che cosa veramente sia, perché i redditi «veri» sono tanti quanti sono i fini per i quali si costruisce il bilancio dell’impresa e quante sono le ipotesi, tutte legittime, legittimissime, in base a cui si possono fare le valutazioni delle singole partite attive e passive del bilancio.

 

 

Che cosa è un doppio d’imposta? La più parte di quelli che sono detti doppi non sono tali, se non per l’innocenza di chi ne parla; ed i pochi veri casi di doppio sono raffinati e complicati e per lo più negati dai periti.

 

 

Perché si grida «raca!» alle imposte sui consumi e si lodano quelle sul reddito? Perché si bada ai caratteri secondari dell’istituto, alle sue modalità di applicazione e non alla sostanza.

 

 

Perché la «giustizia» è, per molti, propria esclusivamente della progressività, specie se confiscatrice? Perché si fanno ipotesi indimostrabili sulla possibilità di paragonare, addizionare e sottrarre le sensazioni di due o più uomini e si pongono ipotesi arbitrarie ed uniformi sulla decrescenza delle utilità delle successive dosi di ricchezza possedute da due o più uomini.

 

 

Che cosa è un sovrappiù, un aumento di valore capitale oltre al valore detto originario? È la proiezione al momento presente delle quantità crescenti di reddito le quali fluiranno da una data fonte; quantità le quali sono destinate ad essere colpite dalle imposte normali. La gente frettolosa immagina invece di avere scoperta materia nuovissima di tassazione; e giù imposte sui sovrappiù, che sono doppi di quelle che già si pagano e si pagheranno sui redditi.

 

 

Perché definire «esenzioni» quelle che sono invece mere dichiarazioni di non esistenza del reddito, il quale, non esistendo, non può essere tassato? L’uomo «fiscale» il quale ha abbrancato la preda e vede che questa gli sfugge, preferisce attribuire al suo animo misericordioso la largita franchigia dall’imposta; non volendo riconoscere mai che sua era la malefatta del tassare ingiustamente.

 

 

E così via: nella materia tributaria l’analisi critica deve prendere inizio dalle parole usuali: a partire dalla prima fra tutte, quella medesima di imposta. Alla quale fa d’uopo togliere di dosso la taccia di qualcosa che «pesa», che «grava», che «porta via». L’imposta, se propria di uno stato organizzato per il servizio dei consociati, non pesa, non grava, non porta via nulla; anzi aumenta il reddito, cresce la quantità delle cose buone che gli uomini cittadini hanno o ricevono, cresce il reddito nazionale totale. L’imposta pesa, grava, porta via, diventa taglia se i governi sono tirannici, oppressivi; se, rispettate le forme legali, la somma delle cose è caduta nelle mani del tiranno, di una oligarchia, anche se tiranno ed oligarchia professano di governare in nome dei più e questi «più» sono, per scherno, detti lavoratori o proletari e dichiarati signori delle ricchezze esistenti nel paese.

 

 

Quanto male si usa dire del debito pubblico! Anch’esso pare qualcosa che gravi, che pesi, che schiacci le generazioni presenti e future per colpe commesse dagli uomini del passato, i quali si distrussero a vicenda e mandarono in rovina il paese per le loro manie di rivoluzioni e di guerre; ed invece sovente il debito pubblico è un fantasma, di cui nessuno sente l’onere; è un nugolo di pezzi di carta, i quali circolano senza tregua, e danno luogo a scritturazioni senza fine e senza altro risultato, fuor di quello di occupare gli amanuensi chiamati a scrivere qualcosa sui «gran» libri del debito pubblico.

 

 

Forseché la critica delle parole senza senso, o stortamente adoperate o ingannatrici non è dunque la introduzione necessaria dei trattati sulla materia tributaria? Non è forse l’ironico sorriso opposto alla solennità delle pagine, nelle quali si continuano ad usare parole e concetti, che forse sono ombre che mai non furono, luci vive di mondi morti da millenni?

 

 

Perciò in queste mie «Opere» non collocherò un trattato o principii di scienza finanziaria che pure scrissi tant’anni addietro e colloco invece questi che sono i «prolegomeni» all’ideale trattato che vorrei avere scritto. Poiché di capolavori, tra i «principii» ne viene fuori uno forse ad ogni voltar di secolo, il mio non è certamente, nemmeno per i suoi tempi, il vagheggiato ideale. In qualità di prolegomeni, i «miti e paradossi» giova invece a me sperare tengano un onorevole luogo e siano atti a divertire, insieme con me, altri lettori.

 

 

La presente edizione è praticamente la ristampa della seconda edizione del 1940, la quale a sua volta era esemplata, con l’aggiunta degli ultimi due capitoli, sulla prima del 1938. Una sola non aggiunta, ma amplificazione, allungò alquanto il par. 176, parso, alla nuova lettura, alquanto scarno ad un autore il quale si ostina a credere, forse contro il vero, che il lettore preferisca vedersi spiegato per filo e per segno di ogni argomento la rava e la fava. Non è un’aggiunta, ma il mero ristabilimento del testo genuino, con la indicazione della fonte, la citazione del brano essenziale di Geremia Bentham in materia di progressività (par. 168). Nella edizione precedente, la citazione era chiaramente fatta a memoria.

 

 

Non ci sarebbe stato davvero altro da aggiungere o mutare dopo tant’anni? Non dico un elenco di altri equivoci verbali e di altre parole vuote, da pigliare con le molle. Grosse novità in proposito non mi pare siano comparse sull’orizzonte tributario. Si è seguitato a parlare di riforme tributarie; i soliti giustizieri hanno aggiunto all’arsenale delle armi inutili che l’amministrazione già possiede, taluni articoli vessatori, di cui divenuto famoso quello che porta il numero 17; ma si tratta di aggeggi. Il compianto Vanoni perfezionò il sistema, introducendo e facendo applicare un modulo di dichiarazione, il quale obbliga il contribuente a fare ogni anno l’esame delle proprie entrate ed uscite, con risultati, i quali dovrebbero essere vantaggiosi anche per lui. Tutto sommato, gli antichi miti ed i tradizionali paradossi continuano ad essere venerati nel tempio dedicato ai consueti riti della verità e della giustizia tributaria. I falsi doppi si sono moltiplicati per le aggiunte di centesimi addizionali a pro di vecchi e nuovi enti, ai quali era ed è attribuita la potestà tributaria. Si conosce sempre meno il significato delle cifre scritte nei bilanci e nei rendiconti dello stato, nessuno potendo valutare il valore delle imposte pagate agli enti di assicurazione e di previdenza sociale, agli enti economici forniti della facoltà legale di vendere a prezzi di monopolio merci e servizi, agli enti dotati del privilegio di esercitare l’industria dei giochi d’azzardo o delle lotterie a pro di sedicenti fini pubblici. Nessuno dei doppi di imposta denunciati nelle pagine che seguono è stato abolito; e qualcuno se n’è aggiunto, sotto colore di apprendere redditi di società anonime che la fervida immaginazione dei giustizieri ha supposto spropositatamente essere «nuovi» o forniti di capacità di pagare nuova imposta, oltre a quelle normali.

 

 

L’imposta Giolitti sulle aree fabbricabili, abolita per la sua incapacità a fornire provento apprezzabile all’erario, è stata nuovamente riesumata da chi, in beata innocenza, suppone di riuscire a tassare nell’aumento di valore delle aree fabbricabili un valore non mai prima scoperto e tassato; che è errore grossolano di doppia vista, qui (ai paragrafi 55, 56, 57, 67, 68) ed altrove (passim nei Saggi sul risparmio e l’imposta) ripetutamente denunciato e dimostrato. L’innocenza non è giustificata dall’occasione sua, che fu la mala volontà dell’amministrazione municipale romana a compiere il dover suo di apprestare un buon piano regolatore. Capovolgendo le responsabilità, i demagoghi non osano riconoscere che la speculazione «antisociale» – la quale fa crescere i valori delle aree fabbricabili, fa costruire case immonde, alveare di abitatori infelici, distrugge parchi e giardini necessari alla vita cittadina, fa, al luogo di antiche nobili costruzioni, adatte alla statura dell’uomo, crescere edifici dei dieci piani, rumorosi e fatiscenti innanzi di diventare vetusti – è frutto esclusivo della incapacità dei pubblici amministratori locali e dei loro sorveglianti statali ad imporre norme acconce all’altezza delle case, alla larghezza delle vie, alla distribuzione dei quartieri cittadini, alla sistemazione della rete stradale attorno al centro storico delle città, serbato intatto nel suo tradizionale aspetto.

 

 

Incapaci ad attendere al loro dovere, i demagoghi risuscitano il frusto strumento dell’imposta sulle aree fabbricabili, creata in odio (così correva la terminologia dei tempi quando usavano le parole appropriate) ad una classe particolare di contribuenti già, ad ogni fine, tassabili al pari di ogni altro contribuente.

 

 

L’imposta reprimerà, sì, un tipo di speculazione, quella feconda, vantaggiosa all’interesse pubblico, quella che ritarda la fabbricazione al momento della maturità economica dell’area. L’imposta sedicentemente nuova provoca la fabbricazione anzi tempo delle aree, copre di cemento i giardini superstiti nel centro delle città, crea, colla distruzione apparente di valori, ossia col loro trasferimento da talun proprietario a coloro che approfittano del latrocinio pubblico per innalzare grattacieli e sconcezze edilizie, la possibilità per gli speculatori di ricostruire, a proprio vantaggio, valori, che sono insopprimibili, perché voluti da una domanda di case derivante dal crescere e dall’arricchire della popolazione e sono ingigantiti dalle erronee direzioni date alla edilizia da amministratori imprevidenti. Il legislatore crede di essere partito in guerra contro gli speculatori; ed il risultato dell’opera sua è soltanto quello di sostituire allo speculatore costretto a secondare lo sforzo di saggi amministratori a pro della città soleggiata, bella, bene distribuita, rispettosa del passato e desiderosa di emularlo in avvenire, taluni inverecondi trafficanti, pronti a trarre buon partito dalla mala condotta di amministratori inetti, forse involontariamente, ad indirizzare la città verso un avvenire non indegno del passato. Vano è predicare contro il male, come a lungo tentai di fare nei Saggi sul risparmio e l’imposta (vol. primo di questa serie) e nei presenti Miti e paradossi. Sia consentito tuttavia di dire a giustizieri ed a demagoghi, a dottrinari e ad esperti, che il già scarso rispetto, dimostrato nel testo verso di essi, è purtroppo scemato nei venti anni corsi dalla pubblicazione del mio scritto.

 

 

Se non nel campo infecondo della inventività fiscale, gli studiosi teorici dell’imposta non hanno offerto in tanti anni nuova materia di meditazione intorno ai massimi problemi tributari? La risposta è affermativa ed è ragione di sperare in ulteriori avanzamenti nella ricerca scientifica. Essi hanno compiuto tentativi ragguardevoli proprio nel campo che sta a fondamento della trattazione tributaria. Parecchi e valorosi economisti hanno affrontato il problema del no-bridge, della non confrontabilità delle soddisfazioni sperimentate da persone diverse. Lo stimolo non è venuto dal desiderio di dare un significato a quella che nel testo ho detta tabella benthamiana della distribuzione ugualitaria dell’imposta su due o più contribuenti (par. 219); ma dal desiderio di guardare più in fondo a quello che oggi da molti è reputato il problema primo della teoria e della politica economica: l’economia del benessere. Gli uomini, i politici, i riformatori prima hanno «fatto» politica del benessere; hanno cercato di aumentare la ricchezza o, meglio, il benessere degli uomini, del più degli uomini. Hanno smussato le disuguaglianze sociali; hanno instaurato un sistema di assicurazioni sociali, sugli infortuni, le malattie, la invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione; hanno costruito case popolari, hanno distrutto abituri indegni della convivenza umana; hanno rese meno frequenti le crisi; anzi le hanno nell’ultimo quarto di secolo, con una saggia politica di banca e di tesoro, praticamente abolite. La disoccupazione è scomparsa, nei paesi moderni civili. Non è grande il trionfo? Non è legittimo il vanto di avere accresciuta la quantità di quella entità misteriosa, non agevolmente definibile, che si chiama «benessere»; e non si compone della sola «ricchezza» misurabile e sommabile, traducibile mentalmente in moneta. Il «benessere» è diverso ed è qualcosa di più della ricchezza; è un composito di ricchezza, di contento, di buone relazioni sociali, di governo ordinato, di famiglie, anche se piccole, salde, di mancanza di invidia e di odio fra ceto e ceto, al cui posto si afferma la emulazione che eleva i mediocri e non abbassa moralmente i grandi.

 

 

In fondo all’animo dei politici operanti è tuttavia sempre rimasto un’interrogazione: che cosa abbiamo fatto? si può tentare di conoscere se ed in quale misura abbiamo realmente aumentato il benessere dei molti, dei più, di tutti? Se con imposte ad aliquote fortissime sugli alti gradini di reddito, noi abbiamo scemato la ricchezza dei pochi, di quanto è stato ridotto il benessere di questi pochi e quale relazione ha la riduzione con l’aumento del benessere dei più? La domanda rende testimonianza di una coscienza elevata da parte della classe politica la quale, dopo avere operato a vantaggio, a suo parere, della collettività, sente il dovere di porsi il quesito: quanto bene e quanto male ho fatto? Il primo supera e di quanto il secondo? Domande ansiose, alle quali non si dà risposta, sinché di mezzo sta l’ostacolo del no-bridge, la mancanza di un ponte estimativo di comunicazione tra le soddisfazioni, tra i piaceri e le sofferenze di ogni uomo e quelle di ogni altro uomo.

 

 

A costruire il ponte, si sono accinti studiosi insigni e raffinatissimi; e la loro opera, se non ha toccato nè sta per toccare la meta, non è stata vana. Federico Caffè ha raccolto a vantaggio dei lettori italiani (Torino 1956, Edizioni Scientifiche Einaudi) una silloge preziosa di Saggi sulla moderna economia del benessere in cui uomini insigni come A. C. Pigou, N. Kaldor, T. Scitowsky A. Bergson, H. Hotelling, I. R. Hicks, I. M. Little, K. I. Arrow, P. A. Samuelson tentano di giungere alla soluzione del problema, forse il più difficile e il più solenne dell’oggi, delle confrontabilità interpersonali.

 

 

Anche se la soluzione non è in vista, anche se il vigoroso assalto contro il concetto dell’utilità posto a base della scienza economica condotto dal Robbins (An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, 1932) sembra serbare intero il suo valore, anche se nella prefazione alla silloge preziosa il Caffè reputa «difficile non condividere l’avviso di M. W. Reder secondo il quale “lo stadio attuale dell’economia del benessere è del tutto insoddisfacente”»; sono d’accordo col curatore della silloge nel condannare l’eccessivo scetticismo che fa propendere taluno a considerare quasi esercizi accademici o scolastici i saggi consacrati allo studio del problema. Forse, l’ostacolo maggiore all’avanzamento verso la scoperta di nuovi veri in questo campo è la virtuosità elegante degli indagatori, i quali si indugianonello scavare a fondo dentro a problemi i quali ad un certo momento per la sottigliezza degli escavatori paiono fin troppo evanescenti. Chi legga il volume, il quale per ora è non solo il più ampio ma anche il più meditato, A Critique of Welfare Economics (1950) del Little non può non formulare il voto che nuovi studiosi, i quali sappiano resistere alla tentazione delle esercitazioni accademiche raffinate, con scambi senza fine di «componimenti» (papers) fra insegnanti, assistenti ed aspiranti assistenti, con inserzioni di esercizi matematici di giovani valorosi estranei a qualunque interesse economico propriamente detto; affrontino il problema del no-bridge con l’aiuto della logica normale e col proposito di dare un contributo alla soluzione di problemi economici propriamente detti su cui essi abbiano a lungo meditato; non si può non formulare il voto che essi ci dicano una parola, se non definitiva, la quale per la natura stessa dei problemi economici o sociali in genere non potrà venire mai, tuttavia illuminante e chiara.

 

 

Per ora, la conclusione che io traggo dallo stato odierno degli studi sul problema del no-bridge è quello della prudenza pratica. Ne quid nimis.

 

 

Questo libro sarebbe stato scritto invano se non desse un contributo a gettare scherno e vilipendio sulla boria dei dottrinari e ad insegnar prudenza ai teorici in materia di imposte. Disprezzo per i giustizieri i quali esaltano l’Inghilterra solo perché vagamente si sono persuasi essa abbia toccato il sommo della giustizia quando ha colpito col 98 o col 99% gli scalini altissimi di redditi e così facendo gli scalini sono, per la loro inutilità per i percettori, presto distrutti; e consigli di prudenza ai teorici i quali stanno doverosamente affaticandosi intorno alla determinazione di una scala di aliquote atta nel tempo stesso a ridurre le altezze massime dei redditi e serbare forte lo stimolo al lavoro ed al risparmio. Sovratutto i teorici, quelli seri, non invasati dallo spirito di una giustizia fondata su premesse dottrinali arbitrarie, siano consigliati a prudenza dal pensiero che l’imposta non è un mero fatto economico. Il rigore dell’analisi economica, il rispetto della logica interna propria di ogni istituto tributario sono la premessa, il punto di partenza; ma la conclusione sul pro e sul contro delle novità ogni giorno offerte sul mercato delle riforme tributarie non può essere soltanto dedotta dal calcolo monetario. Il bene stare di un corpo politico non è fatto solo di beni materiali. Le azioni, i regni, gli imperi crescono o decadono per ragioni sovratutto morali e spirituali. Anche l’imposta è un fattore di stabilità o di decadenza; ed il momento nel quale essa da fomento di stabilità diventa provocatrice di decadenza è decisivo per l’avvenire dello stato. La rovina dell’impero romano d’occidente apparve inevitabile, non quando mancarono le distribuzioni di frumento nella capitale del mondo e non giunsero più nei circhi belve e gladiatori e cristiani in numero bastevole al divertimento della plebe, ma ben prima quando nei municipii delle province gli uomini tremarono di essere chiamati ad assumere la responsabilità, come decurioni, del versamento delle imposte allo stato ed affannosamente cercarono di addirsi a mestieri vili ed infami, pur di sottrarsi all’obbligo del tributo solidale con gli altri cittadini, e alla fine disperatamente chiesero rifugio ai barbari.

 

 

Noi siamo lontani ancora dal punto critico; e giova sperare che l’aspirazione ansiosa degli studiosi verso la creazione di un bene stare sempre migliore dei popoli non si ristringa ad un bene stare materiale, che potrebbe significare e provocare invidia, odio e decadenza, ma sia anche e sovratutto un bene stare morale e spirituale e significhi emulazione di individui, compattezza di famiglie e saldo ordinamento di ceti e di ordini sociali; che sono i sentimenti dai quali nascono gli stati grandi.

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