Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1953

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953

Con poche eccezioni, la silloge che qui si presenta, è composta di saggi pubblicati tra il 1933 ed il 1941 nella rivista La Riforma Sociale e poi, quando questa fu soppressa dal regime fascistico, nella Rivista di storia economica che forse parve ai governanti del tempo meno fastidiosa a cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già il Sismondi, in una lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi che la censura offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel dichiarare la verità invisa ai tiranni; sicché il numero dei lettori ed il potere di persuasione su di essi crescono più di quanto non accada in tempi di libertà, quando la facilità del linguaggio e la violenza delle polemiche alienano il pubblico.

I saggi datati dal 1936 al 1941 agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi scrive di discutere problemi contemporanei. Fanno eccezione, per data, il saggio sul Galiani scritto nel 1944 e pubblicato nel 1945 in una rivista svizzera; la recensione del 1951 ai primi due volumi della edizione critica delle opere di Davide Ricardo procurata da Piero Sraffa; e l’elenco degli scritti di e su Adamo Smith aggiunto ad occasione della presente ristampa al saggio su Adamo Smith. L’aggiunta novissima ricorda l’origine prima degli scritti oggi raccolti; che fu il tentativo, iniziato col titolo di Viaggio tra i miei libri e mai condotto a termine, di offrire agli studiosi italiani di cose economiche un complemento ai saggi bibliografici di Luigi Cossa, con i quali esso non intendeva tuttavia rivaleggiare per compiutezza, a causa del vincolo posto all’elenco di comprendere solo i libri da me posseduti intorno ad alcuni autori, ad esempio Francesco Ferrara, Adamo Smith, Federico Le Play; e l’elenco avrebbe dovuto seguitare per altri autori ed estendersi ad alcuni problemi particolari a torto od a ragione preferiti. Il tentativo, nella sua voluta esclusione dei libri non voluti o non potuti acquistare, non sarebbe stato senza qualche utilità alla quale nel testo (pp. 3 e segg.) si fa riferimento. Direi che esso sia fallito forse soltanto in ciò che l’elenco pretendeva altresì indicare di passata il prezzo probabile di mercato o ragionevolmente spendibile per l’acquisto dei libri descritti. Provvide la svalutazione della lira a rendere quei prezzi – che non mutai per non aggiungere errore ad errore – antidiluviani; ma provvide anche l’interesse nuovamente destatosi in Italia per i libri economici antichi o vecchi od esauriti. Quando cominciai a raccogliere, conoscevo un solo rivale pericoloso ed era l’amico, e collega nell’ateneo torinese, Giuseppe Prato. A poco a poco, i ricercatori si sono moltiplicati ed io che sono forzato a sfogliare rapidamente e con ritardo i cataloghi, ben di rado sono oggi fortunato nell’ottenere i pezzi rari. Qua e là nel testo si leggono perciò auguri di aumento nel numero dei ricercatori, auguri oggi fortunatamente avverati, particolarmente ad opera di amatori di libri economici viventi fuor dalla confraternita accademica e forse perciò atti a pagare i prezzi egregi odiernamente richiesti dai librai antiquari e sovrattutto da quelli di costoro che meritano successo per la preparazione specifica bibliografica (cfr. pagina 215 in nota).

Su questo punto e su qualche altro (ad es. i cataloghi dei libri posseduti da Adamo Smith e le sconcezze accadute nel ristampar Ferrara, Senior, Rae) il lettore riscontrerà ripetizioni noiose; rimaste vive a cagion del fastidio di rimaneggiare scritti venuti alla luce compiuti in se stessi, e dunque privi di riferimenti ad altri scritti allora non pubblicati o volti ad altro proposito. Qualche ripetizione, fra le più grosse, fu potuta togliere, ad esempio nel saggio su Galiani; ed anche lì qualche brano fa doppio con quello del vicin saggio sulla moneta immaginaria, ma non poteva essere cancellato senza lasciare l’argomento in aria. Nonostante i quali vizi, il volume, che in fondo avrebbe potuto anche essere intitolato, dal primo saggio in esso contenuto, Viaggio tra i miei libri non mi dispiace troppo.

Innanzitutto, quei libri, essendo dovuti a penne insigni, hanno benevolmente consentito a servirmi da utile attaccapanni. Non sempre accade di avere sottomano nomi come quelli di Ferdinando Galiani, di Adamo Smith, di Francesco Ferrara o di minori di gran levatura, anche se non troppo letti o persino dimenticati, come il marchese d’Argenson, Sismondo de Sismondi, Francesco Fuoco, Carlo Ignazio Giulio, Antonio Scialoja e di potere prendersi il gusto di riprodurre e commentare qualcuna delle loro teorie, particolarmente se contrastanti con la descrizione che di essi si legge nella letteratura manualistica od in quella, più contennenda, degli anti-qualcosa, anti-economisti, anti-fisiocrati, anti-liberisti, anti-classicisti, anti-socialisti, ecc. ecc.

Non fa piacere, a cagion d’esempio, citare, sulla faccia dei frettolosi sempre pronti a sparlare di Adamo Smith, come dell’arcibarbasso del capitalismo e del liberista difensore dei privilegiati, le parole sue proprie nelle quali si legge una infiammata condanna della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro? (qui, pp. 97-99). Chi parla per sentito dire, vede teorici e teorie attraverso una nebulosa di tipi generici; chi legge i testi vede l’uomo.

Uno dei motivi fondamentali del presente vagabondaggio attraverso i miei libri è perciò l’antipatia, che pare non di rado volgersi in disprezzo, verso il tipo classificatorio nella storia delle idee economiche. C’è certa gente la quale non è contenta se ad ogni scrittore non ha appiccicato un cartellino con su scritto: giusto prezzista o canonista, mercantilista, fisiocrate, liberista, protezionista, socialista, utopista, socialista scientifico o marxista, socialista cattolico, socialista della cattedra, economista matematico, istituzionalista, walrasiano, marshalliano, paretiano, keynesiano, econometrico ecc. ecc. Non sono state ancora coniate parole adatte per indicare coloro che particolarmente indagano le variazioni dinamiche della società economica o puntano sul concetto del reddito sociale per descrivere il meccanismo economico contemporaneo; ma quando gli aggettivi appropriati saranno scoperti ed accettati, guai a chi tocca! Sarà degli ultimi modernissimi come dei vecchi antiquati: mai più potranno salvarsi dal cartellino. Inutilmente Adamo Smith o Francesco Ferrara hanno scritto pagine che soltanto essi, che erano quegli uomini in carne ed ossa, con quella testa, fatta così, potevano scrivere e che nessun loro contemporaneo o predecessore o seguitatore sarebbe mai stato capace di scrivere. Tutto inutile: Adamo Smith è il capo degli economisti liberisti, il fondatore della scienza economica classica; Francesco Ferrara è l’economista liberista principe del risorgimento italiano; ossia amendue sono niente, sono meri caposcuola, la cui dottrina è conosciuta principalmente per la caricatura fattane dai loro nemici protezionisti o socialisti; come, inversamente, List, arcifanfano dei protezionisti, è conosciuto attraverso la caricatura che del protezionismo usano fare i liberisti spiccioli; e Saint-Simon, Fourier e Proudhon sono noti per il vilipendio accumulato dai socialisti detti scientifici sulla loro testa utopistica. Dal vagabondare, mosso dalla curiosità del leggere i testi originali della gente etichettata e perciò infamata, ho tratto una convinzione: che alle istorie delle “scuole” economiche, buone al più per agevolare durante gli esami agli studenti pigri una risposta facilmente mandata a memoria, fa d’uopo sostituire urgentemente schizzi di economisti singoli, scelti a volta a volta tra i grandi, i bravi e, perché no?, tra i cattivi. Che cosa importa, a cagion di esempio, di sapere se Ferdinando Galiani fosse mercantilista o liberista? Assolutamente nulla. Tanti altri meritarono di essere etichettati con quei nomacci; e lo meritarono perché non dissero nulla, non trasmisero agli uomini nessun messaggio, limitandosi a ripetere quel che tanti dicevano. Invece Galiani disse, sui 20 anni, qualcosa di suo; e di nuovo disse di suo qualcos’altro sui 40. Questo è quel che importa scavare nei suoi scritti e non le solite classificazioni o categorizzazioni od etichettature che lo fanno scomparire in mezzo alla folla grigia di color che mai non furono. Dopo aver scavato si scopre che Galiani non è né fisiocrate né antifisiocrate, né liberista né protezionista; ma era semplicemente Galiani, l’uomo di ingegno più pronto ai suoi giorni, di Francia e di Italia, l’uomo che per divertirsi prendeva in giro tutti i sopracciò meditanti a vuoto e presentandosi a Luigi XV nei saloni di Versailles, lui piccolo di statura, come un échantillon d’ambassadeur, si procacciava universali simpatie da re e da cortigiani, già pronti a ridere della sua schiena alquanto curva. Val la pena di classificare un uomo, il quale tant’anni prima se ne parlasse come di scoperte, applicava lo strumento delle successive approssimazioni, usava, sulle orme di Vico, il metodo storico, esponeva chiarissimamente il principio della decrescenza dell’utilità delle dosi successive di un bene, risolveva il paradosso, lasciato insoluto dal Davanzati, dell’utilità somma e del valore nullo dell’aria e dell’acqua, dichiarava, meglio di tanti moderni, i vantaggi ed i danni delle svalutazioni monetarie ed inventava una clausola, che dal suo nome dissi galianea la quale, se applicata, avrebbe risoluto i problemi fastidiosi del bimetallismo oro ed argento e resa evidente la verità che le variazioni dei cambi sono un fatto interno, dei cui inconvenienti non è lecito dar la colpa all’”odiato straniero”?

In luogo di etichettarlo, collocandolo in una finca qualunque, diciamo che Galiani era un genio rarissimo, di cui i libri si leggono oggi con lo stesso stupore e la medesima gioia di quando vennero alla luce; e diciamo invece che il suo contemporaneo marchese Girolamo Belloni, nonostante le recensioni laudatorie dei competenti e le epistole gratulatorie di Pietro Metastasio alla sua dissertazione Del Commercio, stampata in varie edizioni, di lusso ed ordinarie, può essere bensì catalogato, a libito dello scrittore di storie per ragazzi, tra le scritture post mercantiliste ovvero tra quelle precorritrici del corporativismo; ma è certamente una testa fatua, scientificamente piena di pappa. Anche le scritture fatue sono tuttavia non di rado utili. Poiché tradizionalmente il Belloni godeva fama di economista, sicché il Custodi l’aveva ristampato nella sua grande raccolta, parve obbligatorio, dopo la prima lettura giovanile, rileggerlo di proposito un giorno che mi capitò, mentre curavo l’edizione di cose edite di Bodin e di Malestroit e di una inedita da me scoperta a prima apertura di un catalogo della “Bibliotheque Nationale” di Parigi – e la scoperta ancor oggi parmi stravagante, tanti erano stati gli eruditissimi uomini i quali avevano studiato la celebre polemica monetaristica, e ne avevano letto la chiusa, la quale accennava ad un seguito – di provare il dovere di intendere, un po’ meglio di quanto prima non intendessi, il significato di una entità misteriosa detta «moneta immaginaria». Leggendo, mi avvidi che il Belloni era un povero diavolo che si sforzava con gran tramestìo di parole, di spiegare altrui ciò che egli stesso non intendeva. Sicché mi venne voglia di andare a fondo di quel significato e scrissi la «teoria della moneta immaginaria» (vedila in questo volume a pp. 229-266) nella quale misi innanzi una spiegazione di quella moneta, che allora «mi parve nuova» (p. 261) e di cui ancora oggi non so chi l’avesse dichiarata innanzi di me. Sia vera o sbagliata, di quella interpretazione storica sono debitore alla rabbia provata nel non riuscire a comprendere quel che al povero Belloni pareva di avere chiarissimamente spiegato; nella stessa guisa in cui anche oggi banchieri fortunati – ed il Belloni meritatamente con la banca aveva guadagnato denari e si era procacciato dal papa il titolo di marchese – od industriali valorosi espongono ad esterrefatti studiosi di cose economiche pensamenti che ad essi paiono l’evidenza medesima e sono invece scatoloni vuoti di un qualsiasi contenuto.

Per avermi costretto ad intendere od a tentar di intendere quel che egli non era riuscito forse a capire e certamente a chiarire altrui, tengo caro, tra i miei libri, la bella copia di una edizione della dissertazione sul commercio di Girolamo Belloni. Anche i libri nulli possono giovare a chi li legge, se riescono ad infuriarlo dapprima contro se stesso, per la inettitudine ad intendere cose dichiarate evidenti, e poi contro l’autore, scoperto in peccato di vuota superbia.

Se talun libro merita di essere tenuto caro per lo stimolo fornito ad apprezzarne la nullità, altri libri diventano cari perché, leggendoli, a poco a poco ci si persuade che sono libri grandi non solo per le qualità da tutti ammirate, ma per altre, di cui non si discorre negli scritti dei discepoli e degli ammiratori, qualità che dapprima sono intuite in confuso e lentamente si chiariscono, sino ad imporsi con l’evidenza della verità sicura. È il caso della sessantina di opere elencate in fine del presente volume tra quelle scritte da e su Federico Le Play. Notissimo e citatissimo come autore dei bilanci dei beni di famiglia e della libertà testamentaria; ricordato come propugnatore di una sua riforma sociale, fondatore di un metodo di studio dei fatti sociali, Federico Le Play mi apparve, attraverso la lettura di quasi tutto ciò egli scrisse, pensatore di ben altra grandezza. Egli non si indugiò soltanto, come tanti moderni, a raccogliere notizie sulle condizioni dei cittadini e dei rustici, sui prezzi, sulle imposte, sui costi, sui mercati, sulla produzione e sulla vendita – e ne raccolse con scrupolo sommo molte ancor oggi degne di meditazione – ma al di là di queste «grossissime bazzecole» (sotto pag. 341) ricordò che Olivier de Serres, autore di quel Théâtre d’agriculture su cui Enrico IV amò istruirsi per trarne guida nelle cose dello stato, reputava fondamento principalissimo di successo nel governo della terra da parte del capo famiglia la scelta «d’une sage et vertueuse femme, pour faire leurs communes affaires avec parfaite amitié et bonne intelligence…, estant la femme l’un des plus importants ressorts du ménage, de laquelle la conduite est à préférer à toute autre science de la colture des champs». Meditando sulla quale massima e sulle fazioni compiute percorrendo a piedi l’Europa dalla Spagna agli Urali e dal Mediterraneo alla Scandinavia, Le Play perfezionò, avanti lettera, le teorie di Mosca e di Pareto intese a spiegare le ragioni in virtù delle quali, in tutti i regimi e sotto l’impero di tutte le costituzioni, la minoranza governa e dirige la maggioranza. La classe politica di Mosca e la élite di Pareto governano popoli perché hanno le virtù fisiche, economiche, intellettuali necessarie a dirigere ed a dominare le moltitudini. Esistono in ogni paese ed in ogni tempo i ceti dirigenti atti a tenere in mano il governo; procacciando a sé potere e ricchezza e talvolta fomentando le scienze, le lettere, le arti, e forsanco crescendo il benessere delle popolazioni. Gli scrittori italiani del cinquecento dicevano «virtuosi’» costoro; ma la virtù era spesso sinonimo di abilità, astuzia, inganno, tradimento, assassinio. Le classi dirigenti posseggono le virtù atte al dominio; ma son virtù, che le farebbe non di rado dannare da Dante all’inferno. Le Play fece altra ricerca e scrisse nelle monografie di famiglia contenute nei sei volumi degli Ouvriers Européens una strana e stupenda storia dell’umanità. La sua classe eletta non si identifica con la classe politica di Mosca o con la élite di Pareto; ma la classe eletta che egli chiama delle «autorità sociali» e si conosce dai risultati. Se questi sono di discordia e di dissoluzione noi vediamo soltanto ceti dominanti; se essi sono di prosperità riconosciamo la presenza degli «eletti» ed i popoli se ne lasciano guidare senza uopo di coazione politica. Ma la prosperità di Le Play non è quella economica; sibbene quella morale derivata dalla osservanza del decalogo e da essa deriva a sua volta la prosperità economica o, meglio, una peculiare specie di prosperità economica, dove, al luogo dell’invidia e dell’odio, si contemplano la pace e la stabilità sociale. Laddove sempre, pure nelle società volte alla dissoluzione ed alla morte, esistono ceti governanti e dirigenti, la classe eletta è quella che fa durare nel tempo stati e nazioni. Di avere veduto, accanto allo statistico, al sociologo ed al riformatore, in Federico Le Play lo storico ed il teorico politico debbo ringraziare la passione, che, per gli autori preferiti ed i problemi che mi inquietarono mi spinge ad arricchire a poco a poco le piccole raccolte il cui insieme forma la mia biblioteca. Che importa se essa sia di tanto inferiore a quelle celeberrime delle quali discorro nel primo dei saggi contenuti in questa silloge? E se in essa si osservano spaventevoli lacune in argomenti da tutti i miei confratelli riputati di grande rilevanza? I libri che un privato raccoglie hanno il compito di servire a lui od ai suoi scolari; ed a me, che non uso e non leggo altri libri fuor di quelli che so di poter ritrovare in casa senza chiederli in prestito altrui, giovarono a scrivere i saggi che l’editore vuole oggi ripresentare agli sperati quattro lettori. Ai quali il libro vorrebbe offrire un solo insegnamento: di non mai citare alcun libro se non lo si ha avuto materialmente in mano e di non fidarsi di alcuna citazione altrui, senza averla con i propri occhi verificata. E poiché questo ideale non sempre si può raggiungere, non aver vergogna di confessare che si è quella volta letto attraverso occhi altrui. Nobile confessione, che onora il peccatore.

Dogliani, nel luglio del 1952

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