Piemonte liberale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/10/1922
Piemonte liberale
«Corriere della Sera», 14 ottobre 1922
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 889-896
Non ho assistito al congresso liberale di Bologna; ma dai rendiconti dei giornali è stato agevole avvertire come, accanto ad un contrasto di idee, si sia manifestato altresì un contrasto regionale. O meglio, i due contrasti si sovrapposero e quasi si fusero; poiché la tendenza democratica ed unitaria, la quale vorrebbe abbracciare tutte le gradazioni dei partiti costituzionali, ha avuto come difensori o, secondo la bruttissima e insensata parola venuta ora di moda, come «esponenti» i membri della delegazione piemontese, e sovratutto delle delegazioni di Torino e di Cuneo; mentre la tendenza, che finì di prevalere, verso la chiarificazione delle idee ed il ritorno al puro e vero liberalismo, con accentuata coloritura nazionale, si impersonò sovratutto nelle delegazioni emiliana e toscana.
Può non essere inutile, in queste condizioni, una analisi psicologica di quello che è il liberalismo piemontese; e sovratutto del liberalismo di quella parte del Piemonte che nella terminologia prerivoluzionaria si chiamava il «Piemonte antico», il quale non comprendeva i circondari delle due province di Alessandria e Novara, comprese le capitali, più vicine alla Lombardia, aggregati al Piemonte solo dopo le paci del 1713, 1740 e 1748. C’è molto sangue lombardo in quelle zone di confine e mancano ivi le caratteristiche fondamentali piemontesi; le quali sono spiccate invece nella provincia di Torino e scultorie addirittura nella provincia «granda» che è quella di Cuneo.
I liberali piemontesi sino a pochi anni fa erano rimasti i soli a contrastare il passo ai socialisti. Mentre altrove fiorivano radicali, riformisti e conservatori, in Piemonte due sole parti politiche si contendevano il campo: liberali da una parte e socialisti, tutti «ufficiali» questi ultimi, dall’altra. Recentemente sono venuti fuori i popolari ed i fascisti, con qualche punta di nazionalisti. Ma i popolari vengono volontieri ad accordi, nel campo municipale, coi liberali; ed i fascisti hanno abitudini più tranquille, più ossequienti alla monarchia che in altre parti d’Italia. Qualche spedizione punitiva rumorosa, come quella alla camera del lavoro di Torino, si ebbe anche da noi; ma, tutto sommato, non fu il finimondo. In provincia di Cuneo, poi, socialismo e fascismo quasi non si fanno sentire; ed il capo dei popolari, il ministro delle finanze Bertone, è considerato dai più come il rappresentante ufficiale del giolittianesimo in seno al partito di don Sturzo.
Parecchie conseguenze interessanti sono derivate da questa egemonia dei «liberali» su tutto ciò che non fosse socialismo. Il liberalismo più che una dottrina, più che un insieme di principii, che il politico dovrà applicare adattandoli alle contingenze dei casi e della vita, senza però mai perderli di vista, è diventato in Piemonte uno stato d’animo. Lo stato d’animo di quella classe media, che dalla rivoluzione liberale del 1848 aveva ereditato la consapevolezza di essere la figlia degli «strassön» che i nobili guardavano con sussiego, e non concepivano come il re potesse adattarsi a ricevere a corte e far suoi ministri; e che dalla lunga consuetudine del potere, dopo il connubio Cavour-Rattazzi, aveva ereditato altresì la credenza ad una specie di diritto acquisito al governo del paese. Questa classe media destinava principalmente alla vita politica i suoi professionisti, avvocati in primo luogo; e ingenuamente era persuasa che ad essi spettasse diventare sindaci, consiglieri comunali e provinciali, deputati e ministri. In una regione dove la facondia è scarsa, i discreti ed i buoni parlatori acquistavano facilmente influenza e furono mandati a Roma. Aiutati dal fatto che fu il Piemonte a fare l’Italia e dall’altro fatto che Rattazzi, Lanza, Sella, Depretis, Saracco e Giolitti furono primi ministri piemontesi e portavano su i loro amici, i deputati piemontesi diedero un fortissimo contingente ai gabinetti italiani; radicando sempre più negli uomini che si dedicavano da noi alla vita pubblica la convinzione che fosse cosa naturale per essi giungere ai fastigi del potere. E sebbene da molti osservatori fosse rimarcata una certa decadenza intellettuale nella deputazione piemontese, una prevalenza, forse più spiccata che in altre regioni, del mediocre e del semplicemente «brav’uomo», sebbene i migliori parlatori di qui facessero talvolta grama figura a Roma – fa senso sentir certi periodi a sghimbescio di uomini che furono al governo e certi «potressimo» al luogo di «potremmo» pronunciati al banco ministeriale – tuttavia la stupefazione altrui non ha mai impedito agli uomini politici piemontesi di fare fortuna a Roma.
Giovò ad essi, a parer mio, lo stato d’animo a cui accennai sopra. A poco a poco la dottrina liberale che fu di Cavour, divenne un mito; una di quelle parole le quali, insieme col re e la patria, le gloriose battaglie del risorgimento nazionale, lo statuto e la marcia reale, costituiscono suppergiù tutto il contenuto spirituale dei discorsi politici pronunciati nei banchetti dei comizi elettorali, e delle feste per il ponte, la ferrovia, la bandiera nuova e simiglianti occasioni. Il liberalismo sentito dalla classe politica piemontese non ebbe più se non un rapporto tenuissimo con la dottrina liberale. Essere «liberale» fu inteso come sinonimo di «non aristocratico», «non socialista rivoluzionario», «non anarchico», insomma come sinonimo di persona che non va negli eccessi, che si comporta bene, che non dice male parole. «Liberale» nel senso piemontese della parola volle dire accogliente, amico con tutti, pronto a far favori, potendo, a tutti, disposto ad accettare le idee buone da tutti, da qualunque parte vengano, con qualche sospetto soltanto verso le idee che potessero essere tacciate di aristocratiche – ora che l’aristocrazia quasi non c’è più anche queste ripugnanze vengono meno – o di clericali – ma adesso che i popolari crescono, anche i giornali, notoriamente, un tempo, massoni, non hanno più la rubrica del «sacco nero»; e senza nessun sospetto verso le idee socialiste e rosse ed estreme in genere. Purché socialisti e comunisti ed ora anche fascisti si comportino bene, non vogliano tutto d’un colpo, i liberali piemontesi sono prontissimi ad affermare che si può fare con essi lunga strada. La politica del «carciofo» che fu quella adottata da Casa Savoia per mangiarsi a poco a poco i territori circostanti al Piemonte «antico», è la politica oramai tradizionale del liberalismo piemontese. Bisogna ammansare i partiti estremi, adescandoli, facendoli entrare nell’«orbita» delle «istituzioni», adottando la parte «buona» delle loro dottrine; facendo vedere «coi fatti» che i liberali non hanno paura di nessuna novità più «ardita» purché questa sia attuata con prudenza e con garbo.
C’è molta sapienza pratica e molto buon senso quotidiano in questa condotta, che i piemontesi, duci insuperabili Depretis e Giolitti, hanno insegnato all’Italia di guisa che oggi si stenta a riconoscerne l’origine. C’è anche una certa ripugnanza per la fatica intellettuale in questa riduzione del liberalismo ad una norma di condotta puramente negativa: quella di non andar negli eccessi, non prete e non comunista espropriatore, niente di accentuato, di preciso, di tagliente. Giusto mezzo in tutto; prendere il buono da tutte le teorie, senza respingerne nessuna. Per un liberale piemontese, il dilemma posto al Comunale di Bologna dal sen. Albertini: o siete seguaci di Cavour ed allora dovete essere liberisti, o siete protezionisti ed in tal caso non potete credervi eredi della tradizione cavouriana, non solo non ha senso, ma è addirittura incomprensibile. Che cosa ha a che fare col liberalesimo la disputa fra liberismo e protezionismo; che cosa quella fra proprietà privata e socializzazione? Ma «liberale» non vuol forse dire far come l’ape che sugge il dolce licore da tutti i fiori? Perché, in nome di una teoria, respingere il bene, se questo ci è offerto in nome di un’altra teoria?
Ecco un’altra caratteristica essenziale del liberale piemontese: l’aborrimento delle teorie.
È oramai un vizio generale di tutti gli uomini politici di tutte le regioni italiane l’aborrimento delle teorie; e si sa che, in parlamento, l’accusa più grave che si possa fare ad un uomo politico è di essere un «teorico». I «professori» che vanno alla camera cercano di fare dimenticare questa loro qualità, astenendosi da qualunque sfoggio di dottrina e fingendosi quanto più loro riesce, ignoranti e «pratici». Guai a loro, se non ci riescono! Non saranno mai relatori di nessuna legge importante, non sottosegretari, non ministri. Per citare un caso solo, è cosa certissima che tutti gli studiosi della generazione venuta all’università dopo il 1890 considerano come loro capo scuola in scienza finanziaria Antonio De Viti De Marco, professore nell’università di Roma. Anche coloro che dissentono da lui, lo tengono in alto onore e lo pongono primissimo fra i cultori della scienza. Orbene, alla camera, dove pur rimase non pochi anni, De Viti non fece carriera; ed io suppongo perché fu considerato un «professore» ed un «teorico».
Orbene, questa repugnanza verso i «teorici» è radicatissima in Piemonte, non solo nella classe politica, ma in tutte le classi tra le quali si reclutano i liberali. Non credo ci sia nessuna regione d’Italia in cui si faccia così poco conto dell’università e degli universitari come il Piemonte. Il professore universitario di Pavia, di Padova, di Pisa, di Roma, di Napoli, di Palermo, è qualcheduno. A Torino, salvo il sen. Carle, perché grande chirurgo, e pochi colleghi suoi clinici, per analogo motivo, i professori universitari contano zero via zero. Quando taluno di essi fa bene come assessore municipale o come sindaco – furono assessori Galileo Ferraris, Giuseppe Carle, è assessore oggi Panetti, insigne professore del Politecnico, ed è sindaco Cattaneo, dottore aggregato dell’Ateneo torinese e professore al Politecnico – si dice: Toh! non lo si crederebbe neppure, che un professore sapesse cavarsela così bene! Un grande industriale, tipico rappresentante dell’ardimento piemontese, a me che, insieme con un altro collega, lo interessavo in pro di una fondazione universitaria, finì di dir di sì, purché non si facesse della teoria. «Non abbiamo bisogno di teorici, bensì di pratici». È una ripugnanza singolarissima questa, quando la si contrasti col fervore di studi da cui fu percorso il Piemonte nel periodo glorioso di preparazione che andò dal 1826 al 1848. Come dimostrò Giuseppe Prato nella Biblioteca di storia recente della regia deputazione di storia patria di Torino, Cavour non fu un isolato. Fu un grande liberale, perché in quel torno di tempo nobili e borghesi erano tutti liberali in Piemonte. Liberali veri, fattisi sugli insegnamenti dei grandi classici della scienza. In nessuna città della Francia il «Journal des economistes» aveva tanti sottoscrittori come a Torino nell’epoca in cui Cavour si preparava, studiando e coltivando campi, al governo; ed in Piemonte ebbe origine e successo grande la maggiore raccolta di opere classiche economiche che il mondo vanti: la Biblioteca dell’Economista. Oggi, la U.T.E.T. successa ai Pomba nella proprietà della «Biblioteca» ha dovuto abbandonare l’impresa, perché il pubblico non compra e non legge libri seri di economia. Non è una denigrazione, ma una semplice constatazione di fatto, affermare che gli uomini, i quali costituiscono lo stato maggiore del partito liberale democratico nelle province di Torino e di Cuneo, non hanno nessuna dimestichezza con i libri in cui sono esposti i principii della dottrina liberale e non sentono affatto la privazione di quella conoscenza, che tuttavia parrebbe indispensabile. L’intellettualismo militante sembra essersi rifugiato a Torino nell’«Ordine nuovo» senza dubbio il più dotto quotidiano dei partiti rossi ed in qualche semiclandestino organo giovanile, come il settimanale «Rivoluzione liberale», sulle cui colonne i pochi giovani innamorati del liberalismo fanno le loro prime armi e, per disperazione dell’ambiente sordo in cui vivono, sono ridotti a fare all’amore con i comunisti dell’«Ordine nuovo».
Dopo le quali osservazioni, che solo in apparenza possono sembrare maligne, sia lecito a me, piemontese ed universitario, concludere che il liberalismo piemontese, pur così come è, è una grande forza. Esso sa organizzare e sa amministrare. A capo della federazione liberale democratica della provincia di Torino sta l’ing. Gay, ottimo organizzatore, uomo di grandi meriti, che ha saputo condurre parecchie memorabili battaglie e vincerle. Mentre in altre regioni, dove si discute di più e si va più a fondo delle cose e dove si sa che cosa sia il liberalismo vero, municipi e province cadevano in mano ai socialisti, qui Gay ed i suoi mettevano d’accordo i contendenti, venivano a patti con i popolari e con i fascisti e salvavano la città dal cadere nelle grinfie dei rossi, che avrebbero fatto de populo barbaro peggio che a Milano. Sull’altare della concordia, questi liberali sacrificavano, è vero, alle ire del Nume tonante l’unico liberista tra gli ex deputati piemontesi, il che vuol dire l’unico rappresentante del liberalismo vero, l’on. Edoardo Giretti, e fu uno scandalo indicibile. Ma, insomma, vincevano ed arginavano la marea montante della distruzione comunista. E dopo aver vinto, amministravano bene. Da Sambuy a Cattaneo, attraverso Voli, Frola, Rossi, Usseglio, per ricordare solo i sindaci di cui serbo memoria, abbiamo avuto a Torino una serie di buoni ed ottimi amministratori. L’ultimo, Cattaneo, ha rimesso il bilancio in ordine, senza far strillar troppo né impiegati né contribuenti. Più in generale, mentre la Lombardia fa pagare 66 lire di imposte e sovrimposte sui terreni, e il Veneto 52, l’Emilia 81 e la Toscana 34, il Piemonte fa pagare solo 29 lire; e se si escludesse Alessandria, già intinta di abitudini non piemontesi, si scenderebbe più in basso: in provincia di Cuneo a 24 lire e di Torino a 16 lire per ettaro. Le sovrimposte sono il 163% della imposta fabbricati nel Piemonte; ma vanno al 167% in Liguria, al 178% in Lombardia, al 215% in Toscana, al 273% nel Veneto e al 357% nell’Emilia. Ed ho citato solo regioni dell’alta e media Italia, in cui i servizi pubblici non sono peggio ma nemmeno meglio geriti che nel Piemonte. Il liberalismo piemontese non solo dunque è agnostico in fatto di dottrine e piuttosto repugnante dall’averne e disposto a far del socialismo o del popolarismo o qualunque cosa invece di lasciarlo fare ai partiti avversari estremi, che è sua suprema ambizione addomesticare e assorbire; ma anche sa organizzare ed amministrare bene. Brava gente insomma, senza troppi grilli dottrinali per la testa, ma che sa curare i fatti proprii ed altrui. Ventidue anni fa, quando questi liberali di scuola piemontese si apprestavano, dopo le giornate di Milano del 1898 e la tragedia di Monza, a riconquistar il potere, mi venne fatto, ingenuamente, di chiedere ad un uomo che poi ebbe grandissima parte nel governo d’Italia, quale fosse il rimedio che egli riteneva più efficace contro le turbolenze ed i disordini, che allora parevano già gravissimi e pericolosi per l’avvenire del paese. Mi rispose con due parole che mi restarono sempre in mente: gouvërnè bin, governare bene, il che non vuol dire nel genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo, dare un’impronta nazionale al governo dello stato, governare nel senso di Bismarck o di Cavour, ma «amministrare» con tatto, con sapienza, con competenza. Forse queste due parole sono la filosofia di ciò che vuol essere, ed in gran parte è il liberalismo piemontese. È una gran cosa. Per essere quella cosa di cui ha bisogno l’Italia nel momento presente, le manca solo sapere perché si deva governare bene, ossia le manca solo l’idea liberale. È qualche cosa ed è forse perciò che i piemontesi operano molto meglio a Torino ed a Cuneo, dove sono in giuoco questioni amministrative, che non a Roma, dove può essere accaduto al buon amministratore, un po’ arretrato con le idee che corrono il mondo ed un po’ al di sotto dei giganteschi problemi odierni, di dover far chiedere per telegrafo il titolo di un libro breve e semplice che gli spiegasse cosa fosse una certa diavoleria monetaria, il sistema del cambio aureo (Gold exchange system) di cui aveva sentito tanto parlare dai colleghi di Londra e di Parigi e di cui nessuno aveva mai fiatato nella camera italiana, la quale, si sa, è la scuola dove il novantanove per cento dei deputati italiani impara meglio che può, sentendone discorrere a spizzico, l’abicì di tutte le misteriose scienze sventuratamente necessarie, nei tristi tempi attuali, a governare un paese.