Per un programma navale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/09/1899
Per un programma navale
«La Stampa», 15 settembre 1899
Alcuni giorni fa noi abbiamo esaminato le conclusioni di un libro intitolato: Lo sfacelo della marina italiana, di Giorgio Molli, ed abbiamo esposto alcune delle molte cose giuste che l’autore dice intorno alle depresse condizioni della marina da guerra italiana. Vediamo ora se le proposte fatte dall’autore per rialzare le condizioni della marina italiana siano ragionevoli e consentanee allo stato del bilancio e dell’economia nazionali.
Per colmare le lacune, egli dice, della improvvida e fatale incuria dell’ultimo decennio urge la costruzione di tante navi da costituire un complesso di circa 150.000 tonnellate; per riparare i dislivelli dell’avvenire occorre assicurare la riproduzione del naviglio nella misura almeno da 35 a 40.000 tonnellate.
Secondo cifre tolte dallo stesso libro, la tonnellata di una corazzata o di un incrociatore corazzato vale 2.000 lire. Dimodoché converrebbe fare un prestito di 300 milioni di lire per avere subito le 150 mila tonnellate richieste per porci al livello degli altri paesi e portare ad 80 milioni circa la spesa annua per la riproduzione del naviglio che ora è ridotta, comprese anche le riparazioni, a 20 milioni. Supposto che i 300 milioni si possano mutuare al 4 e mezzo per cento (saggio tenue data la tendenza all’aumento nell’interesse) sarebbero tra interesse del mutuo e maggiori spese annue, circa 73 e mezzo nuovi milioni che graverebbero sul bilancio italiano per potere attuare un programma navale corrispondente agli ideali di coloro che vogliono un’Italia forte, non solo per terra, ma anche sui mari.
Né basta: una marina da guerra non è sicura se non quando possa provvedersi rapidamente e sicuramente di carbone o di petrolio; e sarebbe inutile ove non giovasse a permettere anche in tempo di guerra il rifornimento in combustibile delle industrie nazionali. A questo proposito è certo che l’Italia, mancando di combustibile proprio, corre, in caso di guerra marittima, gravi pericoli.
Le 18 mila tonnellate di carbone che sono consumate in Italia ogni giorno provengono quasi totalmente dall’Inghilterra; se una guerra marittima rendesse impossibile il rifornirsi di carbone per mare, sarebbe d’uopo ricorrere alle vie di terra, ossia occorrerebbe impiegare una colonna di 30 mila vagoni per il servizio dei carboni su linee ingombre dalle mobilitazioni e dai trasporti militari.
È probabilissimo inoltre che le altre Potenze non ci possano imprestare una parte del loro materiale rotabile, avendone esse stesse grande bisogno. Se si pensa che noi adesso adibiamo appena 140 vagoni al trasporto del combustibile, si comprenderà quale perturbazione debba apportare l’obbligo di impiegarne almeno 30.000.
È certo dunque, secondo l’autore, che senza una forte marina da guerra e senza un deposito di due milioni di tonnellate di carbone nell’interno del regno, noi ci troveremmo in tempo di guerra in balia ad una terribile carestia di carbone coll’arenamento di tutte le industrie, la fame nella densa popolazione operaia del settentrione e la rivolta per le vie. Lo Stato, quindi, dovrebbe, secondo il Molli, tenere nei punti strategici e nei nodi ferroviari depositi per l’ammontare di due milioni di tonnellate, immobilizzandovi un capitale di 50 milioni, più la spesa annua per i magazzini, lo scarico, il caricamento successivo, la perdita sul peso e fors’anco sul peso di rivendita.
Aggiungendo questi nuovi interessi e spese ai 73 e mezzo milioni di prima, noi giungiamo con tutta facilità ad un preventivo di nuova spesa di 80 milioni all’anno.
Ora è consigliabile allo Stato italiano di sobbarcarsi ad una spesa simile per raggiungere l’ideale, certo nobile, di diventare un paese forte in mare? A questa domanda noi ci permettiamo di rispondere con una distinzione. Se il Governo italiano potesse trovare gli 80 milioni necessari al nuovo programma navale senza aumentare per nulla il bilancio attuale della guerra e della marina, noi, eccetto per quanto si riferisce ai depositi di carbone, di cui tratteremo in seguito, non avremmo nulla a ridire e saremmo anzi lietissimi della nuova orientazione della difesa nazionale. Che ciò si possa fare noi non osiamo dirlo, lasciando ai tecnici l’esame dell’arduo problema.
Forse riducendo i Corpi d’armata al puro necessario per la difesa delle Alpi, e diminuendo le spese burocratiche si potrà giungere vicini allo scopo. Sulla scorta del Molli noi abbiamo dimostrato altra volta quanti sprechi si verificano nella marina militare, e nei troppo numerosi arsenali, quanta sovrabbondanza vi sia nel personale combattente, tecnico e burocratico. Con una migliore utilizzazione dei milioni destinati alla guerra ed alla marina e con una distribuzione di questi milioni la quale tenga maggior conto del fatto che i più grandi pericoli dinanzi al nemico sono corsi dall’Italia per mare, si può forse riuscire a raddoppiare ed anche a triplicare gli attuali 20 milioni destinati alla riproduzione della marina da guerra.
Più in là di questo punto noi rifiutiamo di andare. Non è in un momento in che il bisogno massimo del nostro Paese è di diminuire il grave pondo degli interessi del debito pubblico che si può venire a proporre a cuor leggero un nuovo prestito di 300 milioni per la marina e di 50 milioni per i depositi di carbone.
Non è in un momento in che noi dobbiamo far argine ad ogni, anche minimo, aumento di spese per poter procedere ad una organica trasformazione tributaria, da troppo lungo tempo promessa, che noi ci possiamo concedere il lusso di aumentare di altri 80 milioni il bilancio della difesa nazionale. Spetta a coloro a cui è affidato il compito della difesa nazionale lo spendere i denari loro concessi nella guisa più utile possibile. Il Paese non può concedere un soldo di più senza far sorgere il pericolo di sommosse e di rivoluzioni civili nell’intento di respingere le aggressioni esterne che possono anche non venire.
Quanto ai depositi di carbone, noi crediamo che lo Stato non se ne debba interessare affatto, se non per quanto si riflette ai magazzini per il rifornimento della sua marina militare. Voler accollare allo Stato il compito di costituire dei magazzini di carbone per l’industria privata significa attribuire allo Stato mansioni commerciali, in cui probabilmente farà miserevole prova. Abbiamo visto l’anno scorso quanti quattrini abbia buttato via lo Stato italiano quando si volle mettere in mente di distribuire il grano a buon mercato alle popolazioni affamate.
Arrivò, come al solito, in ritardo, e si trovò in seguito i magazzini pieni di merce avariata, comprata a caro prezzo, mentre il valore del grano diminuiva col nuovo raccolto.
Se gli industriali italiani sentono davvero vivamente il rischio di rimanere senza carbone in caso di guerra, provvedano ciascuno per proprio conto a costituirsi una riserva. Se non lo fanno e se la guerra li coglie impreparati, certamente l’industria ne soffrirà, e gli operai dovranno far penitenza.
Ma la guerra è diventata una cosa tanto orribile nei tempi moderni che, con o senza carbone, la carestia, la desolazione e le sommosse ne sembrano le conseguenze inevitabili.
Queste conseguenze dolorose vengono sopportate meglio da una popolazione la quale, per la mitezza delle tasse, abbia potuto risparmiare e costituire delle riserve, e sia abituata a guardare al Governo come ad un benefattore e non come ad un nemico, che non da una popolazione dissanguata dalle imposte, sia pure spremute per formare una marina forte. Là, dove noi ci troviamo d’accordo col Molli, si è nella questione dei premi di costruzione e di navigazione alla marina mercantile, e nel sentimento di assoluta necessità di una forte marina ausiliaria. Si vollero concedere premi alla costruzione delle navi e se ne ottenne l’effetto che si costruiscono navi in proporzioni tali che i premi crescono ogni mese a vista d’occhio con terrore di coloro che si curano della solidità del bilancio italiano.
Si vollero concedere premi alla navigazione e si favorirono le linee del Levante e dell’Oriente, in cui sono minimi gli interessi attuali dell’Italia per la semplice ragione che le linee d’America si sostengono da sé e non hanno bisogno degli aiuti del Governo. Noi desidereremmo falcidiare largamente in tutto questo arruffio artificioso di premi.
Lo Stato italiano segua (in questo caso l’imitare è savia cosa) l’esempio dello Stato inglese: sussidii le Compagnie di navigazione che compiono i servizi postali, nella misura in cui esso si giova della loro opera pel trasporto delle notizie e delle lettere in modo sicuro all’estero. Sussidii inoltre le Compagnie che si obblighino a mettere a sua disposizione in caso di guerra navi di una determinata grandezza, velocità, ecc., per compiere i servizi di segnalazione e di trasporto. Oggidì se scoppiasse una guerra per mare, la nostra marina militare sarebbe impotente ad operare lungi dalle coste perché le Compagnie private, malgrado tutti i premi che si pagano loro, non hanno navi capaci a costituire una marina ausiliaria.
Lo Stato inglese non dà premi di costruzione, ma contratta colle varie Compagnie il compenso che deve dare per ogni nave affinché le Compagnie si obblighino ad imprestargli in caso di guerra le loro navi più veloci e forti per compiere i servizi ausiliari.
Lo Stato italiano faccia altrettanto, e raggiungerà l’intento di promuovere indirettamente la costruzione di navi veloci, utili in tempo di pace, e di averle sottomano in caso di guerra. Non correrà il rischio di danneggiare il bilancio concedendo premi di costruzioni e di navigazione, i quali possono far sorgere industrie destinate a perire, quando lo Stato non possa continuare a pagare i premi.
E nel tempo stesso sarà lieto di promuovere i progressi della marina mercantile nazionale, pur pagando a questa marina compensi strettamente equivalenti ai servigi che la marina stessa può essere chiamata a rendergli in caso di guerra.