Per la preparazione ai trattati di commercio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 21/01/1911
Per la preparazione ai trattati di commercio
«Corriere della Sera», 21 gennaio 1911
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 197-204
Nel suo breve passaggio al ministero di agricoltura l’on. Luzzatti ha avuto nella primavera scorsa il merito grande di porre dinanzi al paese il problema della non molto lontana rinnovazione dei trattati di commercio, invitando le camere di commercio, le associazioni industriali, commerciali ed operaie ad indicare i loro desideri ed a scegliere il metodo che dovrà essere tenuto nella conchiusione dei nuovi trattati, se quello della tariffa unica, con o senza l’applicazione della clausola della nazione più favorita, ovvero quello della tariffa doppia (massima e minima).
Parecchie sono le risposte già venute alla luce; e sono risposte ricche di considerazioni e di dati importanti. Quasi tutte però mi sembrano scarsamente rispondenti allo scopo che il governo aveva avuto in mira perché partirono da una ipotesi, intorno alla politica doganale che sarà per essere seguita dagli altri stati contraenti, la quale a me sembra tutt’altro che conforme al vero. Dissero cioè quasi tutti gli enti economici che pigliarono in esame la circolare Luzzatti: «Poiché gli stati stranieri sono protezionisti ed accentueranno anzi in avvenire la loro politica protezionista contro le nostre esportazioni, vediamo quali sieno i provvedimenti che noi italiani dovremo prendere a nostra difesa». Nessuno dirà che io esageri quando affermo che questa è quasi sempre la premessa, tacita od espressa, dei ragionamenti e delle proposte che camere di commercio ed associazioni economiche fecero in ossequio alla circolare ministeriale del 30 aprile 1910. Ora non è inopportuno, finché si è in tempo, avvertire che in tal guisa si è commesso un errore fondamentale, che può pregiudicare gravemente il successo dei negoziati condotti dal governo italiano alla prossima scadenza dei trattati di commercio. Prima condizione di successo in ogni trattativa è di conoscere, il meno peggio possibile, le condizioni e le opinioni delle persone o dello stato con cui si vuoi contrattare. Non è ragionevole, e sovratutto non è conveniente per noi, fingerci un contraente immaginario e su quella finzione condurre i nostri studi preliminari e foggiare i nostri strumenti di lotta o di pace. A meno che si voglia, per ipotesi inammissibile, deliberatamente fuorviare l’opinione pubblica nel proprio interesse personale sembra a me che tanto i liberisti quanto i protezionisti debbano essere d’accordo nell’affrontare il problema partendo da una premessa vera intorno al contegno che assumeranno gli stati stranieri con i quali dovremo contrattare.
A me sembra che la premessa di un più accentuato protezionismo straniero nel prossimo avvenire non sia rispondente alla realtà; e che sia vera invece la contraria opinione, la quale constata una tendenza generale in tutti gli stati ad una mitigazione notevole dei dazi protettivi. Questa nuova e recente tendenza non è sorta, mi affretto a dichiararlo, perché la gente si sia convertita alle predicazioni di noialtri economisti. Si sa che la nostra è vox clamantis in deserto; nessuno ci ascolta, per quanto serrati siano i ragionamenti, e per giunta tutti ci sbeffeggiano. C’è però un momento in cui il pubblico inopinatamente si mette al seguito dei predicatori del libero scambio; ed è quando, i prezzi aumentando, il costo della vita rincara. Allora tutti si inquietano contro gli alti prezzi, ne ricercano le cause e ne propongono i rimedi, fra cui primissimo il ribasso dei dazi doganali, i quali sicuramente aumentano i prezzi delle merci necessarie alla vita.
Che i prezzi vadano aumentando, è fatto notorio. Il dott. Achille Necco, il quale nel fascicolo quinto del 1910 della rivista «La Riforma Sociale» ha costrutto un indice dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909, dimostrò che in Italia i prezzi, dopo essere ribassati, in media per un gran numero di merci valutate alla importazione da 100 nel 1881 sino a 70,42 nel 1897, da allora in poi gradatamente aumentarono finché alla fine del 1909 si trovavano ad 85,45. Il Necco medesimo dimostra che il movimento al rialzo è continuato nel 1910. Il numero indice dei prezzi dell’«Economist», che al gennaio 1909 era a 2.196, nel gennaio 1910 era a 2.373, giungendo in dicembre a 2.513. Né ancora si vedono i motivi per cui l’ascesa abbia ad arrestarsi: la produzione delle miniere d’oro del Transvaal (altra volta ebbi a dire che la camera delle miniere di Johannesburg era l’osservatorio dai cui bollettini poteva presagirsi il buono o il cattivo tempo per i consumatori di tutto il mondo), che nel 1909 era stata di 773.144.700 lire, nel 1910 fu di 800.072.800 lire. Il flusso dell’oro che proviene dall’Africa estrema cresce sempre; onde, crescendone la quantità, il pregio dell’oro diminuisce, il che vuol dire che le merci, espresse in oro, rincarano.
Ora, quanto più i prezzi salgono, tanto più la gente grida. Gli operai hanno cominciato a volere rialzi di salari; ma poiché ad un certo punto si sono urtati contro la resistenza degli industriali, che in moltissimi casi non possono più crescere il prezzo dei loro prodotti, hanno cambiato tattica; ed hanno iniziate campagne per la riduzione dei costi della vita e massimamente per la riduzione dei dazi doganali, che rialzano – sovrapponendosi all’azione della maggior produzione dell’oro – i prezzi delle merci protette. In queste campagne gli operai hanno subito avuti consenzienti gli impiegati, i pensionati, i risparmiatori, il cui interesse è fisso e vale sempre meno, moltissimi industriali, interessati al ribasso delle materie prime, molti agricoltori, che, esportando, debbono lottare con i dazi stranieri, e comprando macchine, concimi, ecc., debbono combattere contro i dazi nazionali. Il movimento si ingrossa quanto più procede innanzi e nuove falangi di adepti si aggiungono ai primi banditori.
Espongo e non giudico; perché, pur essendo tutte le mie simpatie per il nuovissimo movimento, voglio qui soltanto approntare dati di fatto nell’interesse comune di tutti. In Austria l’imperatore Francesco Giuseppe alle delegazioni recentemente riunitesi a Vienna pronunciò parole che, data la posizione e la nota prudenza di chi le proferiva, hanno un significato notabile: «Col più profondo rincrescimento constato che l’alto costo della vita è diventato così terribile e diffuso. Il popolo soffre atrocemente da questo stato di cose: qualcosa deve essere fatto: non si può andare avanti così».
In risposta ai severi ammonimenti del vecchio monarca, la camera austriaca ha deciso di permettere la illimitata importazione di carne congelata dall’Argentina sino alla fine del 1911; e l’ha deciso, malgrado la strenua opposizione del governo. A Vienna ed a Budapest si susseguono pittoresche dimostrazioni di centinaia di migliaia di cittadini protestanti contro l’alto prezzo dei viveri e gli alti dazi; ed è diffusa la convinzione che i due governi debbono alla fine inchinarsi dinanzi ai voti delle popolazioni.
Per la Germania ricorderò due fatti soli. Negli ultimi tre anni si ebbero dodici elezioni parziali al parlamento. I conservatori perdettero 66.000 voti, i clericali 24.000 e i nazionali liberali 8.000, mentre i socialisti guadagnarono 30.000 voti ed i progressisti 12.000. La causa delle mutate opinioni del corpo elettorale è una sola: l’irritazione contro il governo il quale si diede, mani e piedi legati, agli agrari; mantenne ed accrebbe i dazi protettivi e rifiutò di aumentare le imposte sulla proprietà. Non soltanto gli operai aumentarono le schiere degli elettori ribelli: i contadini hanno costituito il Bauern Bund od associazione dei contadini e votano contro gli agrari; gli industriali e i commercianti hanno risuscitato il ricordo della lega delle città anseatiche, costituito l’Hansa Bund, che fa una campagna vivacissima a favore dei progressisti. Nel prossimo parlamento i protezionisti saranno certamente assai meno forti d’adesso e forse si troveranno in minoranza, sovratutto se i clericali, per non perdere in popolarità, abbandoneranno la difesa degli agrari.
La convinzione della prossima disfatta degli agrari è tanto diffusa che nella recente adunanza annuale della associazione centrale degli industriali tedeschi il signor Bueck, annunciando il suo ritiro dal posto di segretario generale, in cui per 37 anni aveva strenuamente difeso la politica degli alti dazi protettivi, industriali ed agricoli, pronunciò un discorso, che ebbe una larghissima eco:
Essere impossibile negare, – egli osservò, – che l’alto costo della vita per le classi lavoratrici deriva dai dazi doganali sui prodotti alimentari, alcuni dei quali sono eccessivamente alti. Ciò porta ad un aumento progressivo nei salari, talché i fabbricanti hanno oramai raggiunto il limite estremo di ciò che possono fare a pro degli operai e sono costretti a dichiararsi in favore di una riduzione dei dazi sulle derrate necessarie all’esistenza.
Che cosa risponderanno gli agrari tedeschi a questo invito del rappresentante degli industriali? Probabilmente che, se essi devono acconciarsi ad una riduzione dei dazi protettivi agricoli, hanno diritto ad ottenere una riduzione dei dazi industriali, che gravano sulla economia agricola.
Coloro che in Italia reputavano che l’Inghilterra avrebbe abbandonato la bandiera del libero scambio, oramai hanno dovuto disilludersi. Da quando il capo del partito conservatore, signor Balfour, dichiarò solennemente che il suo partito avrebbe sottoposto la questione della scelta tra protezionismo e libero scambio al referendum popolare, la causa protezionista aveva partita perduta. Anche se i conservatori avessero vinto – e ciò non accadde – essi si erano solennemente impegnati a non introdurre in Inghilterra una tariffa doganale protettiva senza consultare prima il popolo col referendum. Chi può credere che il popolo inglese, la cui capacità di intendere i problemi economici ha fatto l’ammirazione di quanti osservatori furono presenti alle adunanze elettorali, il giorno in cui venisse posta chiaramente la domanda:volete i dazi protettivi, ossia volete il rincaro della vita, risponda di sì? L’Inghilterra è il solo grande paese in cui i prezzi della carne, del pane, dei vestiti, dei materiali da costruzione e dei macchinari non siano rialzati oltremodo negli ultimi anni, in cui il livello dei prezzi è notevolmente inferiore al livello europeo; e sarebbe stranamente illuso chi credesse che gli inglesi vogliano rinunciare a siffatta invidiabile prerogativa.
Ma la rivoluzione più chiara nel modo di pensare rispetto al problema doganale è quella che sta accadendo nell’America settentrionale. La disfatta clamorosa dei candidati repubblicani nelle recenti elezioni al congresso è stata rilevata e commentata in Italia forse più dal lato esterno che per il significato intrinseco.
Colpì assai l’insuccesso degli sforzi di Roosevelt, di cui era recente il ricordo delle cacce africane e delle spavalderie europee. Non si vide abbastanza che la causa della sconfitta dei repubblicani stava nell’avere essi tradito la promessa fatta nel 1909 agli elettori, di diminuire i dazi della vecchia tariffa doganale. Essi, che si erano impegnati a diminuire una tariffa equivalente al 43,15% del valore delle merci importate, dopo molte tergiversazioni, a gran fatica seppero sostituirvi quella che dal nome dei suoi autori fu chiamata tariffa Payne Aldrich, equivalente al 41,49% del valore delle merci importate. La ridevole diminuzione parve un insulto all’elettorato il quale reclamava prezzi meno alti; cosicché il giorno in cui il presidente Taft firmò la tariffa segnò anche il decreto di sconfitta del partito repubblicano. Per la prima volta dopo tanti anni, dopo tanti errori commessi, dopo essersi screditato col sostenere le cause del populismo e della riabilitazione dell’argento, il partito democratico ha saputo rendersi popolare, affermandosi deliberato ad attuare un ribasso generale e duraturo dei dazi doganali. Il congresso è in mano sua; e democratici sono i governatori di Stati industriali potenti, come quello di New York, Massachusetts, Connecticut, ecc., che prima erano in mano dei repubblicani. I democratici non fanno mistero dei loro propositi. Il signor Eugenio N. Foss, attuale governatore dello Stato del Massachusetts così parla della tariffa esistente:
L’intiero paese protesta contro l’ingiusta e malvagia tariffa doganale Payne Aldrich, la quale colpisce disegualmente il popolo, ne aumenta gli oneri e rende il problema della vita esasperante.
Il giudice Baldwin, nuovo governatore democratico dello Stato del Connecticut, aggiunse:
Noi abbiamo una causa comune da difendere. Nelle case del popolo, dappertutto ma particolarmente nelle case dei salariati e degli stipendiati, la privazione ha fatto la sua entrata. Il nostro cibo deve essere minore in quantità o di qualità peggiore. I nostri vestiti debbono essere portati più a lungo, prima di poterli smettere. I nostri fitti son più cari. Perché tutto ciò? Senza dubbio molte sono le cause; e su alcune non abbiamo alcuna influenza. Ma vi è una causa che noi possiamo sopprimere. È la tariffa doganale repubblicana.
Al sentire i quali discorsi, il partito repubblicano è stato costretto a correre alla riscossa. Per impedire una sconfitta che sarebbe inevitabile alle prossime elezioni presidenziali del 1952, il presidente Taft annuncia la sua intenzione di procedere ad una pronta revisione della tariffa doganale. E dubbio se potrà arrivare in tempo. Che se la riduzione non fosse cosa fatta prima, possiamo essere sicuri di vedere nel 1912 un democratico alla presidenza degli Stati uniti.
Se qualcosa i giornali ci dissero degli Stati uniti, nulla riferirono sugli accadimenti recenti nel Canada. Paese protezionista finora, quando predominavano le vecchie provincie orientali atlantiche, il Canada sta trasformando rapidamente la sua organizzazione economica. Al di là della grande zona centrale, sterile, pietrosa, sparsa di laghi e di pantani, va popolandosi un nuovo Canada, quello del Far West. Provincie, il cui nome era sconosciuto, come l’Alberta, il Manitoba, lo Saskatchewan si popolano e si colonizzano in gran furia. Sono le provincie che coll’Argentina e con la Siberia, diventeranno domani il granaio del mondo. Presto dovremo anche noi farne la conoscenza. Ora quelle provincie sono nemiche degli alti dazi, entro cui la grande nazione canadese si è asserragliata. Nell’autunno scorso il primo ministro canadese, Sir Wilfrid Laurier, visitò le nuove provincie, la cui ricchezza promette di oscurare la fama delle storiche provincie di Quebec e di Ontario. In ogni città, in ogni villaggio, lo attendevano deputazioni di agricoltori (farmes), protestanti contro la tariffa doganale che rincarava i prezzi delle macchine agricole e dei prodotti industriali che essi comprano e, per rappresaglia, provocava tariffe alte nei paesi in cui essi volevano esportare il loro grano. Gli agricoltori del Manitoba così parlarono in un memoriale a Sir Wilfrid Laurier:
Noi agricoltori dell’occidente canadese non vogliamo alcuna protezione per i nostri prodotti: in altre parole consentiamo che tutte le derrate agrarie siano ammesse in franchigia nel Canada. Noi riteniamo che i dazi doganali debbano essere prelevati unicamente per dare un reddito al fisco e non per dar protezione a nessuno; noi crediamo che la tariffa debba essere congegnata in modo da permetterci di commerciare liberamente con tutto il mondo.
Né l’agitazione è diminuita d’intensità dopo il ritorno del primo ministro ad Ottawa. Si prepara una visita di una delegazione numerosa di agricoltori al parlamento: 400 delegati di 30000 farmers (agricoltori) organizzati e 300 delegati delle vecchie provincie si recheranno ad Ottawa in treni speciali per chiedere riduzioni generali dei dazi doganali.
Questi i fatti, i quali dimostrano non essere esatta la premessa di una tendenza verso un protezionismo maggiormente inacerbito da cui partono i nostri enti economici nelle loro proposte al governo per la conchiusione dei prossimi trattati di commercio. Altri – e molti – fatti sarebbero potuti addurre ove quest’articolo non fosse già troppo lungo. Si sarebbe potuto dimostrare altresì che il sistema della doppia tariffa, che i nostri enti economici considerano come il portato più moderno e più perfezionato della politica doganale, comincia ad essere guardato con diffidenza nelle sue patrie d’origine, la Francia e gli Stati uniti; e come ivi gli si imputi a difetto gravissimo ciò che i suoi tardi assertori italiani vantano come pregio. Anche di questo fatto converrebbe tener conto, per non combattere contro mulini a vento e per non abbracciare in ritardo sistemi che gli altri paesi considerano oramai antiquati. Questo mio scritto avrà raggiunto il suo scopo se gli enti economici che hanno già presentato proposte saranno indotti a riprenderle in esame; se gli altri vorranno studiare più profondamente; e se le organizzazioni degli industriali esportatori e dei consumatori, che pur furono interrogate, si accorgeranno di poter contare per l’opera comune su falangi di alleati in tutti i paesi del mondo.