Per la libertà di scienza e di coscienza
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/12/1910
Per la libertà di scienza e di coscienza
«Corriere della Sera», 7 dicembre 1910[1]
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 521-526
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 166-171[2]
Mi si consenta di abbandonare per una volta la discussione dei più generali interessi economici e finanziari del paese, per discorrere di un interesse in apparenza proprio soltanto della classe a cui appartengo. Lo faccio perché l’interesse in gioco non è di natura materiale, e perché ritengo che la sua difesa debba suscitare le simpatie di quanti spiriti elevati vi sono in Italia.
In questi ultimi anni i professori universitari hanno attirato purtroppo l’attenzione del pubblico, soltanto in occasione di aumenti, rifiutati e poi concessi, di stipendio, di corsi liberi soppressi, di incarichi decimati; né hanno saputo dimostrare a quale caro prezzo, attraverso a quale gravissimo danno per la scienza fosse stato comprato quel miglioramento economico, consentendo l’accesso nel consiglio supremo all’elemento politico, della cui ingerenza già cominciano a scorgersi gli amarissimi frutti. Oggi, finalmente, è nata una agitazione nel mondo universitario, la quale ha un carattere puramente ideale e la quale varrà a dimostrare come non tutte le questioni, che commuovono i professori universitari, siano questioni di paga e di propine. Perciò ho preso la penna in mano per difendere la causa dei miei colleghi, ingiustamente minacciati da un’ordinanza ministeriale che vorrebbe conculcare la libertà del loro spirito e con esso la libertà della scienza.
Ecco in breve di che si tratta.
Ripetutamente, mosso da non so quale strana ispirazione, il prof. Tonelli, che mi si assevera far parte del blocco radico-socialista-repubblicano nel consiglio comunale di Roma, sollecitò, essendo rettore dell’università romana, il ministero perché decidesse se poteva, come egli credeva si dovesse fare, invitare i professori universitari di nuova nomina a prestare quel giuramento che la legge sullo stato giuridico degli impiegati prescrive in genere per gli impiegati dello stato. Nessuno dei professori che ebbero notizia della cosa riuscì ancora ad immaginare perché un professore ed un rettore prendesse l’iniziativa di un provvedimento, che ogni persona anche meno amante della scienza agevolmente comprende di quanta iattura debba essere fecondo per la scienza. Comunque sia di ciò, accadde che il ministro non seppe risolutamente rispondere, come si meritava, all’interpellanza liberticida e chiese invece il parere del consiglio di stato. L’alto consesso rispose con un sillogismo. Niun dubbio che la legge sullo stato giuridico degli impiegati del 1908 ha rispettato varie leggi organiche proprie di talune categorie di funzionari dello stato e tra esse la antica legge Casati, che è tuttora la legge fondamentale della nostra istruzione pubblica e specie della superiore. Ma la legge Casati non ha a disposizione alcuna che prescriva o che escluda il giuramento dei professori d’università. Dunque, nel silenzio della legge antica e particolare, e secondo il disposto della legge nuova e generale, anche dai professori universitari dovrà richiedersi la osservanza del disposto dell’articolo 3 della legge del 1908, che è quello appunto che prescrive in genere il giuramento. In mancanza di esso non si dovrà dar corso al primo mandato di pagamento dello stipendio.
Inopinatamente il ministro, che non ne aveva alcun obbligo, accolse il parere del consiglio di stato e diramò a tutti i rettori degli atenei italiani una circolare sul giuramento. Il fermento tra i colpiti fu vivissimo. So che in talune università qualche professore di nuova nomina rifiutò sinora di giurare. Ed è noto, avendone data la notizia i giornali, che il prof. Francesco Ruffini, rettore dell’università di Torino, richiamò subito l’attenzione del ministro su talune gravi conseguenze morali del nuovissimo provvedimento e su un errore giuridico in cui sarebbe incorso il consiglio di stato; e pare che le obbiezioni del rettore torinese siano state ritenute di non lieve peso, se il ministro si decise a chiedere un nuovo parere al consiglio di stato ed a sospendere frattanto la sua circolare sul giuramento.
Questa la cronaca del fatto. I commenti discendono logicamente dalla lettura della formula del giuramento che, per iniziativa di un membro del blocco popolare romano e per consenso di un ministro che fu, se non vado gravemente errato, un tempo repubblicano od almeno radicalissimo, si vorrebbe imporre agli universitari italiani. Il giuramento in verità non ha nulla di peregrino, perché è il giuramento comune, quasi si direbbe ordinario:
Giuro di essere fedele al re ed ai suoi reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le leggi dello stato e di adempiere tutti i doveri del mio ufficio al solo scopo del bene inseparabile del re e della patria.
Basta leggere questa formula, per persuadersi che a quei grandi che posero le granitiche fondamenta delle istituzioni nazionali e scrissero quella legge Casati, che rimarrà documento imperituro della elevatezza del loro intelletto e della larghezza delle loro idee veramente liberali, non sarebbe mai caduto in mente di imporre cosiffatto giuramento agli insegnanti universitari. Non lo pensarono né lo vollero; poiché essi scrissero nella legge Casati un articolo 166, il quale solennemente dichiara non essere punto richiesta la cittadinanza dello stato per essere assunto a professore nelle università italiane; sancendo così per i professori universitari una importantissima e significantissima deroga alla prescrizione generale, che valeva fin d’allora per tutti gli impiegati dello stato e che fu espressamente imposta dall’articolo 3 della legge del 1908 sullo stato giuridico degli impiegati. Quei sommi, che videro la proclamazione dello statuto, che condussero la dinastia a regnare su tutta Italia e che fecero davvero la patria, non ebbero timore di dire che la scienza non conosce confini di patria e di partito e vollero che anche gli stranieri – e ne vennero degli insigni – potessero essere chiamati a far parte del nostro corpo accademico. Né gli stranieri furono ammessi a professare agli stipendi dello stato italiano, per semplici motivi di cortesia internazionale. L’ammissione loro fu una conseguenza logica, rigidamente logica, di un altro e ben più alto principio: che cioè non fosse necessario guardare alla nazionalità politica, alla fede partigiana o religiosa dell’insegnante; talché, a nessuno chiedendosi conto delle sue idee, tutti, anche gli stranieri, potevano salire le cattedre italiane.
Quella conquista altissima del nostro diritto universitario fu confermata dalla consuetudine: mai il giuramento fu richiesto a nessuno che abbia fin qui salito una cattedra delle università regie. E la consuetudine, non poteva dimenticarsene il consiglio di stato, è fonte potentissima di diritto.
Ha ben riflettuto del resto il ministro alle conseguenze irreparabili che avrebbe una sua acquiescenza al primo ed al secondo (ove questo confermi il precedente avviso) parere del consiglio di stato? La questione è troppo elevata perché possa immiserirsi ad un piccolo problema di interpretazione di una qualsiasi legge del 1908. Ancor ieri leggevo un alato telegramma che al rettore dell’università di Edimburgo, annunciantegli il conferimento della laurea ad honorem in diritto, inviava Luigi Luzzatti. In questo telegramma l’illustre banditore dei principi liberali inneggiava ancora una volta al trionfo della libertà di scienza e di coscienza. Ed è sotto il suo governo che in Italia dovrebbero essere quelle due preziosissime libertà conculcate, e conculcate ferendo profondamente una delle migliori tradizioni italiane?
Poiché questo vuol dire l’obbligo di prestare il giuramento imposto ai professori universitari. Da un dilemma doloroso invero non s’esce. O i nuovi professori, appartenenti ai partiti estremi, cattolici temporalisti, socialisti, repubblicani presteranno giuramento con restrizione mentale seguendo l’esempio che dicesi sia dato dagli uomini politici appartenenti a quei partiti, o da taluni sacerdoti chiamati a prestare il giuramento anti – modernista; e quegli insegnanti meriteranno di essere cacciati con la frusta dal tempio della scienza. Per fortuna i giovani al disotto dei vent’anni non conoscono ancora le restrizioni mentali. Essi non comprenderanno mai – e sia detto a loro grandissimo onore – come un uomo, il quale dovrebbe avere la missione divina dell’insegnare la verità, si sia reso colpevole di una così turpe transazione di coscienza. Vogliamo noi che i giovani abbiano il sacrosanto diritto di fischiare e di buttar giù dalle cattedre coloro che essi disprezzano come spergiuri?
Ovvero – ed è la sola ipotesi onorevole per l’università italiana – non potranno più salire sulle cattedre se non coloro che in coscienza sentiranno di poter giurare. Sarà l’ostracismo dato ai membri dei partiti estremi dai nostri atenei. Contro questo atto di intolleranza insana, prima che si sollevino i colpiti, abbiamo il dovere di insorgere noi, che colpiti non siamo e che non possiamo essere sospetti di poca devozione alle istituzioni esistenti e di poco aborrimento politico verso ogni sorta di clericalismi, massonismi, socialismi ed altre simiglianti abominazioni. Chi sia davvero liberale deve riconoscere che gran torto si farebbe agli estremi, allontanandoli dagli atenei sotto il pretesto malaugurato di un giuramento o costringendoli a giurare il falso. Lo stato stipendia i professori non perché gli siano fedeli politicamente, ma perché insegnino quella che essi, e soltanto essi, ritengono la verità. Mettere dei limiti alle verità che si possono insegnare è sopprimere la libertà della scienza. Si può concepire uno stato il quale si proponga determinati fini nell’insegnamento superiore e voglia foggiarsi anime a lui devote. Chi vuol quello stato e chi ingenuamente crede nella possibilità di rendersi devote le giovani generazioni coartando l’insegnamento, plauda al giuramento dei professori. Non vi plaudiranno gli scienziati veri, i quali sanno che l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti.
In altri paesi, si dirà, usa che i professori giurino. Ma sono giuramenti tradizionali, prestati secondo formule arcaiche. In Austria, ad esempio, si giura, oltrecché fedeltà all’imperatore, di non insegnare nulla contro la verità, di consacrarsi intieramente alla scienza. Di gran lunga ne è quindi più elevato il significato e più scialbo il colore politico che non da noi, ove si tratterebbe di far rivivere un istituto oramai morto e di dargli un contenuto nuovo e dei restrittivi, quale è appunto quello della formula sovra citata.
E poi che monta l’esempio straniero? Vale e deve valer di più il glorioso esempio nostrano, la tradizione grandemente liberale tramandataci dai legislatori dell’epoca eroica della nostra formazione nazionale, quella tradizione che ha permesso venti anni fa all’attuale ministro dell’istruzione di iniziare brillantemente la sua carriera universitaria quale professore di storia della filosofia nell’ateneo pavese, senza preoccuparsi di un giuramento che, forse, egli non avrebbe allora potuto prestare. Io spero che nell’opinione pubblica sarà sentito quest’appello in difesa della libertà di scienza e di coscienza. Sia pure dessa severissima verso di noi nell’esigere l’adempimento dei nostri doveri professionali ma si dimostri, per l’onore del nostro paese, solidale con noi nel lottare contro ogni menomazione, che sarebbe funestissima, del bene ideale, della assoluta libertà scientifica.