Opera Omnia Luigi Einaudi

Per la giustizia tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/11/1900

Per la giustizia tributaria[1]

 

«La Stampa», 16 novembre 1900[2], 2[3] e 14[4] gennaio, 21 febbraio[5] 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 228-232

 

 

I

 

A sfogliare le pagine dell’ultimo annuario statistico per il 1900, che si riferisce alle finanze dello stato, si prova come un senso di sgomento. Nulla sfugge alle indagini del fisco; e le imposte si moltiplicano e prendono forme svariatissimi, quasi ad ingannare il contribuente, in mille modi insidiato nella borsa dai tentacoli del governo tassatore. La semplice enumerazione delle imposte governative è cosa che incute timore: 106 milioni di imposta sui fondi rustici, 88 milioni di imposta sui fabbricati, 142 milioni di imposta di ricchezza mobile da esigersi mediante ruoli, 16 milioni della stessa imposta da versarsi direttamente in tesoreria, 28 milioni di ritenuta sugli stipendi, sulle pensioni e su altri assegni pagati dallo stato, 100 milioni di ritenuta sulle rendite del debito pubblico, sulle annualità, sugli interessi di capitali, di buoni del tesoro, ecc., 36 milioni di tasse di successione, 6 di tasse di manomorta, 62 di tasse di registro, 68 di tasse di bollo, 12 di tasse in surrogazione del bollo e del registro, 7 e mezzo di tasse ipotecarie, 8 di tasse sulle concessioni governative, 20 di tasse sul prodotto del movimento a grande e piccola velocità sulle ferrovie, tre quarti di milione di diritti delle legazioni e dei consolati all’estero.

 

 

Fin qui le imposte dirette e le imposte sugli affari e sul trapasso delle proprietà. Vengono poi le imposte di consumo. Un vero esercito imponente: 27 milioni per la fabbricazione degli spiriti, 2 milioni per la birra, mezzo milione per le acque gazose, un milione per le polveri ed altre materie esplodenti, un milione e mezzo per la cicoria preparata, 4 milioni per lo zucchero indigeno, 845 mila lire per il glucosio, 7 milioni per i fiammiferi, 4 milioni per il gas – luce e l’energia elettrica. Le dogane ed i diritti marittimi, i quali comprendono un’infinita varietà di voci, dal grano al petrolio, dal caffè allo zucchero, dal cotone alle medicine, fruttano ben 241 milioni di lire; mentre i dazi di consumo interni gittano 52 milioni. La privativa dei tabacchi dà 196 milioni, quella dei sali 74, il lotto 71. Le poste fruttano 58 milioni, i telegrafi e i telefoni 14, le tasse scolastiche 7, i diritti di verificazioni dei pesi e misure ed il saggio dei metalli preziosi danno 3 milioni, i diritti catastali 2, gli archivi di stato 18 mila lire, la monta dei cavalli – stalloni 293 mila lire, le multe inflitte dalle autorità giudiziarie ed amministrative un milione e mezzo; le tasse d’entrata nei musei e gallerie 479 mila lire, i proventi delle carceri 6 milioni 716 mila lire. E facciamo grazia al lettore di una miriade di piccoli proventi, entrate straordinarie, rimborsi e concorsi, ecc.

 

 

Il quadro farebbe disperare della possibilità di potere trarre fuori il contribuente italiano dall’asfissiante atmosfera tributaria in cui egli è posto, se esempi antichi e recenti non ci ammonissero che nessun popolo mai è così decaduto economicamente da non potere, volendo, risorgere.

 

 

Fra i tanti noi vogliamo oggi ricordare un esempio che pochi usano rammentare, quantunque troppi citino quell’Inghilterra, dalla quale l’esempio è tratto. Egli è che solitamente si cita l’Inghilterra quando si vuole porre dinanzi agli occhi dei lettori lo spettacolo magnifico del suo parlamentarismo corretto ed evoluto, del suo sistema tributario equo e mite, delle sue colonie libere e leali. Ed allora sorge naturale l’obbiezione che l’Italia d’adesso è ben diversa dall’Inghilterra contemporanea; che troppo lontani sono i due ambienti perché ciò che si palesa buono e possibile nell’uno si possa imitare nell’altro.

 

 

Noi perciò vogliamo ricordare non una pagina della potente Inghilterra d’oggi, ma un momento dell’Inghilterra del 1815 povera, indebitata e rovinata dalle guerre napoleoniche. Forse il ricordo non sarà inutile. È meglio apprendere come un popolo sia diventato da povero ricco, e sia passato dalla più dura oppressione tributaria ad uno stato di notevole mitezza fiscale, che non contemplare, invidi ed impotenti, una grandezza da cui noi siamo troppo lontani per sperare di raggiungerla in breve.

 

 

Intorno al 1815 il peso delle imposte che gravava sul contribuente inglese era formidabile: 30 milioni di lire italiane di imposta sulla terra, 162 milioni e mezzo d’imposte sulle finestre, sulle case abitate, sulle vetture, sui domestici, sui cavalli, sui cani, sulle armi gentilizie e sulla cipria; 365 milioni di imposta sul reddito al saggio del 10%, non inferiore alla aliquota attuale sui redditi industriali e professionali in Italia; 32 milioni e mezzo di imposte di successione; 23 milioni di imposte sui beni immobili e mobili assicurati contro il fuoco e contro i rischi di mare; 7 milioni di imposte sulle vendite agli incanti; 12 milioni sulle vetture di posta; 4 milioni e un quarto di tasse di navigazione; 40 milioni di imposta sul sale; 74 milioni di imposta sullo zucchero; 10 milioni sulle conserve, uve e pepe; 240 milioni sulla birra; 48 milioni sul vino; 168 milioni sugli spiriti; 90 sul tè; 4 sul caffè; 50 sul tabacco; 23 sul carbone; 45 sulla legna; 19 sul cotone; 11 sulla seta greggia e tratta; 7 milioni e mezzo sull’indaco, potassa, ferro in barre; 7 milioni sulla canapa. Vi erano 9 milioni di provento dei dazi di esportazione e circa 30 milioni di dazi varii su numerosissime merci importate. A questi si aggiungano le imposte di fabbricazione: 17 milioni e mezzo resi dall’imposta sul cuoio; 19 sul sapone; 6 e tre quarti sui mattoni e tegole; 10 e mezzo sul vetro; 9 sulle candele; 12 sulla carta; 10 sugli stampati; 10 sui giornali; 3 sugli annunzi. I diritti di bollo sui biglietti rendevano 21 milioni, sulle ricevute 5 milioni e su altri contratti 42 milioni.

 

 

Tutto ciò nell’Inghilterra, nella Scozia e nel Galles, senza contare l’Irlanda, da cui si ricavavano 156 altri milioni.

 

 

In tutto le imposte, in un paese non ricco, di appena 20 milioni di abitanti, raggiungevano l’enorme somma di 1 miliardo 862 milioni di lire italiane l’anno. Il debito pubblico era di ben 21 miliardi e mezzo; ed a pagarne gli interessi era necessario quasi il 45% del reddito dello stato, ossia 800 milioni all’anno.

 

 

L’Italia contemporanea si trova in migliori condizioni dell’Inghilterra di quei tempi. Veggasi come un mordace scrittore inglese descriveva in quegli anni la condizione del contribuente britannico: «Le imposte colpiscono ogni articolo che entra in bocca, o ripara il corpo, od è calpestato dal piede. Imposte sovra ogni cosa piacevole a vedere, sentire, odorare od assaggiare. Imposte sovra il calore, la luce e la locomozione. Imposte sovra ogni cosa posta sulla terra o sotto terra, su ciò che vien dall’estero o cresce in patria. Imposte sulle materie gregge e su ogni valore che la mano dell’uomo vi aggiunga. Imposte sulla salsa che eccita l’appetito dell’uomo e sulla medicina che ne ristora la salute; sull’ermellino che adorna il giudice e sulla corda che manda all’altro mondo l’omicida; sul sale del povero e sulle spezie del ricco; sui chiodi di ottone della bara e sul velo della fidanzata. A letto od a tavola, alzandosi o coricandosi, noi dobbiamo sempre pagare. Lo scolaro gitta con forza la sua trottola tassata; il giovane guida il cavallo tassato con una briglia tassata su una via gravata d’imposte; ed il morente britanno, sorbendo la medicina che ha pagato il 7% di imposta con un cucchiaio che ha pagato il 15%, si abbandona sul letto d’indiana tassata al 22% e spira fra le braccia di uno speziale che ha pagato un diritto di 100 lire sterline per avere il privilegio di mandarlo a morte. L’intera sua proprietà è quindi immediatamente colpita con un’imposta dal 2 al 10%; e forti diritti gli sono richiesti per seppellirlo. Le sue virtù sono ricordate ai posteri da un marmo tassato, e solo col ricongiungersi ai suoi padri egli può sperare di sfuggire all’imposta».

 

 

«Il vero libero britanno va in giro coperto di licenze. Egli ha pagato una ghinea per la cipria della sua capigliatura, una ghinea per l’arma impressa sul suo sigillo, tre ghinee per il suo fucile da caccia, ed è così corazzato di permessi e di lascia – passare governativi che la spia più oculata non riesce a scoprire nulla di sospetto su di lui»

 

 

Questa l’Inghilterra del 1815.

 

 

II

 

A due schiatte principali appartengono gli uomini che reggono la finanza pubblica.

 

 

Vi sono coloro che non ignorano le leggi regolatrici dell’incremento e della diminuzione del gettito delle imposte; che sanno come la giustizia e la equità debbano presiedere alla distribuzione dei carichi governativi e si inspirano a concetti ragionati e sistematici quando intendono modificare un regime tributario esistente.

 

 

Di fronte a questi, che sono scherniti come ideologi, stanno i finanzieri empirici, la cui gloria massima è di non lasciarsi mai guidare da alcun principio e di uniformare la propria azione unicamente alle necessità del momento. Essi abbandonano un tributo che è fonte di proventi cospicui per l’erario quando l’abbandonarlo può dare la vittoria al partito od al ministero a cui sono aggregati. Essi trovano sempre nuovi nomi per far passare come ottime le loro merci avariate dinanzi gli occhi attoniti della gente inesperta; alzano ed abbassano le aliquote; fanno scomparire un’imposta cattiva ed odiata per crearne una nuova sovra la quale l’odio popolare non ha ancora avuto tempo di accumularsi. Genialissimi nel trovare sempre nuovi spedienti per tirare innanzi senza far gittare strida troppo alte ai contribuenti, i finanzieri empirici sanno fare a meraviglia il gioco dei bussolotti: trasformano i disavanzi in avanzi, i debiti in crediti, le spese in accrescimenti di patrimonio. Quando la gente si insospettisce pel crescere delle spese, essi inventano la categoria delle spese straordinarie; e quando anche queste diventano, per la loro continuata presenza, fastidiose a tutti, tentano di far accettare nuovi dispendii, gabellandoli per ultra-straordinari. Se il gran libro del debito pubblico minaccia di schiacciare col suo pondo la nazione, i finanzieri empirici creano molti altri piccoli libri, di razza e titolo svariati, con cui si possono contrarre novelli debiti in nulla differenti dall’antico fuorché nell’essere, perché nuovi ed insoliti, meno accetti ai capitalisti e più onerosi allo stato.

 

 

Tale la schiatta dei finanzieri empirici che sono applauditi in vita perché sanno tosare la pecora senza arrecarle troppo dolore, perché son servizievoli coi ministri, coi deputati e coi grandi elettori, e perché hanno appreso l’arte di contentar tutti, trasportando or qua or là l’onere delle imposte e, – quando non è possibile alcun trasporto perché tutti son già eccessivamente gravati, – facendo dei debiti al cui pagamento dovranno pensare i posteri.

 

 

Di tal razza di finanzieri son piene cotanto le cronache che sarebbe davvero inutile discorrere su un punto che già tutti conoscono a maraviglia. Ciò che noi vogliamo oggi dire si è che urge liberare il nostro paese da tal setta, se pure si vuol avere speranza di risorgere.

 

 

Anche stavolta l’Inghilterra dopo il 1815 ci dimostra che la vera risurrezione finanziaria, l’età dell’oro del bilancio di uno stato, non può aver inizio se non quando si abbandonino i metodi empirici e si accolgano quelle norme semplici e chiare di giustizia che sono il frutto della scienza e dell’esperienza dei paesi civili.

 

 

I lettori della «Stampa» conoscono diggià, per averla noi esposta qui alcune settimane or sono, la miseranda situazione del contribuente anglo-sassone al chiudersi delle guerre napoleoniche.

 

 

Altissime erano le sue lagnanze e nessun gabinetto avrebbe potuto far mostra di non ascoltarle, sotto pena di cadere dal potere.

 

 

Fu forza dunque lo ascoltarle. Una dopo l’altra le imposte più odiose caddero. Prima fra tutte l’allora odiata imposta sul reddito, che ad ogni buon britanno sembrava una violazione dei principii sanciti nella Magna charta; ed essa fruttava 350 milioni di lire. Caddero anche il dazio addizionale di guerra sulla birra, che rendeva quasi 70 milioni; il dazio sul sale, sul cuoio, ecc., con perdite gravissime per l’erario.

 

 

I finanzieri, allibiti, non sapevano resistere al furore del popolo, che esigeva un’ecatombe delle imposte vessatrici.

 

 

Come si provvide ad evitare la disorganizzazione dell’equilibrio del bilancio?

 

 

In parte si provvide con una politica di tagli altrettanto feroci nelle spese quanto erano stati profondi i tagli nelle entrate. In un solo anno (1817) il bilancio della guerra è ridotto di 100 milioni ed ulteriori riduzioni vi si apportano in seguito sì da ridurlo da 400 milioni nel 1816 a 250 nel 1830. Si preferisce rimanere senza scuole, senza strade, senza igiene, senza ministeri e senza impiegati pur di non pagare le imposte di guerra. Si riducono gli stipendi e si aboliscono le pensioni cosidette graziose.

 

 

Questa non fu finanza empirica. Fu una finanza di soldati coraggiosi, che per salvare la economia nazionale non dubitano di incorrere nel malvolere dei grandi corpi organizzati dello stato. Fu la finanza che si impone nei momenti supremi; quella che adoprò Quintino Sella in Italia ad eterno suo vanto.

 

 

Ma ciò non bastava a mantenere il pareggio. Per quanto falcidiate, le spese erano sempre superiori alle entrate. Ed allora intervengono gli empirici, che inventano imposte nuove, non ancora odiose ai contribuenti, per sostituire le imposte vecchie abolite. L’empirico inglese di quei tempi fu Vansittart, un eroe dell’equilibrismo finanziario a base di giuoco di bussolotti. Abolisce le imposte di guerra ed aumenta quella sul sapone, sul tabacco, sul tè, sul pepe, ecc. Continua a far finta di pagare i debiti vecchi che giungono a scadenza ed intanto crea sempre nuovi debiti. Quando il consolidato si scredita, inventa un nuovo tipo di debito, che intitola navale. Nel 1822 non può più andare avanti, ed allora tenta di fare un enorme pasticcio sulle pensioni, offrendo ai pensionati dei titoli di rendita che essi avrebbero potuto vendere, e che aumentavano il debito futuro dello stato, pure scemandone il gravame momentaneo. I pensionati non ne vollero sapere, ed egli dovette andarsene dal ministero, lasciando le finanze dissestate.

 

 

I suoi successori continuano ad abolire sotto la pressione popolare, le imposte vecchie, tirando avanti a furia di economie e di operazioni finanziarie, aiutati anche in parte dal risorgimento economico del paese, che faceva aumentare spontaneamente il gettito delle imposte.

 

 

Ma non si può andare innanzi all’infinito coll’abolire imposte, senza giungere ad un punto in cui la nave fa acqua. Fra il 1830 ed il 1834 si abolirono imposte per circa 175 milioni di lire, profittando di una momentanea prosperità dell’economia pubblica.

 

 

Era forse una necessità politica abolire le imposte contro cui si appuntava più fieramente l’ira popolare. Era l’epoca in cui il suffragio era stato allargato, e cominciava ad acquistar piede l’agitazione chartista, che voleva il suffragio universale, un reggimento democratico, e temevasi avesse anche degli ideali repubblicani. Un finanziere ideologo – e non mancavano allora in Inghilterra gli ideologi che, come sir Henry Parnell, si facevano banditori di ottime riforme finanziarie – avrebbe proposto di abolire quelle imposte che maggiormente comprimevano lo sviluppo della privata ricchezza, fornendo nel tempo stesso allo stato i mezzi opportuni per fronteggiare gli eventuali disavanzi.

 

 

Ad attuare cotali riforme era d’uopo avere un coraggio, che agli empirici è mancato sempre: il coraggio di resistere ai clamori della piazza, i cui desiderii sono spesso irragionevoli, ed il coraggio di imporsi agli interessi privati, favoriti dal regime tributario e doganale esistente. Era d’uopo abolire da un lato le corn laws (leggi di protezione dei cereali) senza curarsi delle alte strida delle classi alte, ed imporre novamente l’income tax (imposta sul reddito), superando le avversioni delle classi medie.

 

 

Questo coraggio non lo si ebbe in quei tempi; si abolivano le imposte, come si disse, per dare una soddisfazione ai contribuenti; né le abolizioni erano compiute in guisa da riuscire le più vantaggiose all’economia pubblica, né l’erario era posto in grado di sopperire altrimenti alle disastrose conseguenze di una politica tributaria fatta di concessioni forzate e di pentimenti vani.

 

 

Accadeva allora in Inghilterra qualcosa di simile a quanto avvenne in Italia quando la sinistra, per ingraziarsi le masse, abolì l’imposta del macinato. In Italia l’erario perdette un’ottantina di milioni – che oggi sarebbero più di cento – all’anno; il disavanzo crebbe ed aumentarono i debiti, e si finì col creare un’imposta – il dazio sul grano – ben più gravosa ed iniqua e meno fruttifera per lo stato di quanto non fosse l’abborrito macinato.

 

 

Anche allora in Inghilterra la medesima politica empirica produceva i medesimi effetti. Non sono tarde infatti a manifestarsi le conseguenze delle concessioni ai clamori pubblici, fatte inconsideratamente, senza pensare ai mezzi di riparare agli eventuali disavanzi. Nel 1837 – 38 si manifesta un deficit di 38 milioni di lire, che si ripete nei due anni successivi. Nel

1840 – 41 il deficit sale a 44 milioni.

 

 

Sorge un altro empirico: Francis Baring, che, deputato, aveva predicato bene contro i metodi di Vansittart, e, ministro, ne fu il degno emulo. Per colmare il deficit egli ricorre al vecchio sistema di aumentare le aliquote, ed impone un 5% addizionale sui dazi doganali, un 5% in più sulle imposte di fabbricazione; accresce di 4 pence per gallone l’imposta sullo spirito; aumenta del 10% le imposte dirette, e procede ad una revisione straordinaria dei redditi dei fabbricati e delle altre imposte dirette. Egli si illudeva di poter così avere un maggiore introito di circa 50 milioni di lire.

 

 

Accadde allora ciò che era facile prevedere. L’incremento delle imposte fece aumentare il prezzo delle merci e diminuirne il consumo. L’erario introitò di più per ogni gallone di spirito; ma i galloni consumati scemarono di numero. Il ministro aveva presentato un bilancio in pareggio, facendo a fidanza sull’effetto dei suoi provvedimenti tributari; invece il consuntivo dell’anno 1841-42 segna un deficit di 62 milioni e mezzo di lire. A questo punto l’era della finanza empirica si chiudeva e si apriva il periodo della riforma finanziaria, che fa la gloria dell’Inghilterra moderna.

 

 

III

 

Nel presente momento la figura del ministro del tesoro grandeggia sovra quella della più parte dei membri del gabinetto. Il problema urgente in Italia infatti è un problema finanziario e tributario.

 

 

È trascorso il tempo in cui si plaudiva ai finanzieri i quali sapevano presentare cifre meravigliose dinanzi agli occhi attoniti dei contribuenti; e si comprende invece quanto sia arduo il compito di chi presiede alla finanza pubblica.

 

 

Talvolta, ad incitamento ed a consiglio, giova ricordare le opere di chi seppe acquistarsi fama duratura nell’adempimento del proprio dovere. Oggi perciò noi vogliamo narrare qualcosa intorno a quello fra i ministri inglesi del tesoro, al quale si deve il più vigoroso impulso alla salvezza ed alla rigenerazione finanziaria dell’Inghilterra.

 

 

Quando Robert Peel nel 1842 salì al potere, un deficit di 2 milioni e mezzo di lire sterline era il retaggio di uomini abilmente passati in mezzo agli applausi delle moltitudini.

 

 

Né era il solo retaggio. Le classi povere si trovavano allora in uno stato di gravi sofferenze; la occupazione era scarsa ed i viveri a caro prezzo. Perciò le fazioni politiche estreme acquistavano credito e cresceva ogni giorno il seguito dei radicali più accesi. I chartisti – qualcosa di mezzo tra i repubblicani ed i socialisti d’oggidì nel nostro paese – davano molto da pensare al governo. Le dimostrazioni in piazza si succedevano ogni giorno.

 

 

Arduo era perciò il compito di sir Robert Peel, assunto al governo della nazione britannica come capo del partito conservatore.

 

 

Il Peel non si dimostrò impari all’impresa. Egli cominciò col dichiarare apertamente che era giunto il tempo di lasciar da parte tutto l’intricato bagaglio dei maneggiatori troppo abili delle cifre del bilancio, di bandire per sempre gli imbrogli, i prestiti mascherati, le appropriazioni dei depositi delle casse di risparmio e delle casse speciali di ammortamento, le emissioni di buoni del tesoro e tutti gli spedienti atti a posporre, non ad impedire lo scoppio della crisi. I bilanci doveano sovratutto essere sinceri. Doveano narrare senza infingimenti le somme spese e le somme incassate.

 

 

Siccome il bilancio presentava un deficit di 2 milioni e mezzo di sterline, Peel ebbe il coraggio di dire al paese: è necessario o diminuire le spese o accrescere le entrate. Le spese non si possono diminuire se non operando tagli sugli stanziamenti ai servizi civili e militari; e siccome questi stanziamenti sono già fin troppo ridotti perché il servizio del debito pubblico assorbe quasi il 60% del bilancio passivo, così è dura necessità acconciarsi a pagare nuove imposte. Sarebbe imprudente e dannoso fare un debito, su cui si dovranno pagare interessi gravosi negli anni venturi. Non rimane altra via di scampo se non ricorrere ad una nuova tassazione. Chi tassare? Su un bilancio attivo di lire sterline 48.350.000, ben 22.500.000 lire sterline gittavan le dogane e 13.450.000 lire sterline le imposte interne di fabbricazione sui consumi. Tutti milioni pagati dalle moltitudini. Le imposte sui ricchi si riducevano a 4.400.000 lire sterline di imposte dirette e di 7.100.000 di tasse di bollo e sugli affari. La sproporzione era grande, come è agevole vedere, fra le imposte gravanti sulle masse in genere e quindi sperequate a danno dei poveri e le imposte incidenti sulla gente agiata e ricca.

 

 

Il conservatore Peel, capo di un ministero di grandi proprietari e di persone appartenenti alle classi alte non ebbe timore di proporre l’adozione di un nuovo tributo, o meglio la resurrezione di un tributo antico, contro di cui gli odii delle classi alte e medie si erano manifestati così violenti da costringere alla sua abolizione appena si erano dileguati gli ultimi timori delle guerre napoleoniche. Vogliamo alludere all’income tax, creata da Pitt nel 1799 per pagar le spese delle guerre contro la Francia, ed abolita nel 1816. Per quanto sgradita ai liberi britanni, sospettosi di tutto ciò che possa sembrare intrusione del governo nei segreti della home (della vita familiare) e degli affari privati, l’income tax fu, per la ferma ostinazione di Peel, accolta dal parlamento, prima per soli quattro anni e prolungata poi di anno in anno, sì da diventare parte integrante dell’edificio tributario dell’Inghilterra.

 

 

Veniva consacrato così il principio che le spese pubbliche debbono venir pagate non da chi nulla possiede, ma dai possessori della ricchezza; e si metteva bene in luce essere principio fondamentale della pubblica finanza e freno efficacissimo alle spese stravaganti ed inutili questo: che ai disavanzi ed alle spese nuove non si possa provvedere con un rialzo spesso inavvertito delle imposte sui consumi o con un nuovo debito i cui interessi saranno pagati dai posteri; ma si debba far fronte con un accrescimento dell’aliquota dell’imposta sul reddito. Se la nazione inglese vuole pigliarsi il gusto di guerreggiare all’estero o di buttar via all’interno i propri quattrini, faccia pure, diceva il Peel; ma sappia che entro l’anno dovrà pagare il conto in virtù dell’incremento automatico del tributo sui redditi.

 

 

Non sarebbe tuttavia bastato introdurre nel bilancio inglese il principio di giustizia distributiva che chi ha paghi, ed il principio di moralità e di prudenza che chi spende sappia di dover pagare. Era molto; ma non era sufficiente per un finanziere maestro nell’arte sua come Robert Peel, per un uomo il quale non disdegnava applicare nella pratica gli insegnamenti dalla scienza economica; e questa insegnava che sarebbe stato inutile escogitare un sistema idealmente giusto di tributi, ove il paese avesse continuato ad essere povero, il commercio arenato e le industrie ristagnanti. A coloro i quali soffrono, nessuna imposta per quanto giusta appare sopportabile. Robert Peel per conseguenza ridusse nel 1842 ben 750 su 1.200 dazi di introduzione sulle merci importate dall’estero; e ne abolì nel 1845 quasi altri 450. Né contento, nel 1846 soppresse del tutto i dazi sul grano e sugli altri cereali.

 

 

Le sue previsioni non furono smentite dai fatti. L’abolizione dei dazi sui cereali rese la vita delle masse lavoratrici a buon mercato. La riduzione e la abolizione dei dazi sulle materie prime e sui manufatti diedero nuovo impulso alle industrie ed ai commerci. I risultati sul bilancio pubblico furono immediati. Gli anni dal 1844 al 1847 segnano avanzi vistosi che variarono da 2,3 a 6,3 milioni di lire sterline. Il gettito delle dogane aumentò da 20.754.185 lire sterline nel 1842-43 a 21.086.265 lire sterline nel 1846-47, malgrado le riduzioni tariffarie.

 

 

Robert Peel, lasciando nel 1846 il governo, poteva dire con orgoglio di aver salvato le finanze della patria e di aver segnato la via su cui si sarebbero raccolti allori ancora più splendidi. Tanto più poteva essere orgoglioso dell’opera sua in quanto questa si inspirava a due principii di elementare evidenza: far sì che chi ha paghi in proporzione alle sue entrate; ed impedire che le imposte servano ad arricchire gli uni, spogliando gli altri, od a comprimere le spontanee energie industriali e commerciali del paese, come nel caso del dazio sui grani e degli altri dazi protettivi sulle materie prime e sui manufatti.

 

 

Chi sarà quel ministro del tesoro italiano il quale sappia meritare quelle lodi che il giudizio imparziale della storia tributa oggi a Robert Peel?

 

 

IV

 

È opinione comunemente diffusa che un ordinamento tributario non possa essere considerato accettabile in un paese civile se non soddisfi alla condizione di essere giusto.

 

 

Variano però – e molto – le idee intorno a ciò che possa essere considerato come giusto od ingiusto; e, a seconda delle diverse scuole economiche, svariati sistemi si propugnano per giungere ad attuare l’ideale di giustizia che sta nel cuore di tutti.

 

 

Vi ha chi vorrebbe colpire con l’imposta i capitali già formati, lasciando esenti il provento del lavoro manuale od intellettuale; mentre altri preferisce avocare allo stato una quota determinata dei redditi dei cittadini da qualunque fonte provengano.

 

 

Viva lotta si combatte pure tra quelli che ritengono giusto che i cittadini siano colpiti da tributo in uniforme proporzione ai loro redditi; e quelli che preferiscono una proporzione progressiva. Sembra, cioè, ad alcuni giusto che tutti paghino, ad esempio, l’1% del reddito, qualunque sia l’ammontare del reddito, 1.000 o 100.000 lire; mentre altri vuole che su un reddito di 1.000 lire si paghi l’1%; su un reddito di 10.000 il 2%; su 20.000 il 3%, ecc. ecc., crescendo l’aliquota coll’aumentare del reddito.

 

 

Sarebbe impresa troppo lunga, e qui non opportuna, discutere la bontà e la legittimità di codesti ed altri parecchi sistemi che si mettono innanzi per attuare il canone della giustizia tributaria. La contesa non è terminata nel campo della teoria, e nella pratica non si ha alcun esempio di stati che abbiano accolto l’uno o l’altro concetto nella loro integrità.

 

 

Importa far rilevare piuttosto come tutti questi concetti si informino sostanzialmente ad un’idea fondamentale: che chi ha paghi in proporzione (strettamente proporzionale ovvero progressiva) ai suoi redditi od ai suoi capitali.

 

 

Né basta. Siccome lo stato presta servizi desiderati od almeno utili a tutti i cittadini, come la giustizia, la sicurezza, la difesa contro lo straniero, e fornisce inoltre altri richiesti invece solo da talune classi, come l’istruzione media e superiore, così si ritiene giusto che a tutti si faccia pagare, in proporzione alle rispettive fortune, un’imposta per sopperire alle spese generali, e si richieggano tasse speciali a quelli che domandano servizi utili in modo particolare ad essi soli.

 

 

Lasciando da parte questi servizi speciali, che si pagano da coloro che li richieggono, sembra a prima vista giusto che i servizi generali siano compiuti col provento di una unica imposta proporzionale ai redditi.

 

 

Senonché quest’unica imposta sul reddito o sul capitale non sarebbe a sufficienza produttiva. Oggidì le spese dello stato – a ragione od a torto – sono cresciute talmente che l’imposta unica dovrebbe dare proventi colossali e dovrebbe elevarsi ad aliquote altissime sul reddito o sul capitale di quella nazione che l’adottasse.

 

 

In Italia, ad esempio, nell’esercizio finanziario 1898 – 99, le spese effettive ammontarono a 1.626 milioni, a cui si devono aggiungere 454 milioni di spese effettive comunali e 94 milioni di spese provinciali; in tutto, secondo l’ultimo annuario statistico, 2.174 milioni. Ora la ricchezza privata ammontava in Italia, secondo calcoli eseguiti una decina d’anni fa, a 54 miliardi, e non si può supporla cresciuta – anche a voler essere esageratamente pessimisti – a più di 70 miliardi, cosicché, adottando il coefficiente del 15%, che un insigne statistico inglese, il Giffen, ha constatato per l’Inghilterra, il reddito totale del nostro paese non può essere superiore ai 10 miliardi.

 

 

L’imposta unica dovrebbe essere applicata coll’aliquota del 16,25% per lo stato, del 4,50 per i comuni e dell’1% per le province, ossia in tutto quasi del 22% sui redditi privati per ottenere una somma corrispondente all’attuale fabbisogno.

 

 

Ognuno comprende come ciò sia praticamente impossibile. Il fisco, per quanto lo si supponga oculatissimo, non riescirebbe a scoprire forse nemmeno metà dei 10 miliardi del reddito nazionale; sì che lo stato dovrebbe fare fallimento o ridurre le spese in modo che oggi dai più non si crede possibile.

 

 

È necessario dunque – ed è una necessità riconosciuta da tutti gli stati moderni – non ricorrere ad una sola imposta sui redditi per far fronte alle spese generali, ma acconciarsi ad un sistema di imposte molteplici, che riescano a trarre di tasca al contribuente con sottili e diversi accorgimenti i molti milioni necessari allo stato senza farlo troppo strillare, ed in guisa approssimativamente conforme a giustizia.

 

 

Anche in questo i principii tramandatici dal conservatore Robert Peel e dal liberale Gladstone, ed applicati in Inghilterra da lungo volgere di anni, ci sono fecondi di utili ammaestramenti.

 

 

Scegliendo l’anno 1899, noi ci troviamo dinanzi ad un bilancio attivo di 108 milioni e un terzo di lire sterline.

 

 

Su questi, circa 50 milioni sono forniti dai consumi; ma non da consumi di prima necessità o da dazi protettivi per alcune classi di produttori. Ogni imposta sulla fame è scomparsa; ed è scomparsa pure ogni imposta pagata dai contribuenti in minima parte allo stato ed in massima parte ad altri produttori. La scomparsa ha avuto una benefica influenza sul bilancio dello stato e sul benessere della nazione; basti accennare che quei 50 milioni sono incassati per mezzo di tributi su pochissimi oggetti: spiriti, birra, vino, tè, caffè, zibibbo, tabacco, cicoria, cacao, fichi ed uva secca, carte da giuoco, polvere da sparo; tutti consumi ritenuti dai più di lusso e pagati da poveri e da ricchi egualmente, se non in proporzione alla loro ricchezza, almeno in occasione di atti i quali denotano il possesso di un reddito superiore al minimo necessario per l’esistenza.

 

 

Non si toglie il pane di bocca al povero; non lo si obbliga a salar meno la minestra od a pagar più cara la luce del petrolio, come accade in Italia; ma soltanto si pretende il pagamento d’una tassa da chi vuol bere un bicchiere di birra o di vino, o vuole avvelenarsi coll’alcool, o vuole consumare tè o caffè o tabacco. Dato che il fabbisogno dello stato è alto e non può essere coperto anche se si impongono tributi altissimi sui redditi, il metodo seguito in Inghilterra è quello che urta meno il sentimento generale di giustizia.

 

 

Affinché i tributi sui consumi di lusso siano molto produttivi, fa d’uopo che il paese sia ricco; ma a questo Peel e Gladstone aveano provveduto togliendo i dazi protettivi che comprimevano lo sviluppo dell’industria nazionale e riducendo le aliquote delle imposte sui redditi entro limiti sopportabili.

 

 

Nel bilancio inglese del 1899 non mancavano invero i proventi delle imposte dirette.

 

 

Le tasse sugli affari gittavano quasi 7 milioni e due terzi di lire sterline; le imposte di successione 11,4 milioni; e la imposta sul valor locativo 1.600.000 lire sterline.

 

 

Le poste ed i telegrafi, i beni della corona, i diritti diversi davano quasi 19 milioni di lire sterline al lordo.

 

 

Il residuo della antica imposta fondiaria, quasi un censo fisso gravante sulla terra a profitto dello stato, fruttava 770 mila lire sterline.

 

 

Tutte imposte, come si può agevolmente giudicare, poco gravose e facilmente sopportate dai contribuenti, in quanto costituiscono o un canone fisso già ammortizzato, come l’imposta fondiaria, o un’imposta sul lusso, come quella sul valor locativo degli appartamenti molto ampii, sulle vetture e domestici, oppure un’imposta pagata abbastanza di buon grado, come quella di successione.

 

 

Sono imposte però le quali hanno una scarsa elasticità, perché non si possono contrarre o ridurre rapidamente a norma dei bisogni del bilancio, variabili da un anno all’altro per circostanze impreviste, come per una guerra che accresce le spese militari o per una crisi commerciale che scema il gettito dei consumi di lusso.

 

 

A questo provvedeva nel bilancio del 1899 l’income tax, ossia l’imposta sui redditi superiori alle 4.000 lire italiane. L’imposta era destinata, nel pensiero dei suoi creatori, a colmare i deficit del bilancio. Nel 1899 fruttava 18.000.000 di lire sterline in base ad un’aliquota di 8 pence su ogni lira sterlina, ossia del 3,20% del reddito.

 

 

Quando il ministro del tesoro ha bisogno di maggiori entrate, non ha che da aumentare di 1 d. per lira sterlina l’aliquota dell’income tax e 52 milioni di lire nostre entrano in più nelle sue casse. Passato il bisogno, l’aliquota viene novamente ridotta.

 

 

Così alla guerra di Crimea si provvide in parte accrescendo l’aliquota dell’imposta sul reddito. La quale fruttò 6 milioni 117 mila lire sterline nel 1853-54; lire sterline 10.513.369 nel 1854-55; lire sterline 14.814.757 nel 1855-56; lire sterline 16.089.933 nel 1856-57 per ridiscendere a lire sterline 11.586.114 nel 1857-58 ed a 6.683.587 nel 1858-59.

 

 

Quando sarà finita la guerra del Transvaal si potrà osservare il medesimo fenomeno di espansione e contrazione del prodotto dell’income tax. L’aliquota negli ultimi anni variò nel seguente modo: 1877: 3 d.; 1879: 5 d.; 1881: 6 d.; 1882: 5 d.; 1883: 6 1/2 d.; 1884: 5 d.; 1885: 6 d.; 1886: 8 d.; 1888: 7 d.; 1889: 6 d.; 1894: 7 d.; 1895: 8 d.; 1900: 1 scellino.

 

 

La soluzione che gli inglesi cresciuti alla scuola del Peel hanno dato al problema tributario soddisfa nel tempo stesso a molteplici esigenze. Soddisfa alle necessità della giustizia, perché colpisce i consumi di lusso ed i redditi superiori ad un minimo che è ora di ben 4.000 lire; della produttività fiscale perché si basa su consumi a larga base e profondamente radicati nelle abitudini della popolazione; della elasticità perché si può con una modificazione dell’aliquota accrescere o diminuire il gettito dell’imposta sul reddito per sopperire alle spese straordinarie; ed infine della convenienza economica perché sono escluse tutte le imposte che, per il soverchio fiscalismo o per la protezione concessa a talune industrie a scapito di altre, possono comprimere lo sviluppo della ricchezza nazionale.

 

 

V

 

Il voto recente della camera dei deputati, contrario all’abolizione del dazio sul grano, non ha fatto cessare la campagna che si combatte vivissima pro e contro il dazio. Forse anzi ha infuso novello ardore negli animi degli abolizionisti. Non da oggi chi scrive è favorevole all’abolizione completa e graduale del dazio sul grano. Non giova adesso ripetere i motivi della convinzione. Piuttosto, ad incorare i combattenti ed inspirar loro fiducia nel trionfo della giusta causa, sembra preferibile raccontare per sommi capi la storia di un’agitazione intrapresa con gli intenti medesimi e condotta a termine trionfale in breve volgere di anni in Inghilterra dalla famosa Anti-Corn League, «Lega per l’abolizione delle leggi sui cereali». Fu una campagna coraggiosa e mirabile quella che nell’ottobre del 1838 si iniziò a Manchester contro il regime di monopolio e di protezione che immiseriva l’Inghilterra.

 

 

Il dazio a scala mobile sui cereali, inteso a mantenere, con una tariffa variabile da 1 scellino a 20 scellini, il grano al prezzo remuneratore prima di 80 e poi di 70 scellini al quarter (il quarter equivale a circa tre ettolitri e lo scellino a lire 1,25), era il fondamento principale del regime monopolistico, e contro di esso diressero anzitutto i loro colpi più rudi i sette apostoli del libero scambio che nell’ottobre del 1838 fondarono la lega di Manchester.

 

 

L’impresa non era agevole. Essi avevano contro di sé il parlamento, la chiesa, lo stato, i grandi proprietari fondiari, tutti gli industriali protetti ed i monopolisti. In un paese dove le cose antiche sono circondate da rispetto quasi superstizioso, la impresa poteva sembrare impossibile. Ma gli apostoli non si scoraggiano. Se i proprietari si appoggiano alla chiesa ufficiale, i seguaci della lega fanno appello alle chiese dissidenti. Contro l’aristocrazia fondiaria, il clero, la burocrazia, essi organizzano ed ammaestrano le classi manifatturiere, la borghesia media, gli industriali, i commercianti e gli operai.

 

 

I poveri ascoltano la parola dei missionari della buona novella economica ed i fondi necessari per le spese di propaganda sono largamente sottoscritti dai ricchi, penetrati dalla luce della verità. Nel 1841 le sottoscrizioni volontarie ai fondi della lega di Manchester sono di 200.000 lire italiane, e raggiungono 600.000 lire nel 1842, un milione nel 1843, 2 milioni nel 1844. In un giorno solo, il 14 novembre 1844, sono sottoscritte, in mezzo ad un grande entusiasmo, più di 400.000 lire.

 

 

La propaganda si esercita attiva, incessante, nelle città e nei villaggi dell’Inghilterra per mezzo di opuscoli, fogli volanti, affissi, giornali. L’Inghilterra viene divisa in dodici distretti, ognuno dei quali è affidato ad uno speciale propagandista. In ogni città ed in ogni contea la lega tiene le sue assemblee e le sue conferenze pubbliche. Cobden, Bright, Gibson, Villiers si moltiplicano ed accorrono in ogni luogo dove la loro parola può essere feconda di bene. Essi vanno audacemente nelle campagne, in mezzo ai contadini ed agli affittavoli; e tenendo testa con coraggio agli avversari, riescono a conciliarsene la simpatia e talvolta i voti. I fanciulli e le donne sono chiamati a contribuire all’opera. Nei sillabari e nei libri di lettura dei fanciulli si leggono dialoghi sul «monopolio ed il libero scambio». Le donne attendono alla spedizione dei giornali e degli opuscoli, preparano feste a favore della lega ed arringano dall’alto della tribuna la folla.

 

 

A poco a poco l’idea si fa strada. La riforma elettorale del 1834 aveva permesso alle classi medie di inviare rappresentanti al parlamento. Con grande stupore ed indegnazione delle classi possidenti, le città manifatturiere mandano Cobden, Bright e Villiers alla camera dei comuni.

 

 

Erano uno scarso manipolo, ma li sorreggeva la fede nella bontà della causa, congiunta al favor crescente della pubblica opinione. Con tenacia ostinata il Villiers ogni anno proponeva una mozione, la quale recitava: «… La camera, riconoscendo che un grandissimo numero dei sudditi di Sua Maestà sono insufficientemente provveduti degli oggetti di prima necessità; che frattanto è in vigore una legge la quale limita gli approvigionamenti e perciò diminuisce l’abbondanza degli alimenti; che ogni restrizione avente per iscopo di difficultare la compra delle cose necessarie alla sussistenza del popolo è insostenibile in principio e di fatto funesta e deve essere abolita, delibera di abrogare immediatamente il dazio sui cereali». Ogni anno Villiers proponeva questa mozione ed ogni anno la mozione era respinta.

 

 

Con una maggioranza sempre decrescente. Nel 1842 la maggioranza contraria all’abolizione del dazio sui cereali era di 303. Nel 1843 è soltanto più 258. Nel 1844 cade a 204; e la discesa avveniva in una camera eletta nel 1841 col programma esplicito di resistenza contro qualsiasi innovazione troppo pronunciata contro il regime economico e doganale esistente. Roberto Peel era andato, per opera del partito conservatore agrario, a capo del governo col programma apertamente esposto di mantenere le leggi sui cereali ed il sistema monopolistico doganale e coloniale. La sua vittoria schiacciante nelle elezioni del 1841 contro i liberali era stata appunto dovuta alla proposta di lord Russell, ministro nel liberale gabinetto Melbourne, di ridurre ad 8 scellini per quarter il dazio sul grano.

 

 

Contro l’opinione pubblica tuttavia non si resiste. Il decrescere continuo della maggioranza contraria alle mozioni abolitive del dazio sui cereali avverte Roberto Peel che il deputato inglese medio presente l’avvicinarsi della burrasca, capisce che i sentimenti del corpo elettorale tendono verso una trasformazione in senso liberista e si prepara ad attenuare l’antica fede protezionista in previsione delle venture elezioni generali.

 

 

Il capo del governo ammette dapprima in un discorso alla camera che le teorie liberiste sono vere in astratto e si confessa dolente di non poterle seguire in pratica a causa delle condizioni della società in mezzo a cui si è obbligati a vivere, ecc., ecc…

 

 

Ma la campagna della lega di Manchester continua. Dopo avere trasformato i sentimenti delle masse, la lega si prepara alla conquista del parlamento. La legge elettorale, accordando il diritto di voto ad ogni inglese possessore di una proprietà del reddito di 2 lire sterline annue, la lega si propone di crescere il numero degli elettori, comprando, con 50 o 60 lire sterline, una proprietà avente il reddito minimo legale. In soli tre mesi del 1845, ben 250 mila lire sterline entrano nella cassa della lega per essere in tal modo impiegate. L’effetto sul parlamento dell’ardita iniziativa della lega è immediato. Quando il Villiers, nel 1845, presenta la solita mozione contro le leggi sui cereali, la maggioranza contraria, che tre anni prima era di 303, si riduce a 132.

 

 

Qui si vide il genio di Roberto Peel. Contrario fin’allora all’abolizione del dazio, si accorge che, se avesse continuato nella politica di resistenza, il partito conservatore sarebbe stato perduto.

 

 

Audacemente l’uomo di stato gira di bordo; ed in occasione della legge del bilancio, presentata il 29 maggio 1846, propone – egli venuto al potere per mantenere i dazi ed i monopoli – la riduzione immediata del dazio a scala mobile ad un limite bassissimo e la completa abolizione del dazio a partire dall’1 febbraio 1849.

 

 

La camera, incalzata dalla marea crescente dell’opinione pubblica e dagli orrori della carestia irlandese, approva le proposte del ministro.

 

 

Poco dopo, è vero, Roberto Peel pagava il fio della sua audacia. Il 25 giugno 1846, nel giorno istesso in cui la regina Vittoria sanzionava la legge abolitrice del dazio sui cereali e dava così il suo nome ad uno dei più grandi avvenimenti storici del secolo 19esimo, una coalizione di conservatori, irritati per il mutamento d’idee del loro capo, di irlandesi e di altri abbatteva il ministero riformatore.

 

 

In quella memoranda seduta, Roberto Peel, prima di cadere, fieramente rivolgeva ai suoi avversari le parole seguenti: «… Io lascerò, cadendo dal potere, un nome odiato da ogni monopolista desideroso di mantenere la protezione a suo individuale vantaggio. Ma forse io lascerò anche un nome ricordato talvolta con gratitudine nelle dimore di coloro la cui sorte è di lavorare e guadagnare pane giornaliero col sudore della fronte e che potranno ricostituire le loro forze esauste con un cibo abbondante, immune da imposte e non amareggiato da alcun sentimento di ingiustizia».

 

 

Così cadono i grandi uomini di stato.

 

 

La sua caduta non giovò ai conservatori che si erano rifiutati di seguire il loro capo sulla via delle riforme.

 

 

Morto Roberto Peel quattro anni dopo, i suoi fidi si unirono ai liberali. Così grande fu l’ammirazione del popolo verso chi li aveva liberati dall’imposta sulla fame e così radicato l’odio verso i conservatori che quell’imposta volevano mantenere, che un’intera generazione dovette passare prima che il ricordo della lotta combattuta contro Peel divenisse meno vivo ed i conservatori potessero ritornare al potere, strappandolo al partito liberale che delle idee del conservatore Peel aveva saputo farsi vindice. Ammonimento solenne a quei partiti politici italiani i quali si illudessero di potere, senza danno proprio, procrastinare l’ora della riforma tributaria!

 

 



[1] Dei cinque articoli qui raccolti sotto il titolo Per la giustizia tributaria, i primi quattro furono pubblicati sulla «Stampa» alle date segnate. L’autore aveva dato un seguito alla serie con un quinto articolo che, per il consueto sopravvenire di nuovi avvenimenti e problemi, rimase, composto, sul bancone della sala dei compositori nella tipografia del giornale. L’autore, evidentemente persuaso di avere scritto cosa meritevole di passare ai posteri oltre la vita effimera dei numeri di un quotidiano, incluse anche l’articolo non pubblicato in un libretto, stampato a buon mercato con gli stessi piombi usati per il giornale, col titolo Per la giustizia tributaria, un vol. in 15esimo di pp. 57, casa editrice nazionale Roux e Viarengo, Torino Roma s. d., al prezzo di lire una. Quale fosse la tiratura non è ricordato dall’autore; ma il numero delle copie rimaste in magazzino fa presumere che la vendita sia stata irrilevante (Nota del 1959).

[2] Con il titolo Confronti e speranze. Ristampato nel 1901 in Per la giustizia tributaria (n. 391), I, pp. 5-12 [ndr]

[3] Con il titolo La Finanza empirica [ndr]

[4] Con il titolo L’opera del ministro del Tesoro. Ristampato nello stesso anno col titolo Un ministro del Tesoro in Per la giustizia tributaria (n. 391), III, pp. 27-33 [ndr]

[5] Con il titolo I limiti della giustizia tributaria. Ristampato nello stesso anno col titolo L’attuazione della giustizia tributaria in Per la giustizia tributaria (n. 391), IV, pp. 37-46 [ndr]

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