Opera Omnia Luigi Einaudi

Per intensificare l’emissione dei buoni del tesoro

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1918

Per intensificare l’emissione dei buoni del tesoro

«Corriere della Sera», 1° settembre 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 714-719

 

 

Il tesoro italiano provvede in diverse maniere ad accaparrare i risparmi privati, i quali si vanno continuamente formando: 1) con i prestiti consolidati in rendita 5% , emessi a distanza di un anno circa l’uno dall’altro; 2) con i buoni quinquennali e triennali 5% , emessi a gitto continuo, su domanda dei risparmiatori, ad un prezzo fisso di 97,50 e di 98,50, calcolato in modo che il reddito del titolo risulti superiore al 5,5% ; 3) con i buoni ordinari, a scadenze da tre a dodici mesi, fruttanti un interesse dal 4 al 5 % ; 4) con i buoni quinquennali da lire 25, scadenti al 1 aprile 1923, fruttanti il 5% , in cedole pagabili in lire 1,25 al 1 aprile d’ogni anno.

 

 

I quattro metodi ora indicati rispondono ad esigenze differenti ed ottimamente si fa a ricorrere ad ognuno di essi, in guisa da ottenere il massimo effetto possibile. Ma è evidente che dei prestiti in rendita 5% non si può far uso troppo frequente, non essendo il pubblico in grado di assorbire troppo spesso somme cospicue di un titolo il quale implica un impiego permanente del risparmio. È probabile anzi che il mercato non abbia finito neppure ora di digerire i sei miliardi dell’ultimo prestito del febbraio scorso, come parrebbe indicare la fiacchezza delle quotazioni di esso, circa 86,50 lire, in confronto con la sostenutezza straordinaria della rendita 3,50, quotata 83 lire. Tra le molte cause, che ho cercato altre volte di spiegare, bisogna noverare pure il fatto che molti sottoscrittori, specie industriali, fecero il passo più lungo della gamba e vendettero poscia parte dei titoli, sottoscritti in grosse somme per fare bella figura. È possibile che il tesoro voglia perciò dar tempo al mercato di assorbire a poco a poco le partite flottanti, sicché di un nuovo prestito non si abbia a riparlare tanto presto.

 

 

Frattanto la guerra richiede 1 miliardo e 800 milioni al mese, a cui bisogna provvedere, massimamente con prestiti interni. Poiché sarebbe funesto ingrossare ancora notevolmente la circolazione, è necessario che il pubblico – fornitori, industriali, risparmiatori in genere – sottoscriva almeno 1 miliardo al mese nelle diverse forme di buoni del tesoro.

 

 

Le ultime due situazioni del tesoro al 31 maggio ed al 30 giugno 1918 – pubblicate con un ritardo nuovo e lamentevole, a cui l’on. Nitti dovrebbe porre riparo – indicano così i quantitativi richiesti ai diversi mezzi di credito (in milioni di lire):

 

 

Circolazione

833,5

Buoni da 1 a 2 lire

17,5

Biglietti da 5 a 10 lire

66

Biglietti di banca

750

Totale

833,5

Vaglia del tesoro

382

Buoni del tesoro

898,5

Ordinari

640

Poliennali

258,5

Totale

898,5

Prestiti esteri

1345

Inglesi

568

Americani

777

Totale

1345

Totale debiti

3459

 

 

La cifra dei prestiti esteri è di giuste proporzioni; ma dei debiti interni è eccessiva la quantità dei vaglia del tesoro, che sono debiti a vista e pericolosa quella degli 833,5 milioni di biglietti nuovamente emessi in due soli mesi. Se si seguita di questo passo, anche se i cambi ribassano grazie agli accordi con gli alleati, i prezzi debbono continuare a salire crescendo il malcontento delle masse e lo spostamento delle fortune.

 

 

È necessario, è urgente aumentare le emissioni dei buoni del tesoro.

 

 

Fortunatamente il buono è un titolo meraviglioso, che si presta ad ogni sorta di esigenze. V’ha chi vuole un impiego duraturo, con la sicurezza del rimborso in cifra fissa a cose finite, a pace fatta, quando egli potrà scegliere l’impiego allora più sicuro e conveniente? E costui compri il buono a 5 od a 3 anni, a seconda delle sue opinioni sulla probabile durata della guerra. V’ha chi ha somme disponibili per pochi mesi, perché è interessato in imprese industriali od in commerci, e ritiene di averne bisogno presto? Egli può acquistare buoni ordinari, i quali vengono presto a scadenza e gli danno un frutto, quale non si può sperare da nessun deposito in banca. Il buono ordinario conviene anche al privato, il quale non ha ancora ben fermo in mente l’impiego da dare ai suoi risparmi. Mentre attende, il buono gli dà un ragguardevole frutto. Se vorrà sottoscrivere al futuro prestito, il buono gli verrà conteggiato al prezzo d’acquisto, più interessi decorsi.

 

 

Dal canto suo, il governo dovrebbe fare il possibile per popolarizzare i buoni. La propaganda, parmi, è fatta un po’ fiaccamente, sicché sono ancora moltissimi coloro i quali non sanno di potere acquistare in qualunque momento, per qualsiasi somma buoni a 3, 6, 9, 12 mesi, 3 e 5 anni a prezzo fisso. Sovratutto si dovrebbe rendere i buoni più attraenti, aumentando il saggio dell’interesse. Se i buoni a 5 e 3 anni fossero venduti a 100 lire, anche senza sconto sul prezzo, ma al 6% d’interesse, la loro popolarità crescerebbe assai. Il pubblico, a torto od a ragione, apprezza di più il reddito rotondo, pagato a titolo di interesse, che non quello che si gode, pagando il titolo 1,50 o 2,50 meno in confronto alla pari. Una innovazione, che non ha incontrato il favore del pubblico medio, è quella di pagare gli interessi del primo semestre anticipatamente. Arrivato alla scadenza, il portatore ha l’impressione di non ricevere il dovuto; né si decide a considerare come reddito ciò che si è pagato in meno all’atto della sottoscrizione. Moltissimi si ostinano a considerare come reddito solo ciò che si riceve, non ciò che non si paga. Sembra una futilità, ma occorre tenerne conto. È probabilissimo perciò che se lo stato vendesse buoni a 100 lire al 6% avrebbe un successo assai maggiore che non vendendo buoni a 97,50 a 5 anni al 5%; sebbene in fondo il maggior gravame per l’erario sarebbe solo del 0,40% circa all’anno.

 

 

Dal punto di vista psicologico, parmi degno di essere meditato il metodo inglese, che consiste nel pagare il premio in un dippiù oltre la pari alla scadenza del buono. I National War Bonds inglesi a scadenza del 1 aprile 1923, ossia a 5 anni circa sono venduti a 100 lire, fruttano il 5% e sono rimborsabili alla scadenza a 102 lire; quelli a 7 anni, scadenti il 1 aprile 1925, costano ora 100 lire, fruttano il 5% e sono rimborsabili in 103 lire; e finalmente quelli a 10 anni, scadenti il 1 aprile 1928 fruttano sempre il 5% e sono rimborsabili in 105 lire. Il fondamento psicologico del metodo inglese è questo: che il risparmiatore considera il 100 come capitale; e quindi è meglio fargli pagare 100 e rimborsargli 102, 103 e 105 che non fargli pagare 95, 97 e 98 e rimborsargli 100. Nel secondo caso egli riceve bensì un premio di 5, 3 e 2 lire, ma ha l’impressione di ricevere solo il suo capitale di 100 lire e non qualcosa che egli possa godere. Invece nel primo caso, egli ha la sensazione diretta di ricevere, oltre il rimborso del capitale in 100 lire rotonde, ancora 2, 3 e 5 lire in più di cui può fare l’uso che crede, senza pregiudicare il capitale.

 

 

Sembrano piccole sfumature; ma, poiché le azioni economiche degli uomini sono determinate, più che non si creda, da abitudini ed impressioni, non si può negare che esse non abbiano avuto gran parte nel magnifico successo dei buoni del tesoro inglesi che dal 2 ottobre 1917 al 15 agosto 1918 gittarono 25 miliardi di lire nostre. Il successo è stato così grande che oramai in Inghilterra si ritiene di poter fare a meno di ricorrere a grandi prestiti, che disturbano il mercato, richiedono sforzi improvvisi e colossali e non fruttano di più dei buoni. Perché in Italia non si concentra l’attenzione sui buoni, aggiungendo a quelle gia’ in corso un’altra serie a 10 anni, la quale sarebbe gradita a coloro che desiderano investimenti duraturi? Per tutte le specie di buoni del tesoro fa mestieri studiare attentamente se non convenga aumentare, in diversa misura a seconda della specie del buono, il saggio dell’interesse. Vi sono almeno due ragioni le quali favoriscono tale soluzione:

 

 

  • meglio è fare un sacrificio su un titolo che ha breve durata che sulla rendita 5% . Troppo si è condisceso a ribassare il prezzo d’emissione della rendita 5% , gravando lo stato di un interesse elevato per lunghi anni, fino a che non sia possibile effettuare una libera conversione. Meglio pagare il 6% sui buoni a 1 anno od a 3-5 anni. Il carico è temporaneo ed è probabile che, a guerra finita, si possano fare prestiti in rendita 5% ad assai migliori condizioni per lo stato di quelle ultime e col provento rimborsare i buoni;
  • un buon interesse è necessario per vincere la concorrenza dei titoli privati – azioni ed obbligazioni – che tuttodì vengono posti sul mercato. Specialmente le azioni, insieme con le terre e le case, fanno oggi concorrenza viva ai titoli di stato. Il pubblico compra titoli privati perché li vede aumentare di prezzo di mese in mese e calcola sul doppio utile, del dividendo e dell’apprezzamento del valor capitale. Per parecchie ragioni, qualunque provvedimento si volesse prendere, con divieti, imposte, minacce contro gli speculatori di borsa, per impedire gli aumenti di valore dei titoli e delle terre farebbe più male che bene. Quel movimento al rialzo, entro certi limiti e in media, astrazion fatta da stravaganze singole le quali si puniscono da se stesse, è necessario e naturale. Vociferare contro gli aumenti di valore dei titoli, come delle terre è un errore, come è un errore gridare contro l’aumento dei prezzi delle merci. Sono amendue effetti fatali della medesima causa: che è il deprezzamento della moneta. Se i prezzi dei terreni, delle macchine, dei titoli, delle merci non aumentassero, si produrrebbe uno squilibrio, il quale non potrebbe durare. Lasciamo quindi che i valori aumentino, il che al postutto è solo un non perdere, in confronto alla moneta deprezzata, e procuriamo piuttosto di evitare che per l’avvenire non si inaspriscano le cause le quali produrrebbero, se fossero lasciate continuare, ulteriori aumenti.

 

 

Altro metodo io non vedo, che sia efficace e che non rientri nel novero dei soliti cerotti legislativi dei soliti progettisti, all’infuori di non crescere la già eccessiva massa dei biglietti circolanti. Il dilemma è: farsi imprestar denaro emettendo biglietti e provocando il gonfiamento artificiale dei prezzi delle merci e dei valori capitali; ovvero farseli imprestare emettendo buoni e cioè ritirando biglietti e per ciò contraendo i prezzi. Per rendere i buoni graditi ai capitalisti occorre che essi rendano in interesse di più del guadagno che si può sperare da altri impieghi. Oramai le terre ed i titoli azionari sono capitalizzati a prezzi tali che il frutto bene spesso si aggira dal 2 al 4%. Se i buoni rendessero il 6% , molti rifletterebbero che forse non val la pena di rinunciare al maggior interesse sicuro – differenza fra il 6% fruttato dai buoni del tesoro ed il 3% fruttato dalle azioni e dalle case sul prezzo odierno di acquisto -, per correre dietro alla speranza di un ipotetico aumento ulteriore di valore dei titoli privati, terreni e case.

 

 

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