Paghe medie e gerarchia di valori
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/05/1923
Paghe medie e gerarchia di valori
«Corriere della Sera», 3 maggio 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 220-223
L’articolo di qualche giorno fa sulle economie ferroviarie mi ha procurato lettere in vario senso. Impiegati dello stato, i quali hanno la sensazione di avere ottenuto dopo il 1914 incrementi di stipendio assai inferiori a quelli raggiunti dai corrispondenti agenti delle ferrovie di stato, scrivono consentendo. Uno di essi mi segnala un confronto tratto dal Bollettino ufficiale del ministero dei lavori pubblici (XXII, 632 e XXIII, 1763) e dal quale risulterebbe, ad esempio, che per gli uscieri statali lo stipendio minimo è di 4.000 lire e per quelli ferroviari 6.750 lire; lo stipendio dopo 12 anni è rispettivamente 4.900 ed 8.100 e neppure dopo 20 anni gli statali raggiungono (5.500) la cifra di 8.100 che ai ferroviari spetta dopo 12 anni. Ed aggiunge che le «competenze accessorie» sono un vantaggio negato alla più parte degli statali e che i caro-viveri sono due per gli statali e tre per i ferroviari.
Altri, impiegati delle ferrovie di stato e dei comuni, protestano. E vorrei dire subito che protestano a ragione contro di me, se non avessi il diritto di difendermi, ripetendo un’osservazione già fatta: che cioè un disgraziato scrittore di articoli, costretto entro i limiti di una colonna e mezza, non può dir «tutto». Per forza, è necessario, trattando un dato problema, trascurare le sfumature di tutti gli altri problemi collegati a quello. Parlavo l’altro giorno del proposito di ridurre i costi dell’esercizio ferroviario; proposito ad ottenere il quale deve contribuire anche la riduzione del costo del personale, agendo sia sul numero dei ferrovieri (che da 235.000 dovrebbero essere portati a 190.000), sia sulle paghe che, senza essere fatte discendere al livello di quelle degli impiegati statali, dovrebbero essere alquanto scemate sino a diminuire la differenza intercedente tra le due categorie, aumentando nel tempo stesso però le cointeressenze le quali non costerebbero nulla allo stato e consentirebbero ai buoni agenti di ricuperare ad usura la perdita derivante dall’equiparazione con gli statali. Naturalmente, parlavo per medie generali, senza soffermarmi sulle differenze tra grado e grado e sul trattamento particolare da farsi alle varie categorie. Non era il luogo, quello, di una lunga parentesi per rispiegare una tesi che tante volte è stata esposta da questo giornale.
Le lettere ricevute da impiegati ferroviari ed anche da impiegati comunali mi ricordano questa antica tesi nostra:
«Avete torto, mi dicono quelle lettere, di parlare di stipendi troppo alti degli impiegati ferroviari e comunali in genere. La verità è che i nostri stipendi non sono neppure triplicati in confronto all’ante guerra. Non bisogna scambiare gli aumenti ricevuti dagli impiegati delle ferrovie e dei comuni in genere con gli aumenti ricevuti da certe categorie di ferrovieri privilegiati o dai vigili del fuoco di Milano all’epoca della giunta Filippetti. Se è vero che talune categorie moltiplicarono per 6 o per 7 o per 8 le loro paghe, non è men vero che le nostre furono moltiplicate per 3 e restarono al disotto del rialzo del costo della vita; sicché noi stentiamo peggio di prima. Sarebbe ingiustizia somma ridurre le nostre paghe solo perché alcuni ottennero aumenti eccezionali».
Credo di avere esposto con fedeltà la tesi degli impiegati, tanto più fedelmente, in quanto, ripeto, è quella stessa che in altre occasioni fu qui ripetutamente sostenuta. Il problema della riduzione delle spese del personale nelle ferrovie dello stato e nei comuni può porsi così:
- vi è in primo luogo un problema di numero. È il problema di gran lunga più importante. Il numero eccessivo degli agenti in un dato servizio produce danni di ogni sorta: confusione per ingombro di personale, creazione di posti inutili, che creano un lavoro artificioso e disturbano il pubblico, incitamento a tutti a diminuire la propria resa, per il malo esempio fornito da coloro i quali sono inutili, reclutamento meno scelto del personale ed abbassamento generale del suo livello. Oserei dire che, risolto il problema del numero, nove decimi dell’intiero problema del personale sono risoluti. È anche il problema più difficile, perché l’eliminazione dovrebbe fondarsi esclusivamente sulla incapacità tecnica, sulla scarsa propensione al lavoro e sulla minore elevatezza morale; mentre, purtroppo, è umano errare ed anche colle migliori intenzioni possono essere sacrificati i modesti e laboriosi a vantaggio dei procaccianti;
- vi è in secondo luogo, un problema di paghe. Supponiamo che in media, si riscontri che le paghe nelle ferrovie di stato o in certi comuni siano al di là della capacità di pagare dell’azienda o del comune; e si vogliano, ad esempio, ridurre da 11.000 a 10.000 lire in media. Ciò non vuole affatto dire che la riduzione debba essere generale ed uniforme. Sarebbe somma ingiustizia. Bisogna invece ristabilire la scala dei meriti, che fu scandalosamente invertita all’epoca del bolscevismo. Se prima della guerra, in tre gradi differenti della gerarchia, le paghe erano di 150, 300 e 500 lire al mese, v’è una certa probabilità che il coefficiente di moltiplicazione adoperato sia stato di 6, 4 e 3 nei tre gradi, che possiamo far corrispondere all’ingrosso ai lavori manuali, d’ordine e di concetto. Le paghe o stipendi diventarono di 900, 1.200 e 1.500 lire. Spesso diventarono di 1.200, 1.300 e 1.400 lire, con differenze minime fra un grado e l’altro. Ciò evidentemente inverte i rapporti sociali e distrugge il rispetto che deve esistere nei gradi inferiori verso i gradi superiori della gerarchia. Bisogna, a grado a grado e con i temperamenti imposti dall’equità, ristabilire i valori sociali. Moltiplicando tutte le paghe dell’ante guerra per 4, le paghe attuali risulterebbero di 600, 1.200 e 2.000 lire. Dunque, in certi gradi occorre, non diminuire, ma aumentare. Forse non è prudente aumentare subito; ma se si vuole crescere la resa del lavoro, nelle pubbliche amministrazioni bisogna avviarsi a pagare ognuno secondo i proprii meriti.
Né si assumano queste considerazioni come rivolte senz’altro contro il lavoro manuale. Bisogna dare il giusto peso alla circostanza che, prima della guerra, le paghe in certi gradi bassi erano straordinariamente basse e quindi per esse l’adozione di un moltiplicatore maggiore di 4 non fu se non la ripartizione di una ingiustizia precedente. Ma sono numerosi i casi nei quali invece gli aumenti furono concessi a chi meno se l’aspettava e non ebbero alcuna efficacia ad aumentare la produttività del beneficiato. Nei lavori manuali bisogna distinguere tra quelli tecnici e specializzati, i quali sono pagati bene in qualunque industria privata, da quelli ordinari, per i quali non c’è ragione che lo stato od i comuni paghino più di quanto sia la paga corrente nella località. Notisi che i casi in cui, per comune persuasione, si è ecceduto per le imposizioni della piazza, appartengono alle categorie più numerose e pesano quindi molto sulle medie.
La questione delle paghe è, in ogni caso, di assai minor peso di quella del numero. Arriverei fino a sostenere la seguente tesi: che il miglior modo per gli agenti delle ferrovie di stato di dimostrare la giustizia di conservare le proprie paghe medie, sebbene tanto superiori a quelle statali, sarebbe di collaborare con fervore alla diminuzione del proprio numero. Se 235.000 agenti non meritano le attuali 11.000 lire in media a testa, perché in questo gran numero vi sono non pochi ignavi, incapaci e turbolenti, 190.000 agenti, i quali avessero contribuito al risanamento delle finanze dello stato, collaborando ad eliminare dal proprio seno gli esuberanti, si imporrebbero moralmente all’opinione pubblica così che con tutta probabilità nessuno parlerebbe più di riduzione di paghe. Se ne parla oggi perché si ha la sensazione che la resa non corrisponda al costo. Se un numero minore di agenti, nel cui interno le remunerazioni fossero distribuite a norma delle leggi eterne della gerarchia dei valori, facesse fronte ad un traffico che ci dobbiamo augurare crescente, tutti avrebbero una sensazione diversa. Ed allora, agli impiegati statali, i quali ancora si lamentassero della sperequazione delle paghe a proprio danno, i ferrovieri potrebbero rispondere trionfalmente: «Noi rendiamo quanto costiamo. Fate voi altrettanto; e potrete pretendere non di abbassare noi ma di elevare voi stessi». Oggi, di fronte ad un disavanzo ferroviario di 1.500 milioni, i ferrovieri non possono tenere questo linguaggio. Ad essi il compito magnifico di rovesciare la situazione.