Ordinamenti gerarchico ed insegnanti medi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/01/1925
Ordinamenti gerarchico ed insegnanti medi
«Corriere della Sera», 2 gennaio 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 9-13
L’ordinamento gerarchico degli impiegati dello stato, ordinato col R.D. 11 novembre 1923, ha assolto in questo primo anno di esperienza l’ufficio che i suoi fautori – e chi scrive lo era da anni e l’aveva ripetutamente invocato – gli assegnarono: quello di attribuire alle diverse carriere dei funzionari statali una valutazione comparativa, la quale impedisse le continue, accidentali, sperequate mutazioni di una sola carriera. L’abilità di un ministro, la sua maggiore intraprendenza, la furberia di un gruppo di impiegati bastavano a provocare lo spostamento in un punto; e di qui, per il gioco dei mattoni, il moto si propagava a tutto il resto del corpo degli impiegati. Tutti si credevano menomati in dignità e posizione economica; ognuno paragonava la sua sorte a quella del collega più fortunato; e di qui procedeva la rovina del bilancio dello stato. L’inquadramento generale non vuol dire assimilazione militaresca alla gerarchia dell’esercito. Significa soltanto che, d’or innanzi, non potrà essere mutata, senza gravi ragioni, la valutazione relativa dei gradi di carriera delle diverse specie di impiegati. Il problema non può più essere risolto a spizzico; ma deve essere ogni volta riesaminato nel suo complesso. Il consiglio dei ministri prima ed il parlamento poi, dinanzi ad una richiesta di migliorie di un gruppo, non possono più giudicare soltanto se quella richiesta sia per se stessa giusta e comportabile con la situazione finanziaria dello stato, ma debbono vedere sovratutto se essa sia giusta in rapporto a tutti gli altri gruppi componenti l’esercito dei servitori dello stato e se sia sopportabile, non il carico particolare, ma quello totale di cui la riforma della gerarchia nel suo complesso sarà cagione. È indubitato perciò che lo sforzo di un gruppo di impiegati per ottenere il miglioramento delle proprie condizioni economiche deve oggi essere più grande di prima; e che quello sforzo non ha probabilità di approdare se il gruppo non è capace di cattivarsi il favore dell’opinione pubblica così che questa, favorendolo, tenga nel tempo stesso a segno gli altri gruppi che, da un ritocco particolare alla gerarchia, vorrebbero trarre argomento per una spinta generale delle remunerazioni all’insù.
Ho voluto far questa premessa prima di discorrere di un memoriale della federazione nazionale degli insegnanti di scuole medie, dalla lettura del quale trae occasione il presente articolo. Tra quante lagnanze furono suscitate dall’ordinamento gerarchico, quelle degli insegnanti medi mi son parse certo le più meritevoli di considerazione. Al di sopra di esse metterei solo, sebbene in senso stretto estranee all’ordinamento, quelle dei vecchi pensionati dello stato. Come facciano a vivere costoro, con poche lire di pensione al giorno, come trascinino l’esistenza alti magistrati, professori d’università, colonnelli, generali obbligati a vivere essi, la moglie, talvolta figlie nubili con pensioni di dieci, quindici lire al giorno è inconcepibile. So di un professore universitario, il quale per non morire di fame, insegna come supplente incaricato nell’istituto dove un dì era ordinario; vi son generali che si adattano a far gli scritturali agli ordini di antichi loro subalterni; capi divisione di ferrovia la cui pensione è assai minore di quella del loro usciere recentemente uscito di servizio. Tragedia morale, oltreché materiale, più atroce di quella degli antichi pensionati non esiste. Tuttavia, tra gli impiegati attualmente in servizio, il ceto dei professori medi fu il peggio trattato dall’ordinamento gerarchico. Su questo punto la causa par vinta da quando l’on. Casati, ministro, disse la loro posizione economica «disagiata al punto da non essere umano sperare che si trovino quasi più insegnanti». In assoluto, quale attrattiva, per un giovane di valore, può esercitare una carriera in cui si entra, dopo una laurea ed un concorso difficile, con stipendi di 705,40 lire nette mensili per il ruolo A e di 523,90 lire per il ruolo B e si giunge, dopo 27 e 25 anni rispettivamente, a massimi di 1.187 e 1.012 lire? Con gli stipendi di entrata stentano oggi, durante gli anni di università, a vivere gli studenti e lo sappiamo noi insegnanti quando si presentano, agli esami, tante facce mai viste e riceviamo la solita risposta del non poter venire a lezione, perché impiegati a guadagnarsi il sostentamento.
Per rendere tollerabile i massimi a uomini di 50 anni bisognerebbe non avessero moglie e figli, non comprassero libri ed a poco a poco si inselvatichissero o vivessero come monaci. Il che né s’usa né sarebbe confacente all’ufficio di maestro.
In via comparativa io non mi atterrei troppo, come fa la federazione, al confronto con gli ufficiali del r. esercito, gli studi, i doveri, i dispendi, i rischi dei quali sono troppo diversi perché la comparazione riesca fruttuosa. Piuttosto è ragionevole il paragone con i magistrati, i quali compiono studi e superano esami di concorso all’incirca uguali a quelli dei professori medi. Eppure quei magistrati, i quali limitano la loro carriera al grado sesto (giudici e sostituti procuratori del re di prima classe), giungono dopo 17 anni a 22.000 lire lorde di stipendio, compresa l’indennità di servizio attivo; mentre i professori medi giungono a 17.000 se di ruolo A, e 14.500 lire, pure lorde, se di ruolo B dopo 27 e 25 anni rispettivamente. Che i professori medi abbiano ragione di aspirare alla dignità di magistrato non superiore, non pare contestabile; che si sia sempre siffatta dignità a parole ad essi attribuita ufficialmente pare ugualmente certo. Se qualcosa può essere dimostrato in questa materia opinabile, la dimostrazione di un trattamento sperequato ed ingiusto contro i professori medi si può reputare data.
Dissi sopra però, nella premessa dell’articolo, che l’ordinamento gerarchico ha per effetto – ed è la sua virtù massima – di opporre alle riforme, anche giuste, una resistenza assai più forte di quella che si riscontrasse negli antichi ordinamenti spezzettati. Non bastano i memoriali; né è decisiva la convinzione del ministro. Bisogna, per una categoria che si ritiene gravata, riuscire altresì ad impedire che altre categorie profittino del suo movimento per muovere richieste e, con un assalto generale, scrollare il bilancio dello stato.
Se ben si riflette, ciò equivale a dire che non basta la dimostrazione tecnica, ma occorre la propaganda di idee compiuta in maniera da identificare l’interesse proprio con l’interesse collettivo. Occorre che l’opinione pubblica guardi al problema non solo come ad un aggiustamento di tabelle e di cifre, ma come al doveroso riconoscimento di valori morali ingiustamente misconosciuti. Qui la posizione dei professori medi è un po’ più malcerta. Essi avevano conquistato lo stato economico e giuridico della legge del 1906 – che, fatta ragione alle mutazioni monetarie, i professori considerano come il loro perduto ideale – dopo una lunga agitazione, e memorabili congressi guidati da uomini come Salvemini, Ussani, Calò, Kirner, Iuvalta, Mondolfo, Barbagallo, Gentile, Lombardo Radice. Se si volesse riassumere in poche parole il carattere essenziale di quel movimento, si potrebbero ricordare le parole con cui un ordine del giorno votato nel terzo congresso di Roma del 1904 collegava il miglioramento del ceto insegnante con «l’elevamento e la rigenerazione economica del paese, e l’incremento di tutte le funzioni produttrici e civili della vita sociale». È il punto di vista sostenuto su queste colonne dal collega Monti. La forza degli insegnanti medi è venuta diminuendo dopoché le loro organizzazioni si occuparono troppo esclusivamente di problemi di classe e di parificazioni di stipendi; e per ottener ragione giunsero alla circolare riservata della federazione del 16 febbraio 1921 in cui si chiedeva il parere dei federati sul quesito: «Se il consiglio federale nell’ora che crederà più opportuna… ordinasse per un giorno od anche per più giorni consecutivi, da soli, od in unione agli aderenti alla confederazione dipendenti dello stato, di abbandonare la scuola, voi siete disposto ad ottemperare ai suoi ordini?» Ricordi lontani; ma non del tutto svaniti se il presidente del consiglio poté risuscitarli nel discorso ai conservatori del Cova per far loro riprovare il brivido della paura dinanzi al pericolo della disorganizzazione statale. I professori medi hanno fatto l’esperienza, in questi due ultimi anni, dei frutti di un atteggiamento puramente materialistico. Hanno dovuto soffrire in silenzio la perdita di parte delle loro guarentigie di stato giuridico; sono stati costretti ad insegnare discipline non bene conosciute; hanno dovuto attuare, con apparente entusiasmo, una riforma scolastica anche nei punti in cui repugnava al loro senso di realtà; ed in compenso sono stati retrocessi economicamente. Tutto ciò dimostra che essi, per ottenere vittoria nella loro giusta causa, debbono anzitutto persuadere l’opinione pubblica. La leva per modificare l’ordinamento gerarchico è una leva morale. Elevare la scuola, agitare idee di innalzamento della funzione educativa può sembrare una via tortuosa. Invece è quella che conduce più rapidamente alla meta di modificar tabelle. Se a questo sforzo non costringesse e se non desse il meritato compenso solo a quelli che lo compiono, a che gioverebbe l’ordinamento gerarchico?