Nuovi favori ai siderurgici?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/02/1911
Nuovi favori ai siderurgici?
«La Riforma Sociale», febbraio 1911, pp. 97-112[1]
Dove si parla, divagando, della Frankfurter Zeitung, del sindacato italiano dell’acciaio, dei pericoli di nuove immobilizzazioni bancarie, della banca mineraria, della banca del lavoro, del credito navale, dell’istituto serico, dei rapporti fra tariffe doganali e trusts, dei misteri dei bilanci siderurgici, del sistema delle catene e dei miliardi altrui dei re americani, dei dazi sul grano e dei dazi industriali.
Il pericolo è lontano. Ma chi non sa che in Italia i pericoli lontani d’un tratto diventano vicinissimi, imminenti e, se i danneggiati non gridano per tempo e in coro e con fracasso assordante, il pericolo presto si trasforma in realtà incrollabile, più dura a spezzarsi del granito delle nostre Alpi?
Chi segnalò il pericolo fu il corrispondente milanese della Frankfurter Zeitung, il quale scrive la cronaca più completa, più veridica e più rapida degli avvenimenti economici italiani, che sia possibile di leggere.
È un curioso fenomeno questo, che le notizie più fresche e più interessanti pel nostro movimento finanziario si debbano andare a leggere sul giornale di Francoforte. Egli è che la Frankfurter Zeitung è non solo il più grande quotidiano, specializzato nell’economia e nella finanza, che vi sia al mondo; ma è altresì un giornale indipendente, che vive di vita propria; universalmente letto e stimato perché nessun, anche potentissimo, interesse privato, e nessuna pressione governativa, è riuscito mai a far pubblicare nelle sue colonne una notizia o un commento diversi dall’opinione sincera e studiata del direttore.
Se non si trattasse di spiegare un mistero con un altro mistero (almeno per la comune dei lettori italiani), si potrebbe dire che la Frankfurter è l’Economist quotidiano della Germania. Non in piccola parte sono dovuti a questo giornale l’elevamento intellettuale, la larga cultura ed il successo dei banchieri, imprenditori, capitalisti e mercanti tedeschi.
Scriveva dunque il corrispondente milanese della Frankfurter, che il Sindacato italiano dell’acciaio, l’Italienischer Stahlwerksverband (cito le parole nel testo originale, perché, al solito, i trustaioli italiani diranno che il loro non è né un trust, né un sindacato, alla foggia straniera, creato per rialzare i prezzi; ma un qualcosa di diverso, di indefinibile, di nazionale, sorto per difendersi dallo straniero, ecc., ecc.
Il corrispondente milanese della Frankfurter, che nel suo paese ha avuto campo di studiare i sindacati, mette le cose a posto e chiama senz’altro Italienischer Stahlwerksverband l’accordo dei siderurgici, patrioti ed italiani forse, ma anche e innanzitutto amanti degli alti profitti) si è costituito in una forma rigidissima, quale forse il pubblico non si aspettava. L’Elba, l’Ilva, la Savona, la Piombino e le Ferriere Italiane hanno abdicato all’autonomia del loro esercizio, affidando la direzione tecnica e commerciale delle loro aziende all’Ilva, in cui esse erano già tutte cointeressate. Sarà l’Ilva che accentrerà le ordinazioni e le riporterà tra le imprese coalizzate, secondo una regola fissata contrattualmente. I profitti saranno messi in una borsa comune e ripartiti secondo la proporzione stabilita tra i soci. Poiché la Terni, pure non entrando, a causa delle sue specialità, nella combinazione, agirà d’accordo con il gruppo siderurgico, con cui ha comunità d’interesse, si può dire che il ferreo circolo, dal quale il consumatore italiano non avrà scampo, sia chiuso. Provvederà il Sindacato dell’acciaio a mettersi d’accordo con i numerosi stabilimenti minori che per ora ne rimangono fuori; e provvederà pure ad un’intesa, che il corrispondente della Frankfurter ravvisa assolutamente necessaria, con il Sindacato tedesco dell’acciaio, per fissare una comune politica dei prezzi (Preispolitik). S’intende che, con un’accorta politica dei prezzi, le industrie consumatrici staranno allegre.
Fin qui però nulla di speciale. Il bello viene quando il nuovo Sindacato d’esercizio dovette pensare al rilievo delle scorte d’esercizio delle imprese coalizzate. Pare che si tratti delle enormi quantità di minerale di ferro, ghisa ed altri prodotti che l’Elba, l’Ilva, ecc., ecc., hanno in magazzino; e che non potrebbero vendere senza il consenso dei creditori, a favore di cui quelle scorte sono impegnate. Per dar libertà d’azione al Sindacato dell’acciaio, si sarebbe costituito un consorzio bancario, con a capo la Banca d’Italia, il quale farebbe un prestito di 50 milioni di lire, destinato appunto al rilievo ed alla liberazione del grossissimo stock di scorte esistente presso le varie ditte. Il corrispondente aggiunge che in tal modo la Banca d’Italia acquisterà l’alto diritto di sorveglianza sull’andamento dell’azienda; e che il comm. Stringher, il quale con un’azione ferrea ha risanato il suo istituto, non permetterà in avvenire che gli stabilimenti ripartiscano alti dividendi senza aver prima provveduto al rimborso dei prestiti, a giusti ammortizzi ed ai necessari accantonamenti.
Devo confessare che le mie cognizioni si fermano a questo punto; e che mi sembra inoltre dubbia la effettiva partecipazione della Banca d’Italia e del comm. Stringher in tutta questa faccenda dei 50 milioni di prestito al Sindacato siderurgico. Quel che vi è di vero nella notizia, come si rileva del resto dall’intonazione della notizia della Frankfurter, è che il Sindacato desidera il prestito ed ha iniziato all’uopo trattative. Che in effetto la Banca d’Italia abbia a trovarsi a capo, sia pur solo moralmente, dell’operazione, sarà forse più un desiderio che una realtà.
Ma poiché i desideri più assurdi, come sopra dissi, in Italia si trasformano in realtà, e poiché i Governi hanno in passato costretto gli Istituti di emissione a compiere operazioni contrarie alla loro indole e stanno costringendoli ora a ripetere gli errori del passato, così non sarà fuor di luogo assumere per un momento l’ipotesi come una realtà e darne brevemente un giudizio critico.
In verità, se si deve credere alle notizie dei giornali finanziari italiani i quali, dopo l’annuncio dato dalla Frankfurter, abbondarono in particolari sul trust siderurgico, la Banca d’Italia sarebbe soltanto l’ispiratrice e la patrona di un gruppo di istituti bancari e di risparmio i quali trasformerebbero i loro crediti a breve scadenza in un unico credito di 50 milioni a scadenze più lunghe e predeterminate.
Il gruppo bancario si assicurerebbe, con solide cautele, il controllo sulla gestione amministrativa e finanziaria delle aziende siderurgiche. Tra i cronisti finanziari italiani vi fu chi diede a questo gruppo bancario, padrone e dirigente delle imprese siderurgiche, il nome di banca dei siderurgici. Banca non è ancora. Forse, col tempo, lo diverrà. E non ci sarebbe da farne le meraviglie.
Lo Stato e il Banco di Sicilia non hanno forse contribuito alla fondazione della Banca mineraria per l’industria solfifera? Non sono già state fondate, sempre con l’aiuto degli Istituti di emissione, varie Casse di prestanza agraria nel Mezzogiorno; ed Istituti di credito Vittorio Emanuele per la Basilicata? Non furono già presentati al Parlamento i disegni di legge per la fondazione della Banca del Lavoro e della Cooperazione, dell’Istituto serico e del Credito Navale? Che male ci sarebbe, se si pensasse alla fondazione di una Banca dei siderurgici?
Appunto si farebbe quello stesso errore e si cagionerebbero malanni simili a quelli che già sono in atto od in potenza ad opera delle sunnominate banche pubbliche o semi pubbliche. In Italia è una frenesia di crear credito ad opera di banche di Stato. Appena c’è qualcuno che strilla per difetto di quattrini, subito interviene lo Stato a procacciarglieli. Nessuno si prende la briga d’indagare perché il piagnone senta quella mancanza, certamente deplorevole per lui, ma poco interessante per gli altri.
Certi proprietari del mezzogiorno vanno in rovina perché non sono capaci di trasformare le loro culture, di tener testa al rialzo dei salari? Subito si creano delle casse di credito agrario, e poiché il pudore vieta di dire che si vuol far credito a coloro a cui nessuno vorrebbe imprestare neppure un denaro, si allega la necessità del credito al contadino. Quasi che gli americani non avessero preso, senza aspettare il beneplacito del Governo, l’abitudine di imprestare essi denari ai loro ex padroni, bisognosi e incapaci a salvarsi dalla rovina!
I proprietari di miniere siciliane vogliono ricevere cospicue anticipazioni sul loro zolfo? Ed ecco si immobilizza il Banco di Sicilia e si crea la Banca mineraria, perché il credito affluisca alle miniere di zolfo; e col credito la possibilità di produrre di più e di provocare nuove future crisi.
I produttori di agrumi non riescono a vendere gli agrumi ad un prezzo soddisfacente, per la fabbricazione del citrato di calce? Subito si impianta una brava camera agrumaria, con diritti monopolistici sul commercio e con facoltà di immobilizzare ancora, per un altro verso, il Banco di Sicilia.
I pescatori dell’Adriatico, le cooperative romagnole, gli armatori navali non riescono a guadagnare abbastanza quando debbono pagare alle banche comuni il capitale al prezzo corrente? Si inventa la banca del lavoro e della cooperazione; si fa un bel pasticcio di credito navale, facendo intervenire lo Stato a contribuire l’1, il 2 o il 3% sull’interesse dovuto dai debitori. Ossia i contribuenti sono chiamati a pagare affinché certi capitalisti o certe cooperative possano ottenere il denaro all’1, 2 o 3% meno del tasso corrente. S’intende che i favoriti sono i peggiori tra i capitalisti e le artificiosamente sorte tra le cooperative; perché i buoni non hanno mai trovata difficoltà a procacciarsi il credito a loro necessario.
I setaioli sono afflitti dalla smania di rovinarsi comprando ogni anno, quando il giugno ritorna, i bozzoli troppo cari per l’assurda paura di restare senza ammasso? Invece di ridurre loro i crediti ed aumentare loro il costo del denaro, in rapporto ai rischi non piccoli di fallimento e di dissesti in cui si incorre per esperienza da quelli che si dedicano ancora a queste operazioni bancarie, si crea un grande istituto serico. Cosicché lo Stato, fra l’altro, sovverrà l’istituto affinché questo possa distribuir credito a buon mercato ed i setaioli possano comprare a più caro prezzo i bozzoli e rompersi così più facilmente il collo.
La futura banca dei siderurgici appartiene alla medesima malvagia schiatta delle banche di Stato. Se gli stabilimenti siderurgici si trovassero in condizioni normali, non avrebbero bisogno di bussare a denari alle casse degli istituti d’emissione, e questi non sarebbero messi nella dura necessità di doversi difendere contro il nuovo pericolo di immobilizzazioni, per nulla dissimili da quelle che in passato condussero alla rovina la Banca Nazionale, la Banca Romana e il Banco di Napoli. Ci sono in Italia tante casse di risparmio, tante banche che rigurgitano di denaro, che, se i bilanci degli stabilimenti fossero elastici e solidi, nessuna difficoltà vi sarebbe ad ottenere denari a mutuo od a prorogare a buoni patti i mutui già conchiusi. Se si discorre di consorzi bancari, di patronato della Banca d’Italia, di consorzio dei siderurgici, è segno chiarissimo che si tratta di dar credito a qualcuno che non lo merita. Lo Stringher è tal uomo da saper da sé difendere strenuamente contro gli assalti degli immobilizzatori la Banca d’Italia; ma non sarebbe inopportuno che l’opinione pubblica lo aiutasse nella santa difesa del nostro massimo istituto di emissione.
Chi sono costoro che hanno costituito il sindacato dell’acciaio? Per pretendere alle simpatie del Pubblico, dovrebbero far conoscere al pubblico il modo tenuto nell’organizzarsi, gli scopi avuti di mira. Quando si chiedono 50 milioni di prestito e quando si legge, senza autorevoli smentite, che istituti di emissione e casse di risparmio dovrebbero essere chiamati a contribuire al prestito, il pubblico avrebbe diritto di sapere a che cosa i milioni devono servire, quali garanzie presentano le aziende sovvenute, quanta è la loro produzione, quanta è la loro vendita, e dove le vendite sono effettuate. Sono notizie che i sindacati dell’acciaio degli altri paesi del mondo non nascondono a nessuno, anzi mettono in piazza ad istruzione e guida degli interessati. Mese per mese il sindacato tedesco dell’acciaio dice quante poutrelle, quante rotaie, quanti prodotti semilavorati ha consegnato all’interno ed all’estero; quale è il premio di esportazione pagato agli esportatori all’estero; quali sono i suoi stokcs e in che modo la produzione è stata distribuita fra gli stabilimenti sindacati. La United States Steel Company opera nella stessa guisa. Non ha paura di far sapere che essa aveva alla fine del 1909 ben 5.927.000 tonn. di ordinazioni in corso; che essa ne aveva solo 5.402.000 tonn. al 31 marzo, 5.257.000 al 30 giugno, 3.158.000 al 30 settembre e 2.648.000 al 31 dicembre. È nota trimestre per trimestre la cifra precisa degli utili lordi, delle spese, degli ammortamenti, dei nuovi impianti, dei redditi netti. Si conosce la situazione rispettiva del sindacato di fronte ai suoi concorrenti. Si sa, ad esempio, che nella produzione della ghisa, alla fine del 1910 il sindacato americano aveva per sé il 39,4% della potenzialità produttiva del paese, le acciaierie indipendenti il 41,2 e i produttori pure di ghisa il 19,4 per cento. Si sapeva altresì che nella produzione degli oggetti lavorati, il sindacato, dal 66,2% all’epoca della sua fondazione, era caduto al 56,4% nel 1909.
Con ciò i sindacati non ottengono di far dimenticare il loro peccato d’origine. Nati nove volte su dieci dalla protezione doganale, che impedisce la concorrenza dello straniero, vivono sfruttando il consumatore nazionale.
Son di moda adesso teorie secondo cui i sindacati sarebbero dei benefattori dell’umanità e otterrebbero profitti mercé organizzazioni più sapienti, costi tecnici e commerciali più bassi di quelli possibili in libera concorrenza. Il che può essere talvolta vero nei fatti, quantunque lo sia sovratutto nella immaginazione degli eleganti indagatori delle leggi regolatrici dei fenomeni puri economici. Ma l’unico modo che i sindacati hanno per dimostrare che le loro vittorie sono dovute alle loro qualità peregrine di produttori e non all’utilizzazione sapiente dei dazi protettivi, è la pubblicità massima data alle loro faccende.
Difficilmente essi riusciranno con ciò a scuotere la verità del detto americano secondo cui the tariff is the mother of trusts, i dazi protettivi sono la culla dei sindacati; a confutare la qual verità di fatto bisognerebbe dimostrare perché nell’Inghilterra i trusts siano in proporzione assai poco numerosi, limitati a certi servizi pubblici, alle banche, in cui, anche senza sindacati, la concorrenza di nuovi istituti non è temibile, ed a industrie situate in condizioni particolari; e perché ivi i trusts esistenti facciano tanto poco parlare di sé, non aumentando i prezzi, in modo da far inferocire i consumatori, come accade nei paesi protetti, Stati Uniti, Germania, Italia, ecc. Nulladimeno anche i sindacati che vivono all’ombra della protezione doganale riescono, mediante la pubblicità data ai loro conti, a far vedere che essi usano una certa moderazione nel servirsi della protezione doganale pel rialzo dei prezzi, e che essi cercano, più o meno, di giustificare i vantaggi loro largiti da legislatori e governi. Sarà naturalmente una dimostrazione incompiuta; ma gioverà almeno a dimostrare che la loro opera non è inspirata puramente agli interessi di qualche cricca monopolistica. Gioverà sovratutto a persuadere le banche ordinarie a imprestare loro denari e il pubblico a comprarne le azioni ed obbligazioni.
Si trovano in questa situazione i soci del nuovissimo sindacato dell’acciaio? Credo che se si interrogassero i 20 più accorti e studiosi agenti di cambio d’Italia, non se ne troverebbe uno il quale potesse dichiarare di essersi formato un’idea precisa, esatta della consistenza patrimoniale e dell’andamento finanziario di queste aziende. Si sa che esse hanno distribuito o non distribuito dei dividendi: le Piombino sulle azioni da L. 130 non hanno distribuito nulla; l’Ilva ha dato nei primi tre anni il 5%, prelevandolo dal capitale sociale, e poi più nulla; l’Elba ha dato negli ultimi quattro anni il 7,20%, il 10, il 12 e l’8%; le Ferriere Italiane l’8, il 10, il 10 ed il 6%; la Savona l’11, il 12, il 12 e il 12%; e le Terni il 24, il 18, il 13 e il 13 per cento.
Ma è questa forse l’unica notizia precisa che il pubblico abbia. Come questi dividendi siano stati guadagnati, in che modo siano stati compilati i bilanci per permetterne la distribuzione; perché certe aziende abbiano guadagnato ed altre no, è perfettamente ignoto. Chi prende in mano i bilanci di queste società, è bravo se ne capisce qualcosa. Nel bilancio dell’Elba, al 31 dicembre 1909, all’attivo, figurano in blocco 34.164.911 lire di spese di primo impianto, per concessione terreni, fabbricati, forni, macchinari e simili. Come gli amministratori non abbiano veduto l’improprietà di questa unica cifra per valutare oggetti d’indole così disparata, davvero non si comprende. Come può un azionista od un obbligazionista formarsi un’idea della consistenza reale di un’azienda in cui si mettono insieme concessioni terminabili di terreni, fabbricati, che non si dice se siano eretti su aree di proprietà sociale, macchinari e perfino le cose in simili”! Peggio è l’altra partita di L. 6.700.677 indicata sommariamente come “titoli di nostra proprietà”. Quali sono questi titoli, e a che prezzo furono portati in bilancio? Come è possibile all’azionista, obbligazionista ed al pubblico sapere se si siano o non seguiti i consigli della prudenza nella valutazione dell’attivo?
A leggere il bilancio della Savona al 30 giugno 1910 si rimane ancora più perplessi. All’attivo vi sono 11.598.896 lire di merci viaggianti, giacenti fuori cantiere in un magazzino. Come valutate queste merci? a quali prezzi, con qual margine di prudenza? Contro a un capitale azionario, obbligazionario e di riserve di circa 36 milioni di lire, assorbito già per 14 milioni dai terreni, stabilimenti e macchinari, non è cifra piccola una dozzina di milioni di merci. Vi sono altre cifre colossali che andrebbero chiarite: 14.285.265 lire di interessenze industriali, 9.160.302 lire di interessenze in titoli dati a riporto, 11.010.446 lire in effetti scontati da scadere. Intendiamoci bene: vi sono società potenti, antiche, reputatissime, che hanno dei bilanci altrettanto spartanamente concisi come quelli delle società siderurgiche. Mantengono il silenzio per timore del fisco, e fanno benissimo sinché il fisco farà opera di rapina. Contenti gli azionisti, contenti tutti. Essi non hanno bisogno dell’aiuto di nessuno; né i consumatori, trattandosi di industrie in regime di concorrenza, hanno timore di danni.
Ma quando – se son vere le cose divulgate sui giornali – si chiede il concorso degli istituti di emissione, che sono istituti pubblici; quando si macchina un sindacato il quale difenderà l’Italia dei siderurgici contro la concorrenza estera: che avrebbe fatto ribassare i prezzi a vantaggio dei consumatori italiani, io temo forte sia d’uopo che in Italia sorga qualche emulo di Roosevelt a chiedere maggior pubblicità nei minuti particolari dei bilanci delle società anonime. Probabilmente costui dovrebbe emulare Roosevelt nella ciarlataneria; ma anche i ciarlatani più insigni diventano sopportabili quando riescono a ridurre a miti consigli il fisco, e a acquistare così il diritto di imporre responsabilità precise agli amministratori di società anonime, i quali non dichiarino le quantità metriche ed i prezzi unitari dei loro stocks, il numero e il titolo ed il prezzo dei singoli titoli tenuti in portafoglio, le specie delle interessenze, ecc., ecc.
Per questa ignoranza in cui il pubblico si trova intorno alla gestione degli stabilimenti siderurgici, non è meraviglia corrano le voci più diverse sui fatti loro. Nessuno sa nulla intorno ai criteri di ammortamento seguiti per le concessioni terminabili, intorno alle valutazioni dei monti minerali, che sarebbero poi delle vere montagne. Quale sia l’attività reale, giornaliera degli alti forni, è ignoto. Nella tanto calunniata America si pubblica la media giornaliera, settimanale, mensile, di ghisa prodotta dagli alti forni, si fanno i paragoni con i mesi e gli anni precedenti, se ne traggono oroscopi per l’avvenire; si sa quanti alti forni sono progressivamente accesi o spenti, e si possono così far giudizi sull’andamento dell’industria. Perché in Italia non avviene altrettanto?
Sovratutto hanno fatto impressione certe storie di metodi americani, che sarebbero stati assai ammirati in Italia, come quelli che toglierebbero di mezzo la possibilità di inopportune critiche di azionisti e permetterebbero di concatenare saldamente parecchie intraprese tra di loro.
Il metodo tenuto può teoricamente schematizzarsi così:
La società A abbia 60 milioni di capitale (30 milioni azioni da 100 lire l’una e 30 milioni obbligazioni). Delle 300.000 azioni A, 150.001 sono possedute dalla società B.
La società B ha un capitale di 30 milioni di lire (15 milioni azioni da 100 lire l’una e 15 milioni obbligazioni). Dei 30 milioni 15.000.100 sono impiegati nelle 150.001 azioni A. A loro volta delle 150.000 azioni B, 75.001 sono possedute dalla società C.
La società C ha un capitale di 16 milioni di lire (8 milioni azioni da 100 lire l’una ed 8 milioni obbligazioni). Dei 16 milioni, 7.500.000 sono impiegati nelle 75.001 azioni B. A loro volta delle 80.000 azioni C, 40.001 sono possedute dalla società D.
La società D ha un capitale di 8 milioni di lire (4 milioni azioni da 100 lire l’una e 4 milioni obbligazioni). Degli 8 milioni D, 4.000.100 sono impiegati nelle 40.001 azioni C. A loro volta delle 40.000 azioni D, 20.001 sono possedute dalla società E.
La società E ha un capitale di 4 milioni di lire (2 milioni azioni da 100 lire l’una e 2 milioni obbligazioni). Dei 4 milioni, 2.000.100 lire sono impiegate nelle 20.001 azioni D. A loro volta delle 20.000 azioni E, 10.001 sono possedute dalla società F.
La società F ha un capitale di 2 milioni di lire (1 milione azioni da 100 lire l’una e 1 milione obbligazioni. Dei 2 milioni, 1.000.100 lire sono impiegate nelle 10.001 azioni E. E qui la storia può aver fine.
Quale il risultato della catena?
Tizio, proprietario di 5.001 azioni F, possiede 500.100 lire sul capitale di 1.000.000 della società, e ne è il padrone, avendo la maggioranza delle azioni. Il consiglio d’amministrazione della F, che è una creatura di Tizio, possiede 10.001 azioni E, ossia la maggioranza (1.000.100) del capitale azionario E, che è di 2 milioni. Il consiglio d’amministrazione della E diventa una creatura della F, ossia di Tizio. Il consiglio della E a sua volta possiede 20.001 azioni D, ossia la maggioranza del capitale azionario della società D. Quindi il consiglio della D diventa una creatura della E, che è una creatura della F, che è in mano di Tizio. Il consiglio della D per lo stesso motivo è padrone della società C; e questo della società B, e il consiglio della B è padrone della A; ossia tutta la catena delle società A, B, C, D, E, F è in mano di Tizio e delle sue 500.100 lire.
Rimangono spogli di ogni potere, e in piena balia di Tizio, tutti gli obbligatari, ossia 30 milioni di A, 15 di B, 8 di C, 4 di D, 2 di E e 1 di F, in tutto i possessori di 60 milioni di lire.
E sono pure dei vassalli i portatori di un capitale azionario
- di 14.999.900 lire della A
- di 7.499.900 lire della B
- di 3.999.900 lire della C
- di 1.999.900 lire della D
- di 999.900 lire della E
- di 499.900 lire della F
- Tot. 29.999.400
In tutto sono 90 milioni di capitale che sono messi in balia di Tizio, il quale ha investito 500.100 lire nell’affare.
Il sistema è brevettato americano. Ci vuol molta astuzia e molta furberia per condurlo in porto; e la catena si può completare solo a costo di manovre sapientissime. Andava famoso nell’ordir catene, specialmente coi denari della povera gente, quel Morse, che finì in gattabuia dopo la crisi del 1907; e par che suo emulo fosse quel Robin, fallito a New York qualche mese fa, trascinando nella rovina tutta una catena di banche e di casse di risparmio (Trusts Companies) di cui si era impadronito. Ma anche i Morgan, i Rockefeller, gli Harriman, e, in generale, i re americani, erano e sono artefici abilissimi di catene. I miliardi di certi re americani sono spesso i miliardi degli altri.
Come gli altri si lascino metter dentro, è un mistero per chi non sappia che il “capitalista puro” è l’animale più pecora e più credulo che vi sia sulla faccia della terra.
Il sistema americano delle catene ha un altro schema.
Sia A una società con 20 milioni di capitale (10 azionario e 10 obbligazionario); e sia B un’altra società pure con 20 milioni di capitale diviso nello stesso modo. In un dato momento i due consigli d’amministrazione, che si trovano in carica, convocano gli azionisti rispettivi e dimostrano, data l’affinità dell’industria, l’opportunità di togliere una concorrenza temibile, ecc., essere conveniente per gli azionisti A d’interessarsi nella società B, e per gli azionisti della B d’interessarsi nella A. Gli azionisti che, finché i dividendi sono buoni, trovano sempre meravigliose le proposte dei consigli, approvano che il capitale azionario della A sia aumentato da 10 a 18 milioni, e che il capitale della B sia pure cresciuto da 10 a 18. Da quel momento gli azionisti possono andare a spasso, perché essi saranno convocati ancora, ma per pura formalità; e la loro volontà sarà lettera morta. Che cosa accade invero? Che gli otto milioni di nuove azioni della A sono assunti dalla società B, che tiene le azioni A nella sua sacristia, e le paga con altri 8 milioni di azioni sue, che sono tenute pure dalla società A nelle proprie casseforti. Capitale nuovo non se ne è creato neppure per una lira; ed è avvenuto un semplice scambio di azioni tra A e B, che diventano azioniste l’una dell’altra. Con le azioni si scambiano gli amministratori.
Alcuni della A entrano nel consiglio della B, e viceversa. L’assemblee degli azionisti invero hanno approvato, insieme con l’aumento del capitale, anche l’aumento, naturale e doveroso, nel numero degli amministratori.
Alla prima assemblea della A, intervengono i vecchi azionisti portatori di 10 milioni di capitale azioni, più la società B, azionista anch’essa e proprietaria di 8 milioni di azioni. Totale capitale 18; maggioranza assoluta 9.000.100 lire. Basta che gli amministratori della società A dispongano di tante azioni per 1.000.100 lire (facendo votare per mezzo di teste di legno) perché la loro maggioranza sia incrollabile. Essi invero già dispongono, per mezzo dei propri compari amministratori della B, degli 8 milioni di lire di azioni della propria società che la B ha in cassa.
Altrettanto accade per la società B. Gli azionisti veri possessori di 8.999.900 lire di capitale azionario in A e in B hanno un bello strillare; la loro voce non serve a nulla, poiché essi troveranno sempre contro di sé gli amministratori padroni di 1.000.100 lire di azioni vecchie, e degli 8 milioni di azioni nuove, che erano state create al puro effetto apparente di interessare la A nella B e viceversa. Le azioni di carta opprimono le azioni di capitale; ed a queste nessuna via di scampo è aperta.
Tanto meno è aperta, in quanto il sistema delle interessenze di una società in altra può essere adottato per altri scopi, utili e legittimi, ed è difficile distinguere questi casi da quello in cui si è voluto creare una catena a prò degli amministratori in carica.
Il sistema, americano anch’esso, fu importato ben presto in Europa; e dicesi che in Italia abbia trovato imitatori abilissimi, in grado di far impallidire le glorie degli inventori yankees.
Gli schemi del sistema delle catene possono variare all’infinito.
L’ingegnosità umana raggiunge sommità vertiginose quando si tratta di salvare le apparenze del dogma della sovranità popolare (le assemblee degli azionisti debbono essere proclamate sovrane, sovratutto quando sono composte di burattini che muovono piedi e gambe e fischiano e urlano ai cenni del burattinaio) ed ottenere nel contempo la sostanza che è il dominio dei furbi sul capitale degli ingenui. Tanto più possono i furbi riuscire nell’intento in quanto si può giustificare il sistema delle catene con le convenienze tecniche ed economiche della coordinazione. Quale esigenza più legittima di quella che mira a coordinare gli sforzi del proprietario della miniera con quelli del fonditore di ghisa, e di questi con quelli del produttore di lastre di acciaio o di rotaie o di poutrelle o di fili di ferro? Carnegie, Rockefeller, Morgan, i direttori dei grandi sindacati tedeschi, riuscirono non solo perché ordirono catene, ma anche perché le loro catene erano intessute di operazioni industriali logicamente incastrantesi l’una nell’altra.
Le catene di cui noi parlammo e che sono quelle tipicamente americane, sono invece catene puramente speculative. Create per manipolare profitti con valutazioni artificiose delle azioni tenute in portafoglio dai consorti, esse non giovano all’industriale il quale voglia porsi al riparo delle variazioni dei prezzi delle materie prime; bensì ai filibustieri per facilitare l’abuso del credito collo scambio delle firme, per provocare movimenti nei corsi dei titoli federati, le cui cause sono a tutti ignote fuorché ai maneggiatori e le cui vicende paiono provocate a bella posta per facilitare lo scarico dei titoli cari e la ricompra dei titoli deprezzati da parte degli orditori delle trame speculative. Purtroppo i titoli siderurgici tengono il primato in Italia quanto a movimenti inesplicabili; il che non giova sicuramente ad attrarre a quell’industria il risparmio. Io che non voglio provvedimenti legali contro il sistema delle catene, perché non ho nessuna fiducia nella sapienza del legislatore, desidero però che non si cerchi di incanalare artificialmente – attraverso ai pubblici istituti di credito – il risparmio verso impieghi da cui esso, per dolorosa esperienza, rifugge. Si rendano degni i siderurgici della fiducia pubblica, ed il risparmio spontaneamente accorrerà verso i loro titoli senza d’uopo di alcun intervento, neppure della Banca d’Italia.
Le faccende dei siderurgici non avrebbero potere d’interessare l’opinione pubblica più di quella di un privato qualunque, se i siderurgici non si trovassero in particolari condizioni:
- 1) vivono della protezione doganale, ossia di un tributo che i consumatori italiani, volenti o nolenti, sono obbligati a pagare ai siderurgici, affinché questi esercitino la loro industria ed ottengano profitti;
- 2) godono di preferenze di ogni specie nelle forniture al Governo, sia per i ministeri della guerra e della marina, che per le ferrovie di Stato. Se non i consumatori, sono i contribuenti italiani che pagano lo scotto delle preferenze;
- 3) hanno ottenuto esenzioni tributarie a Napoli; ne chiesero ed ebbero di recente il prolungamento per dieci anni. Alcuni dei consorti vogliono che le immunità siano estese alla Maremma Toscana, Piombino ed altre regioni;
- 4) pare, a quanto si arguisce dalla Frankfurter Zeitung, che i siderurgici, per togliersi dall’imbarazzo in cui si trovano per l’enorme monte delle scorte di minerali e di magazzino, e per avere i mezzi onde proseguire gl’impianti dell’Ilva, vogliano chiedere il concorso della Banca d’Italia. Ora questa non è una istituzione privata, che possa fare quel che più le talenta. È una istituzione pubblica, che è interesse generale difendere dalle immobilizzazioni.
- 5) pare altresì che l’accordo non si debba limitare ai grossi stabilimenti.
Sono state iniziate trattative con i minori industriali, per ottenere di alcuni l’adesione, per dare ad altri il desiderato compenso affinché si decidano a chiudere i loro stabilimenti. Sbarazzato così il mercato, l’ufficio di vendita ripartirebbe le ordinazioni, stabilirebbe i massimi di produzione, i minimi dei prezzi di vendita. Che cosa ne dicono i consumatori, che cosa ne dice il più grosso consumatore, lo Stato, di queste intese, le quali non sarebbero possibili senza i favori che lo Stato ha fatto ai siderurgici coi dazi doganali e senza i grossi mutui che istituzioni pubbliche o semipubbliche hanno fatto o si apprestano a fare o a consolidare?
Perciò ho gittato questo grido d’allarme, che potrà sembrar prematuro solo a quelli che preferiscono gridare quando non c’è più rimedio. La siderurgia italiana è costata troppi denari ai consumatori e contribuenti italiani, perché possa essere considerata pretesa eccessiva la domanda che il governo non dia più un soldo, sotto nessuna forma, e non induca altri a darne a malincuore, per operare dei salvataggi. Salvataggi che riuscirebbero sovratutto dannosi all’industria favorita. In America si stanno persuadendo della follia commessa dopo il 1907 nel voler tenere, coi trusts, elevati i prezzi dei prodotti siderurgici. Il consumo nel 1910 fu notevolmente inferiore alla produzione. Gli alti prezzi consentono inoltre ad outsiders di impiantarsi non per esercitare l’industria, ma per ricattare il trust e farsi comperare con profitto. È un circolo vizioso, da cui solo l’azione disfrenata della concorrenza permetterebbe di uscire colla rovina dei meno buoni e coll’assestamento dei migliori.
Di fronte a questi danni per i consumatori, per il risparmio e per l’avvenire medesimo dell’industria, bisogna pensare invece ad una riduzione progressiva dei dazi protettivi. È qui che dovrebbe spiegare la sua maggiore efficacia la campagna contro il dazio sul grano. Utile per sé stessa, partorirebbe altri risultati grandissimi; poiché spingerebbe gli agricoltori inferociti a chiedere, a guisa di compenso, la riduzione dei dazi che rincarano loro la vita; non ultimi i dazi protettivi della siderurgia, che aumentano i costi delle industrie meccaniche e rialzano i prezzi delle macchine agrarie e dei materiali da costruzione. Né il fine sarebbe possibile raggiungerlo qualora si pretendesse, come vogliono taluni liberisti ed insieme difensori dell’agricoltura meridionale, di abolire tutti i dazi contemporaneamente; perché agricoltori e falsi industriali in combutta coi deputati eletti dagli operai lavoranti nelle industrie protette, sarebbero sempre più forti di ogni opposizione. Bisogna invece sgretolare, in qualunque modo e con ogni mezzo, la compagine in un determinato punto. Cominciata la rovina, l’edificio crollerà fragorosamente da sé, per la discordia che sarà insorta nel campo protezionista.
[1] Anche in «La libertà economica» 5 marzo 1911, pp. 202-212, con il titolo I denari della Banca d’Italia e i contribuenti italiani.