Nel regno delle ipoteche
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/09/1906
Nel regno delle ipoteche
« Corriere della sera», 9 settembre 1906
Una delle statistiche che gli incompetenti citano più volentieri quando vogliono provare che l’Italia agricola va in rovina, che i proprietari sono tali soltanto di nome ed in realtà sono amministratori per conto dei loro creditori, è quella del debito ipotecario. Dal 1872 al 1901 il debito ipotecario fruttifero cresciuto da 6.009.450.696 a 9.074.452.997 lire: e quello infruttifero da 4.582.834.409 a 5.377.909.931 lire: ecco le risultanze sommarie che si ricavano da una lettura affrettata dell’Annuario statistico e che servivano a dimostrare trionfalmente che l’Italia era davvero il regno delle ipoteche; e che le cose continuavano di questo passo per un altro trentennio, ai proprietari non rimaneva altra via di scampo fuor di abbandonare i loro beni all’avida schiera di usurai che ora li dissangua.
Coloro che leggevano con alquanta attenzione l’Annuario statistico sapevano che il valore di quelle cifre era assai dubbio; ed i competenti non ignoravano che esse esageravano stranamente i fatti: troppe essendo le cause di errori e di duplicazioni che inquinavano le statistiche ipotecarie. Un sondaggio compiuto anni addietro dalla Direzione generale del demanio con metodo indiretto avea dato per il debito fruttifero una cifra di 3 miliardi e 700 milioni circa, di gran lunga inferiore ai 9 miliardi delle statistiche ufficiali. Era però questa una presunzione che lasciava campo aperto a molte incertezze e che non poteva formare la base di ragionamenti sicuri.
Desiderosa di rimediare alla difettosa conoscenza di un elemento così importante di valutazione della ricchezza del paese, la Direzione generale del Demanio iniziò nel 1903 un vasto censimento del debito ipotecario fruttifero, che oggi sta per essere condotto a termine. Dire del modo con cui l’arida operazione fu compiuta, delle difficoltà grandissime contro di cui dovettero i compilatori lottare sarebbe narrare un capitolo della storia della statistica che ai più non interesserebbe e che non potrebbe comprendersi nei limiti di un breve articolo. Quì basti ricordare a titolo di lode i nomi del comm. G. Solonas – Cossu, direttore generale del Demanio che iniziò il censimento ipotecario e del comm. Ghino Fucini, suo successore, che lo condusse a termine, insieme ai ministri del tempo on. Luzzatti e Majorana che incoraggiarono l’impresa difficile; ed agli scettici della statistica, i quali reputano tutte le sue cifre una invenzione inutile di burocrati sonnolenti, ricordiamo che per questo censimento occorsero 2.400.000 schede, 536 mila stampati, 45 mila stampati di controllo, 10 mila moduli per la riassunzione finale, in tutto 46 tonnellate di carta; ricordiamo che questo immane lavoro di indagine e di controllo, oltre a fornire dati assai più precisi degli antichi, ha già dato all’erario dello Stato il non disprezzabile vantaggio di accertare una somma annua di imposta di 155 mila lire circa, prima non pagata, per occultamento di cespite, ed altre scoperte ancora si presumono, in guisa che il vantaggio dell’erario si ragguaglierà a milioni di lire.
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Venendo alle risultanze del censimento, il quale si riferiva soltanto al debito ipotecario fruttifero, un primo dato possiamo esporre: il debito capitale gravante sulla proprietà immobiliare italiana al 31 dicembre 1903 sarebbe stato di 3.042 milioni. Essendo la cifra tuttora provvisoria e soggetta a variazioni diverse, si può affermare che il debito non superava i 3 miliardi e mezzo di lire. Cifra che si avvicina molto a quella che s’era presunta col sondaggio indiretto di alcuni anni fa e che è ben lontana dai 9 miliardi dell’Annuario statistico. Cifra che, sovratutto, non ha in sé nulla di pauroso e di terribile poiché non raggiunge certamente la decima parte della ricchezza immobiliare italiana. Tanti sono i motivi per i quali è necessario ricorrere al credito per miglioramenti culturali, per sopra elevazioni e costruzioni di edifici, per divisioni, conguagli ereditari, per residui prezzi di compra, ecc., ecc., che non si può ritenere pericoloso che i proprietari di terre e di case abbiano in media ipotecata la decima parte del valore dei loro fondi.
Il debito ipotecario medio per ogni abitante del regno risulta di L. 92,29 ed il debito medio di ogni ettaro L. 106. Le cifre variano grandemente da regione a regione, elevandosi per abitante ad un massimo di L. 190 per il Lazio e discendendo, attraverso L. 147 per la Toscana, 114 per la Lombardia, 112 per l’Emilia e la Romagna, 93 per l’Umbria, 91 per la Liguria e le Puglie, 82 per il Veneto e le Marche, 80 per la Campania, 79 per il Piemonte, 76 per la Basilicata e 67 per la Sicilia sino ai minimi di L. 55 per la Calabria, 37 per gli Abruzzi e Molise e 35 per la Sardegna. Quanto alla media del debito per ettaro ecco la scala discendente: Lombardia L. 204, Liguria L. 187, Lazio L. 180, Campania L. 159, Toscana L. 156, Emilia e Romagna L. 135, Veneto L. 107, Puglia L. 94, Sicilia L. 93, Piemonte L. 92, Marche L. 91, Umbria L. 64, Calabria L. 52, Basilicata L. 37, Abruzzi e Molise L. 35, Sardegna L. 11. La gravezza del debito segue abbastanza bene la scala discendente della ricchezza delle diverse regioni: diguisaché le ipoteche non sarebbero l’indice della povertà; ma avrebbero uno sviluppo parallelo a quello della ricchezza. Se si ritiene che nell’Alta Italia l’uso del debito cambiario e chirografario anche da parte dei proprietari di terre e di case è assai più diffuso che nel Mezzogiorno, e che quindi alle cifre sopra citate andrebbe fatta un’aggiunta proporzionalmente più forte per le regioni del nord, rimarrà convalidata la nostra asserzione che l’ipoteca, se può essere causa di rovina per gli imprevidenti, è spesso una necessità derivante da rapporti famigliari e può anche essere mezzo a compiere progressi agricoli.
Erronea sarebbe l’impressione di queste cifre ove si pensasse che tutto il debito ipotecario gravasse sulla proprietà rustica; ché anzi una prima indagine dimostra che le iscrizioni su soli terreni ammontano a 797 milioni di lire, su soli fabbricati a 783 milioni e su terreni e fabbricati insieme a 1.460 milioni di lire. Sembra difficile che sulla proprietà rustica gravi un debito superiore di molto ai due miliardi di lire; cosicché al 6 per cento l’onere annuo di interessi non dovrebbe superare i 120 milioni di lire.
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Predominando in Italia la piccola e la media proprietà, era naturale che il censimento dovesse rivelare una grande prevalenza delle piccole e medie ipoteche. Ed infatti il valore medio di ogni iscrizione ipotecaria è nel regno di 3.668 lire, e va da un massimo di 7.118 lire per la Lombardia ad un minimo di 1.252 lire per gli Abruzzi e Molise. Più del 60 per cento delle iscrizioni non supera le 1.000 lire, il 27 per cento va da 1.000 a 5.000 lire, il 5,96 per cento va da 5.000 a 10.000 lire, il 5,07 per cento da 10 a 50 mila, lo 0,54 per cento da 50 a 100 mila, lo 0,30 per cento da 100 a 500 mila, lo 0,0139 per cento da mezzo ad un milione e lo 0,008 per cento è superiore ad un milione. In genere le piccole ipoteche predominano nella Sardegna e nell’Italia meridionale: ma il maggior numero di esse si trova in Basilicata, ove quelle inferiori a L. 1.000 raggiungono l’80,60 per cento; il minor numero nell’Emilia e nella Romagna ove sono il 38,76 per cento.
Il punto nero della statistica odierna è quella del tasso d’interesse a cui è contratto il debito ipotecario. Le risultanze generali sono le seguenti:
Ammontare | Interesse % | Numero delle iscrizioni del debito cap.e iscritto |
Non più del 3,5 | 1,52 | 3,16 |
Dal 3,51 al 5 | 50,89 | 61,90 |
Dal 5,01 al 6 | 26,05 | 20,82 |
Dal 6,01 al 7 | 6,79 | 6,11 |
Dal 7,01 all’ 8 | 6,35 | 4,03 |
Dall’ 8,01 al 10 | 7,33 | 3,52 |
Più del10 | 1,03 | 0,43 |
| 100,00 | 100,00 |
Troppo grande è la proporzione degli interessi superiori al 5 per cento, che sino ad alcuni anni fa era considerato come il tasso medio corrente dell’interesse. Ed è a notare che questi sono gli interessi denunciati nei contratti (le cifre si riferiscono alle sole contrattazioni fra privati); ed è possibile che gli interessi reali siano superiori, in frode al fisco.
Notisi ancora che l’elevatezza maggiore dell’interesse si accompagna alla piccola entità dei mutui, come si deduce dal fatto che le percentuali sono più grosse per gli interessi alti nella colonna del numero delle iscrizioni in confronto alla colonna del capitale iscritto.
Se fosse possibile riportare qui l’intera tabella per regione, si osserverebbe inoltre che il tasso medio dell’interesse va crescendo a mano a mano che si discende la penisola. Nella Lombardia il 3,86 per cento del capitale del debito ipotecario importa un interesse non superiore al 3,5 per cento; l’84,51 per cento sta fra il 3,5 ed il 5 per cento; il 10,07 per cento fra il 5 ed il 6 per cento; lo 0,67 fra il 6 ed il 7; lo 0,36 fra il 7 e l’8; lo 0,46 fra l’8 e il 10; e lo 0,03 per cento soltanto del capitale fu mutuato ad un tasso superiore al 10 per cento. Si vede che gli interessi superiori al 5 ed ancor più al 6 per cento sono in Lombardia eccezionali.
All’altro capo della scala stanno gli Abruzzi e Molise, le Puglie, la Basilicata e le Calabrie. Scegliendo, a cagion d’esempio, gli Abruzzi e Molise, dove è massima la percentuale degl’interessi superiori all’8 per cento; abbiamo che in quella regione l’1,78 per cento del capitale mutuato su ipoteca lucrava al 31 dicembre 1903 non più del 3,5 per cento; il 33,57 per cento lucrava dal 3,5 a 5 per cento; il 19,05 per cento dal 5 al 6; l’11,10 per cento dal 6 al 7; il 13,92 per cento dal 7 all’8; il 16,56 per cento dall’8 al 10 per cento; e finalmente il 3,98 per cento era impiegato a più del 10 per cento. Se questi erano gli interessi confessati, che cosa dire degli interessi reali?
Questa è la constatazione – non la rivelazione – più dolorosa della bellissima inchiesta compiuta dalla direzione generale del Demanio: non che il debito sia eccessivo; ma che spesso per quel debito si paghino interessi troppo forti. A togliere questo danno per l’agricoltura italiana deve tendere l’opera nostra, diffondendo il credito a miglior mercato e creando quelle condizioni economiche e psicologiche che della spontanea diminuzione del tasso d’interesse sono la condizione necessaria.