Magistrature tributarie e frodi fiscali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/01/1914
Magistrature tributarie e frodi fiscali
«Corriere della Sera», 17 gennaio 1914
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 614-619
Lo studio delle imposte italiane sul reddito e specialmente dell’imposta di ricchezza mobile ci ha palesato un fatto fondamentale: che accanto a taluni redditi i quali sono accertati e tassati compiutamente ve ne sono altri i quali sfuggono all’imposta; a lato dei mutui a stato, provincie e comuni, i quali sono tassati fino all’ultimo centesimo, vi sono i mutui a privati, che sono scoperti solo quando sono garantiti da ipoteca e rimangono sconosciuti se chirografari o cambiari; a lato degli impiegati pubblici, i quali non possono nulla nascondere, vi sono i professionisti ed impiegati privati le cui tassazioni danno risultati stravaganti; e finalmente, a lato degli enti collettivi, i quali pagano, per sé e per conto dei loro azionisti, obbligazionisti, creditori, impiegati ed operai su gran parte del loro reddito vero e non di rado su più del loro reddito vi sono gli industriali ed i commercianti «privati» per i quali non si può negare si verifichino notevoli sperequazioni ed evasioni.
Certamente in questa diversità di successo del fisco ha gran parte l’altezza dell’aliquota. È umano che, di fronte ad un’imposta la quale assorbe dal 7,50 al 20% del reddito procacciato ed ogni giorno sudato col lavoro ovvero coll’arrischiare capitali e sorvegliarne l’impiego, il contribuente cerchi di sfuggire e di diminuire di fatto l’aliquota legale eccessiva. Vi sono talune categorie di contribuenti, i quali non possono sfuggire e sono i creditori degli enti pubblici, i creditori ipotecari, gli impiegati pubblici e gli enti collettivi e questi pagano per tutti; vi sono altri, e sono i contribuenti «privati» senza obbligo di bilancio e di pubblicità e questi, avendo le gambe più leste, pagano solo sui due terzi, su una metà, su un terzo, su un quarto del loro reddito. Colpa, è vero in gran parte della ferocia dell’aliquota. Ma, data la abitudine diffusa ed universalmente tollerata dell’occultamento, una riduzione pura e semplice dell’aliquota produrrebbe domani l’effetto di nascondere il reddito per non pagare dal 6 al 15%, come oggi lo si nasconde per non pagare dal 7,50 al 20 percento. Lo stato, cioè, provvederebbe assai bene a dare impulso alle sue entrate, riducendo le aliquote, ma contemporaneamente dovrebbe in primo luogo instaurare tali strumenti di indagine dei redditi da scemare grandemente la frode fiscale ed in secondo luogo mettere alla riduzione dell’aliquota la condizione espressa di un aumento nel gettito dell’imposta.
Tutto ciò, lo ammetto, è più facile a dirsi che ad ottenersi. Ma non è neppure cosa tanto visionaria che non sia apparsa praticabilissima a taluno dei più esperti funzionari della nostra amministrazione fiscale.
Come si possa alla riduzione dell’aliquota mettere la condizione espressa di un aumento nel gettito dell’imposta è problema che richiederebbe una trattazione speciale. Per ora dirò soltanto della necessità di migliorare gli strumenti di indagine dei redditi. Questi sono gli agenti delle imposte per le imposte dirette ed i funzionari demaniali (ricevitori del registro, ecc.) per le tasse sugli affari. Già adesso costoro non sono più i rozzi arnesi di un tempo, incolti e temuti dai contribuenti terrorizzati. I contribuenti si sono raffinati ed addottrinati; ed anche gli agenti delle imposte sono divenuti colti, abili indagatori di bilanci, di maniere cortesi e sottili ragionatori e polemisti. V’è più di uno fra essi, specie nei grandi centri, che farebbe onore a qualunque ordine di professionisti e di studiosi. Ma purtroppo, mentre da essi si pretende assai e mentre dovrebbero essere nel tempo stesso giuristi raffinati, economisti pratici valorosi e tecnici esperti per risolvere sottili questioni di diritto tributario, civile e commerciale, per valutare la produttività di imprese economiche soggette alla ripercussione di avvenimenti mondiali, per controllare il rendimento, il logorio fisico ed economico di macchinari complicati, sono pagati con stipendi insufficienti ed incapaci di attirare e trattenere un numero bastevole di reclute valenti. Peggio, sono considerati dagli uffici direttivi delle intendenze e del ministero come semplici e materiali esecutori delle direttive ministeriali. Tutto ciò è assai nocivo al fisco ed al contribuente. Gli agenti delle imposte ed i funzionari demaniali devono essere considerati non come arnesi del fisco, sibbene come veri e propri magistrati. Uomini a cui viene affidato il geloso ufficio di decidere quanta parte della ricchezza privata deve essere devoluta ai fini pubblici non devono avere la mentalità fiscale; ossia quella mentalità la quale tende alla meta di accertare, ad ogni costo, quanta più materia imponibile è possibile, perché solo così si progredisce nella carriera e si ottengono le lodi dei superiori gerarchici. Essi devono avere invece la mentalità giudiziaria: devono cioè proporsi di rendere giustizia al fisco ed al contribuente. È il solo mezzo di circondarli di quel rispetto che meritano, di attirare nel corpo finanziario giovani eletti, i quali trovino nei compensi soddisfacenti, nella indipendenza di fronte al potere politico, e nella osservata giustizia, il migliore impulso a rendere allo stato preziosi servigi. Creare questa magistratura delle imposte non è impresa agevole, ed è tale che potrà essere solo compiuta per gradi. Ma l’estensione graduale ai funzionari fiscali di alcuna delle guarentigie di indipendenza dal governo, di promozioni e di giudizi disciplinari spettanti ai magistrati ordinari gioveranno a creare nel pubblico la estimazione e la forza dei funzionari delle imposte e quindi ad aumentare la loro attitudine a valutare autorevolmente i redditi e gli oggetti imponibili ed a reprimere le frodi.
Anche l’istituto delle giurisdizioni fiscali merita un attento esame. Abbiamo in Italia ottimi organi; come le commissioni censuarie della imposta sui terreni, le quali per esservi, anche nei gradi superiori, equamente rappresentati i contribuenti compiono una opera commendevole, testimonianza insigne di quanto si potrebbe fare applicando sul serio la legge di perequazione del 1886. Si potrebbe, dico; poiché, con geometri ed ingegneri del catasto mal pagati, con salari iniziali di circa 3,50 al giorno e stipendi normali da 2.000 a 3.000 lire all’anno, ogni uomo dotato di una mediocre attività fugge, se per sventura vi è entrato, dall’amministrazione catastale; ed i concorsi vanno deserti.
Non altrettanto bene si può dire delle commissioni delle due imposte sui fabbricati e sulla ricchezza mobile; prive di effettiva autorità le commissioni comunali dove restano quasi soli i rappresentanti dei contribuenti; soverchiamente soggetti al fisco le commissioni provinciali, in cui la maggioranza spetta allo stato; prettamente governativa la commissione centrale. Sono d’altra parte puramente burocratici gli organi incaricati di risolvere le controversie relative alle tasse sugli affari.
Importa perciò giungere ad avere magistrature incaricate di risolvere le questioni fra contribuenti e fisco, le quali diano garanzie di perizia tecnica e di imparzialità assoluta. Oggi i contribuenti, i quali veggono misconosciute le loro ragioni dalla commissione centrale delle imposte dirette, ricorrono ai tribunali ordinari e, finché trattasi di tribunali e di corti d’appello, talvolta riescono a farsi sentire. Purtroppo però è radicata oramai nei contribuenti la convinzione che la Cassazione romana – la quale sola in materia fiscale è competente – renda, come disse una volta il guardasigilli Eula, servizi al governo e non sentenze, e il sentir narrare di consiglieri di cassazione i quali si sarebbero vantati di aver fatto guadagnare al fisco molti milioni, non contribuisce a crescere la fiducia nei contribuenti nella giustizia delle commissioni amministrative e della magistratura.
Fa d’uopo invero non esagerare nell’importanza data a queste impressioni, ché, accanto a non pochi casi conclamati e notori di decisioni e sentenze, che erano servizi resi all’interesse immediato del fisco, vi sono i numerosi casi in cui fu elaborata una giurisprudenza logica dal testo delle leggi vigenti. Ma è sicuramente necessario togliere anche la apparenza della servilità. Il sen. Mortara, attuale procuratore generale presso la Corte di cassazione romana, ebbe a propugnare l’abolizione dI diritto di ricorso alla magistratura ordinaria che egli considera inutile e stancheggiante, quando le commissioni amministrative danno ogni garanzia di perizia tecnica e giuridica. Di perizia sì, ma non di imparzialità e di indipendenza dal governo; sicché la Cassazione romana, benché sospetta a molti, è reputata, in paragone delle commissioni amministrative, imparzialissima e liberissima. In questa atmosfera di sospetti non può funzionare bene nessuna magistratura. È necessario perciò che la competenza delle attuali commissioni delle imposte dirette nei comuni e nelle provincie venga estesa anche alle tasse sugli affari; che la presidenza spetti sempre ad un magistrato inamovibile, indipendente dal governo; che fisco e contribuenti siano ugualmente rappresentati da assessori e giurati tecnici, incaricati di illuminare il presidente sulle circostanze di fatto; ed è necessario che, al disopra delle commissioni locali, si crei una commissione centrale, forse una sezione speciale contenziosa del Consiglio di stato, un supremo tribunale fiscale, a cui siano devolute in ultima istanza le questioni tributarie, attinenti non solo alle imposte dirette ma anche alle tasse sugli affari ed alle imposte indirette; e siano i componenti di questo supremo tribunale fiscale non solo inamovibili, ma sottratti ad ogni sospetto di ossequio verso il fisco o verso i gruppi potenti di contribuenti, e perciò siano ineleggibili a qualunque altro pubblico ufficio, anche agli uffici di deputato o senatore, incapaci di incarichi, missioni, perizie, onorificenze, ecc. Ognuno, il quale sappia ragionare e vedere le conseguenze lontane dei buoni o cattivi ordinamenti giudiziari, rimarrà persuaso che al progresso delle entrate fiscali assai più gioverà una magistratura indipendente e stimata che non l’attuale incoerente sistema di giurisdizioni amministrative a base di rappresentanza insufficiente dei contribuenti, di organi prettamente burocratici, e di ricorsi alla magistratura ordinaria.
Né le proposte qui fatte implicano riforme profonde negli ordinamenti esistenti. Tolta alla magistratura ordinaria ogni competenza in materia fiscale, basterebbe trasformare le attuali commissioni amministrative in vere e proprie magistrature, presiedute da magistrati inamovibili ed assolutamente indipendenti, fiancheggiati da delegati tecnici rappresentanti diretti dei contribuenti e del fisco.
In ciò mi discosto dall’opinione di alcuni egregi funzionari delle agenzie delle imposte, i quali aspirano ad elevare la dignità della propria classe, ma vorrebbero quasi renderla sola arbitra delle tassazioni. Ciò sarebbe pericoloso; poiché non si può essere accusatore e giudice nel tempo stesso. Siano elevati in grado gli agenti delle imposte; diventino i giudici istruttori delle tassazioni, quasi i procuratori del fisco. Ma sulla correttezza – sia in materia di estimazione dei redditi o di valutazione degli enti tassati sia in questioni di diritto – delle tassazioni siano giudici altri magistrati, e cioè i presidenti, inamovibili ed indipendenti, delle commissioni locali e del tribunale supremo fiscale. Certo a queste magistrature, fornite di perizia tecnica – giuridica e di indipendenza giudiziaria, dovremo dare più ampi poteri di investigazione o dovremo dar modo di usare i poteri di investigazione, scritti nelle leggi, ma caduti in dessuetudine, a causa della enormità delle aliquote e della scarsa fiducia dell’opinione pubblica nella giustizia fiscale. Perché si possa far giustizia, è d’uopo che i contribuenti abbiano fiducia negli organi della giustizia; il che non si potrà ottenere mai fino a che essi non siano resi indipendenti dalla pressione dei momentanei bisogni del fisco da un lato e dalla pressione dei gruppi o degli uomini politicamente influenti dall’altro lato.