Ma non occorrono decenni…
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/08/1943
Ma non occorrono decenni…
«Il Giornale d’Italia», 22 agosto 1943
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 291-294
Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 81-84[1]
«Occorrono decenni per ricostruire l’edificio distrutto in 20 anni di malgoverno; occorre la fatica di una generazione per riparare al malfatto di coloro che hanno considerato l’Italia come paese di conquista». Ebbene no. Queste parole, che si lessero in qualche giornale, giuste perché intese a persuadere gli italiani della necessità di ritornare al lavoro fecondo ed alla fatica lieta, sono eccessivamente pessimistiche. Non occorrono decenni per ricostituire economicamente un paese. Bastano anni. Non è bene scoraggiare gli uomini con la visione apocalittica di una intiera vita di stenti, allietata solo dalla speranza di consegnare un mondo migliore ai figli ed ai nepoti. Se vorremo, quel mondo migliore lo vedremo anche noi.
Perché tanti sono scoraggiati dal pensiero dei decenni di duro lavoro necessari a rifarsi un posto nel mondo? Perché si pensa che la ripresa, che il ritorno al benessere siano possibili soltanto grazie ad elementi materiali, alla formazione di nuovi capitali, ai prestiti larghi di denaro o di merci dall’estero. Si crede di essere poveri, perché non si ha oro, non si hanno miniere, non si hanno materie prime, perché tante case e tanti impianti furono distrutti ed occorre rifarli. Certamente tutto ciò è vero; e se manca di strumenti, l’uomo non può lavorare e produrre. Ma i capitali materiali non sono quel che più importa per la rinascita. Napoleone, nell’epoca in cui si avviava alla rovina, diceva: una notte di Parigi basta a riparare alle perdite di una grande battaglia. Ragionava così, perché gli uomini erano per lui allora un elemento materiale, la carne da cannone necessaria per le sue vittorie. Ma la vittoria non venne più, perché mancò agli uomini l’animo, la volontà, la fede che li aveva fatti prima vincitori. Perché Napoleone, giunto al sommo del potere, non si era ricordato di quando, all’inizio della sua fortunosa carriera, primo console, aveva fatto risorgere la Francia? Questa, al 18 brumaio dell’anno VIII, non crebbe, a causa del colpo di stato che portò Napoleone al potere, la sua ricchezza in beni materiali. Era e rimase fiaccata da tanti anni di torbidi rivoluzioni. Non nacque, in quell’attimo, uno strumento od un aratro di più. Ma era rinata, colla cacciata dei residuati del giacobinismo e dei malversatori, la fiducia nell’avvenire; era rinata la sicurezza di godere i frutti del proprio lavoro; era rinata la certezza di non vedersi a volta a volta confiscare quei frutti dai gabellieri dell’antico regime o dagli agenti concessionari del direttorio.
Gli ideologi che Napoleone fingeva di disprezzare e temeva, gli economisti, dei cui libri (come del Trattato di Giambattista Say) egli vietava la ristampa, gli avrebbero spiegato una delle ragioni del Suo successo come primo console. Gli uomini guardano in sostanza al reddito; ed, attraverso a questo, vedono il capitale. Se essi hanno un reddito, hanno possibilità di risparmiare; e quanto più risparmiano, tanto più sono disposti a cedere il risparmio a un basso saggio di interesse o frutto. Ma, se il saggio di interesse è del 3 per cento invece che del 6%, quel medesimo terreno, quella stessa casa, quello stesso impianto industriale che, rendendo 6, valeva prima, al 6%, l00 lire, dopo, al 3%, vale o tende a valere 200 lire. Non è mutato niente nel terreno, nella casa, nell’impianto; ma gli uomini valutano tutto ciò il doppio e diventano ottimisti.
Il reddito, tuttavia, non nasce da sé. Non aumenta per virtù spontanea. Esso nasce dalla combinazione che qualcheduno fa dei fattori produttivi. Non importa nulla che esistano gli uomini lavoratori, che esistano i terreni e le piante, che ci siano gli impianti industriali e le navi ed i porti. Se tutto ciò è fermo, non c’è reddito e gli uomini stentano. Occorre che qualcuno – e questo qualcuno noi economisti abbiamo l’abitudine di chiamarlo imprenditore – combini, faccia funzionare tutti questi elementi dispersi e disgregati.
In qualunque tipo di società si viva, nessun imprenditore combina ed organizza gli elementi, i fattori della produzione, se non ha fiducia, se non ha sicurezza se corre troppi rischi, se le prospettive di vendere ciò che ha prodotto vengono a mancare.
La produzione, la quale è una combinazione di elementi produttivi, la quale consiste nel far funzionare e cooperare insieme ciò che per se stesso è diviso, non è un fatto materiale, è invece sovratutto un fatto spirituale. Create il disordine sociale, create il costringimento forzato a fare soltanto quel che piace a chi dall’alto pretende di disciplinare, di regolare e di ordinare tutto; obbligate il lavoratore a lavorare per forza, togliendogli la libera disponibilità delle proprie braccia e della propria mente; e – salvo epoche transitorie di eccezionale comprensione bellica – voi avete abolito una delle molle principali dell’azione economica. Fate che i piani predisposti dall’imprenditore siano messi nel nulla, non dal fatto di Dio (grandine, siccità, raccolti abbondanti, ribassi di prezzi), contro di cui nessuno si può lamentare e che si mettono anticipatamente in calcolo; ma dal fatto del principe, dal getto continuo di leggi nuove imprevedute, imprevedibili, artefatte dagli interessati, dal fluire contraddittorio di ordini, di circolari, di pressioni provenienti da capi e funzionari forniti della infallibilità propria di chi si contraddice ad ogni due giorni; e la macchina economica più non funziona o funziona a vuoto.
Se invece gli uomini possono fare affidamento sull’avvenire; se essi sanno che le leggi vigenti non muteranno, se non dopo libera e larga discussione, alla quale tutti abbiano diritto di partecipare; se essi sanno che le leggi vigenti non possono essere modificate dall’arbitrio di nessun capo, ma debbono essere applicate secondo l’interpretazione di un magistrato indipendente; oh! siate sicuri che i capitali materiali per la rinascita del paese occorreranno d’ogni dove, dall’interno e dall’estero.
Con Napoleone primo console, scomparsa la moneta di carta nel disprezzo di tutti, la Francia non rimase priva di moneta. I vecchi scudi d’argento ed i vecchi luigi d’oro ricomparvero da sé; e la vita ricominciò, più fervida di prima. Oggi, in Italia, è difficile e sarebbe inutile che ritornasse un oro che qui non c’è e che noi non vogliamo chiedere in regalo a nessuno; ma la stessa lira di carta sarà guardata con occhio ben diverso quando si ravviverà la fiducia che essa sarà fermata nella sua china discendente. Persino una qualche nuova inflazione, un qualche miliardo di più di biglietti potrebbe, se usato a crear credito in un clima di fiducia, promuovere occupazione e combinazione di elementi produttivi inerti e creare reddito e ricchezza.