L’università italiana e la riforma Gentile
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/10/1923
L’università italiana e la riforma Gentile
«Corriere della Sera», 26 ottobre 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 419-424
Sarebbe necessaria una lunga serie di articoli per discutere a fondo i tanti problemi che sono posti dalla riforma dell’insegnamento superiore decretata dal ministro Gentile. Non è facile esaminare criticamente un documento composto di 167 articoli, di cui bisogna riconoscere la buona tecnica legislativa per sistemazione, divisione in titoli e capitoli, chiara formulazione degli articoli. Un comunicato governativo ha, a suo tempo, riassunto lo spirito della riforma; e su questa è perciò inutile ritornare. Come pure è superfluo toccare a fondo i punti sui quali non avrei che da manifestare un pieno consenso: le università divenute autonome, capaci di possedere e di ereditare; la gestione della loro finanza affidata a consigli responsabili; gli enti locali incoraggiati a sussidiare, arricchire ed indirizzare a speciali scopi le università; ai corpi accademici accordata facoltà di ordinare gli studi nel modo che essi riterranno più opportuno al progresso degli studi stessi; favoriti i raggruppamenti più vari di materie per conseguire antiche o nuove lauree; libera l’istituzione di nuove università, purché lo statuto loro osservi alcune norme oggettive e sia rispettoso degli ordinamenti politici del paese; create casse scolastiche ed opere universitarie a pro degli studenti.
Tutto ciò è aumento della libertà e della indipendenza di cui vive la scienza e senza della quale non si può concepire alcun suo progresso; e di avere posto o cresciuto tali condizioni di libertà gli studiosi italiani non potranno non essere grati al Gentile.
Ma il lettore del decreto sull’ordinamento dell’istruzione superiore deve rilevare un grave contrasto fra questo spirito di autonomia e di libertà a cui esso parrebbe ispirarsi ed alcuni istituti particolari che paiono invece portare ad un risultato contrario.
Non parlo dell’istituto del giuramento che per la prima volta è prescritto ai professori universitari. Contribuii tant’anni fa, al tempo di un ministro radicale, a far naufragare il proposito di chiedere ai professori universitari un giuramento. Qualunque esso sia, fosse pur quello soltanto che tutti sentono in cuore, di fedeltà alla patria ed al sovrano che la rappresenta, l’obbligo di prestarlo è in contraddizione aperta con il precetto della legge (art. 24), per cui ai professori è garantita libertà di insegnamento. L’unica garanzia della verità e del progresso scientifico è la libertà di tutto negare; la vittoria del vero sul falso nascendo esclusivamente dalla possibilità di affermare il contrario di ciò che è universalmente ritenuto vero. Il corpo dei professori universitari italiani fu ed è segnalato per devozione alla patria, anche perché la legge liberalissima che fin qui lo governava ammetteva a farne parte il repubblicano, il comunista e lo straniero. I pochissimi stranieri erano la testimonianza vivente della eccellenza dei mille scienziati italiani che in pubblico cimento avevano meritato di entrare in un corpo aperto a tutti; i pochi contrari alle istituzioni nostre monarchiche erano rispettati se liberamente manifestavano i loro convincimenti od erano segnati a dito come pecore rognose se dalle idee estreme professate speravano onori e carriera. L’obbligo del giuramento non bandirà le pecore rognose, che lo presteranno ritrattandolo in lor mente e terrà lontani uno o due studiosi veri, che sarebbero stati onore della scienza ed avrebbero ben saputo astenersi dal turbare, con manifestazioni estranee al loro insegnamento, le coscienze giovanili.
Ma i due punti sui quali maggiori sono i dubbi sono gli esami ed il reclutamento del corpo insegnante. Sono invero questi i due punti capitalissimi di ogni ordinamento; poiché ogni perfezione di struttura esterna è vana se gli studenti non sono invitati a studiar bene ed i professori sono scelti con metodi non buoni.
Sugli esami, continuo a temere la cattiva influenza che su di essi potrà esercitare l’ombra dell’esame di stato. Il decreto rinvia agli statuti d’ogni università l’ordinamento degli esami scientifici, che sono di profitto, per gruppi di materie e di lauree; rinvia ad un futuro decreto reale l’ordinamento degli esami di stato. Quel che saranno questi ultimi non so e praticamente, pel maggior numero dei casi, non riesco ad immaginarlo. Quel che saranno gli esami scientifici, universitari propriamente detti, dipenderà dai professori, i quali potranno realmente renderli una istituzione proficua quando siano rivolti ad accertare la capacità mentale dei giovani o potranno invece conservarli quali oggi sono, con l’unica variante di interrogare il giovane nello stesso giorno ed ora invece che in giorni ed ore diverse, come accade ora, ma sempre disgiuntamente, sulle materie affini, quali sono, per parlar delle cose della mia facoltà, diritto romano, diritto civile e diritto commerciale, ovvero economia politica, scienza delle finanze e statistica. Se l’esame nuovo sarà sul tutto delle materie affini, sul contenuto loro partitamente e sulle loro connessioni, se sarà dato dai professori in collegio, esso potrà essere una cosa nuova o feconda; ma se si ridurrà a far passare il giovane, successivamente, davanti a tre o quattro professori seduti allo stesso tavolo, sarà ancora l’esame vecchio, con qualche difetto di pappagallismo in più, per la difficoltà di mandare a memoria tante cose disparate per l’istessa scadenza. Il legislatore non poteva, certo, far di più che dare un precetto generale; ma appunto perciò il risultato della riforma appare dover essere quello che vorranno i professori. Dei quali taluni, che pure sono scienziati insigni, non hanno attitudini ed inclinazione ad esaminare, ed altri sì.
Ma ciò che rende sovratutto, come dissi, dubbio agli occhi miei il risultato della riforma negli esami è la proclamata connessione fra l’esame universitario scientifico e l’esame di stato o professionale. Nessun giovane, dice l’art. 5, potrà presentarsi all’esame di stato se non avrà conseguito una laurea o diploma in una università di stato o libera; ed ogni anno, aggiunge l’art. 59, verrà pubblicata nella «Gazzetta ufficiale» una graduatoria od elenco delle facoltà o scuole che negli esami di stato dei proprii laureati o diplomati avranno dato migliori risultati. Come non vedere in questa graduatoria un pericolo per l’università scientifica? Quei dubbi che in altro articolo esponevo intorno alle deleterie ripercussioni paventate dagli esami di stato sulle università si ingigantiscono nel leggere questi articoli. Gli esami di stato saranno gli esami delle università insegnanti più che dei candidati. Ogni università o facoltà aspirerà ad andare in alto nella graduatoria annua della «Gazzetta ufficiale», e per ciò ottenere, essa dovrà insegnare in quel modo che sarà più opportuno a raggiungere il fine di far superare brillantemente ai proprii giovani la prova degli esami di stato. E poiché l’esame di stato deve essere professionale, lo scopo professionale sarà il primo, forse il solo a cui le università saranno costrette a badare. E poiché ancora gli esami di stato non possono sostituirsi al tirocinio vero e proprio fatto nello studio di avvocato, nella pratica giudiziaria, negli ospedali o nelle officine e dovranno forzatamente sostituire alla prova vera della perizia professionale una presunzione di prova, così le università saranno indotte a fornire ai giovani a preferenza quelle nozioni, cosidette pratiche, le quali possono sembrare prova di conoscenze professionali. Insomma, il dubbio mio è che il decreto Gentile, il quale si inspira ad un’idea austera, direi domenicana, della scienza, possa, per questa malaugurata connessione tra le due specie di esame, essere tratto a dare all’insegnamento superiore un carattere pratico, professionale, puramente tecnico. Il che rallegri pure tutti coloro i quali si indignano contro le teorie dei professori e gridano che i giovani, usciti dall’università, non sono buoni a nulla di pratico. Certo è invece che l’università, ridotta a fabbrica di pratici, non servirebbe a nulla, che essa ha per compito di fabbricare idee, teste pensanti; e che, se essa ha qualche benemerenza verso l’industria, non la ha per aver insegnato ai mediocri ad applicare le formule bell’è fatte dei manuali per gli ingegneri, ma perché ha fornito i principii da cui sono venute le grandi invenzioni industriali, ma perché ha insegnato ai migliori a ragionare, a riflettere e ad osare le grandi novità.
Siano dunque quel che vorranno essere gli esami di stato o professionali; ma sia tolta qualunque connessione tra essi e gli esami universitari. Sia vero il principio magnifico formulato da Gentile all’art. 4: «Le lauree ed i diplomi conferiti dalle università e dagli istituti hanno esclusivamente valore di qualifiche accademiche». Ossia essi non debbono servire a nulla di pratico; non debbono conferire alcun diritto esclusivo, nemmeno l’esclusività a presentarsi agli esami di stato e tanto meno ai concorsi pubblici. Solo così le lauree diventeranno qualcosa di serio e di alto, perché vi aspireranno solo coloro che vorranno sapere. Agli esami di stato concorra chiunque voglia dar dimostrazione di sapere professionale, indipendentemente dalla laurea. E se vi saranno enti o privati, i quali preferiscano i giovani muniti di sola laurea scientifica a quelli forniti del diploma professionale, lo possano fare. Perché impedire ad un industriale, che probabilmente vede meglio degli altri, di servirsi del giovane eccellente negli studi scientifici, sicuro che l’addestramento professionale sarà da lui acquistato senza fatica nelle sue officine, senza uopo dell’esame di stato?
Se questi sono dubbi che l’esperienza risolverà, non pare dubbio il danno che deriverà dalle norme relative al reclutamento dei professori. Qui, purtroppo, debbo confessare che una buona parte del danno che capiterà addosso all’università sarà dovuto a colpa dei professori universitari. I quali da tant’anni sono stati affaccendati a criticare ed a sparlare di tutti i sistemi di reclutamento fino ad oggi seguiti, ad accusarli di parzialità, di favoritismi, di camorra accademica, di satrapie, da costringere, finalmente, per disperazione, il ministro Gentile ad esclamare: farò tutto io. In virtù del nuovo ordinamento infatti:
- il ministro nomina, a sua libera scelta, senza intervento né della camera e del senato – e qui fece benissimo – né della designazione del corpo accademico, tutti i membri del consiglio superiore della pubblica istruzione;
- il consiglio superiore, di nomina esclusivamente ministeriale, designa al ministro i tre professori o cultori che giudicheranno ogni anno, sui meriti degli aspiranti alla libera docenza;
- il consiglio superiore, di nomina come sopra, designa al ministro i tre membri delle commissioni chiamate a dire se e quali fra tre liberi docenti proposti dalla facoltà, presso cui è vacante una cattedra, siano meritevoli della cattedra stessa;
- il ministro, su parere conforme del suo consiglio superiore, può conferire la libera docenza a persone venute in alta fama; e su proposta della facoltà e parere del consiglio, nominare le persone considerate maestri insigni in una materia a professori di ruolo;
- il re, ossia il ministro, nomina senza indicazione del corpo accademico, i rettori delle università;
- il ministro nomina i presidi delle facoltà su proposta del rettore da lui scelto.
Se si collegano insieme tutte queste norme, si deve concludere che una profonda riforma è avvenuta nel sistema del reclutamento del corpo accademico. Attraverso ad una lenta evoluzione, a memorabili battaglie combattute contro ministri prepotenti, i quali avevano nominato a loro arbitrio professori senza concorso o senza chiamata, il reclutamento del corpo accademico italiano aveva assunto una fisionomia nettamente oligarchica od aristocratica: nessuno poteva, salvo i maestri saliti in grande fama, entrare a far parte del corpo accademico senza concorso, ossia senza una scelta fatta da giudici nominati dal corpo dei professori in carica. Chi era entrato, poteva passare da una università all’altra per chiamata della facoltà. Rettori e presidi erano scelti dall’assemblea generale dei professori o dal consiglio di facoltà. Contro questo sistema di cooptazione e di auto reclutamento soltanto l’invidia democratica aveva potuto sollevarsi. L’esistenza di un ceto aristocratico, sottratto ai partiti politici, indipendente dal governo e dalla burocrazia dava ai nervi a coloro che avrebbero voluto far eleggere gli insegnanti dagli studenti e soffrivano di non potere influire con raccomandazioni politiche sulla scelta. In realtà, il sistema italiano di cooptazione, se aveva dato origine a piccole chiacchiere di nessuna importanza sostanziale, aveva dato risultati nel complesso ottimi ed era l’unica garanzia sostanziale di vera indipendenza, epperciò considerata con invidia ed ammirazione da quei paesi stranieri, che si sogliono citare all’imitazione paesana. Ora, tutto questo è distrutto. La scelta del corpo accademico e dei suoi capi torna, in definitiva, ad essere affidata completamente al ministro. Oggi il ministro è un filosofo insigne; domani potrà essere un uomo politico qualsiasi. Dare in mano al ministro ed alla sua burocrazia ed ai suoi fiduciari la scelta del corpo accademico è certo un danno gravissimo: che, se durasse, potrebbe trarre alla rovina l’insegnamento universitario.