L’unità sindacale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/11/1910
L’unità sindacale
«Corriere della Sera», 28 novembre 1910[1]
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 191-200
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 153-159[2]
Una recente lettera indirizzata dal circolo industriale, agricolo e commerciale di Milano alla presidenza della confederazione generale dell’industria ha rinnovata la disputa, già vivissima alcuni mesi or sono, intorno alla riforma del consiglio superiore del lavoro. Che una riforma sia necessaria appare chiarissimamente dalla sovrabbondanza attuale, sia assoluta che relativa, dei membri parlamentari (6 su 44), burocratici (8) e generici (2 economisti sociologi, 3 mutualisti, 3 cooperatori, 2 rappresentanti delle banche popolari, 4 delegati delle camere di commercio, 4 delegati dei comizi agrari); mentre soltanto 12 posti sono riservati, sul totale di 44, ai rappresentanti degli industriali e degli operai interessati alla soluzione delle grandi questioni su cui il consiglio superiore è chiamato a dare il suo parere. E, quel che è peggio, i dodici rappresentanti diretti non sono nominati dagli interessati, bensì dal ministro, in seguito a complicate designazioni di enti diversi. Ancora: i capi delle aziende agrarie, industriali e commerciali hanno 5 soli posti, mentre gli operai ne vantano 7, di cui 2 riservati agli operai e capimastri delle miniere di Sicilia e di Sardegna, 1 ai lavoratori del porto e del mare e 4 ai contadini ed operai.
La riforma, chiaritasi necessaria subito, è ora chiesta ad alte grida; le quali si sono fatte più clamorose dopoché il consiglio superiore, con una relazione Abbiate – Cabrini – Saldini, dimostrò di volere prendere esso medesimo l’iniziativa dei provvedimenti riparatori.
Se tutti gridano in coro contro l’attuale composizione, non tutti gridano col medesimo entusiasmo, né con uguali intenti; cosicché, a volerli ascoltare tutti, l’impresa di ricostituire il consiglio del lavoro appare difficilissima e quasi impossibile. Cattolici contro socialisti, repubblicani contro ambedue, camere di commercio e comizi agrari contro le associazioni industriali tecniche, queste contro le organizzazioni sindacali, milanesi contro torinesi, regionalisti contro centralisti tutti combattono insieme per un fine comune e tra di loro per accaparrarsi la porzione più opima delle spoglie.
Procuriamo di sentire per sommi capi le ragioni dei contendenti, senza perderci per i viottoli traversi delle infinite controversie particolari.
Interessati contro estranei e generici questa è la prima ragione di rancore contro l’attuale composizione del consiglio del lavoro. Questo è un organo consultivo, in cui gli interessati, industriali ed operai, dovrebbero essere chiamati a dare il loro parere sulla nuova legislazione sociale, sul funzionamento delle leggi vigenti, sulle condizioni delle classi operaie in relazione alle condizioni dell’industria.
In questo consesso consultivo, il quale dovrebbe apparecchiare i materiali legislativi per il governo ed il parlamento, che cosa ci stanno a fare i tre senatori ed i tre deputati? Senato e Camera dovranno deliberare sulle proposte che il governo farà, in seguito agli studi ed ai pareri degli interessati adunati nel consiglio; ma non debbono – a mezzo dei loro rappresentanti – dare pareri a se stessi. Il loro intervento serve unicamente a falsare l’espressione della viva voce dell’industria e delle maestranze. A seconda del partito politico che ha la maggioranza nelle due camere, le risoluzioni prese dal consiglio prenderanno un colore conservatore o democratico o socialistoide. Il vero arbitro delle risoluzioni sarà l’elemento parlamentare, frustrando così l’essenza stessa del consiglio, il quale dovrebbe essere la viva voce delle classi imprenditrici ed operaie.
Peggio si dica dell’elemento burocratico, oggi esuberantissimo: otto rappresentanti delle direzioni dell’agricoltura, della statistica, della marina mercantile, dell’industria e del commercio, del credito e previdenza, dell’ufficio del lavoro, dell’emigrazione, della cassa nazionale per la invalidità e la vecchiaia degli operai. Se fosse possibile, l’intervento dei funzionari produce effetti ancor più lamentevoli dell’intervento dei parlamentari. Se i funzionari sono per ufficio ossequenti ai desideri del governo, sono ancor più desiderosi di allargare le funzioni governative, cosicché il loro voto si può dire assicurato a priori a quella parte la quale proponga i regolamenti più complicati, purché crescano con essi i bisogni di nuovi impiegati e nuovi orizzonti si aprano alla carriera delle falangi ministeriali.
Che cosa stanno a fare quei due economisti sociologi nel consiglio, se non a spostare indebitamente le sorti delle votazioni a favore di quella parte a cui volga favorevole la moda scientifica? E chi sa immaginare le ragioni arcane per cui vi hanno seggio due rappresentanti delle banche popolari? Nemmeno le rappresentanze delle società di mutuo soccorso e delle cooperative sfuggono alla critica. Poiché esse sono un duplicato della rappresentanza delle classi operaie, le quali hanno bensì ragione di elevarsi colla cooperazione e col mutualismo, ma non hanno alcun motivo di pretendere perciò una rappresentanza ulteriore a danno della equa bilancia che tra le due parti dovrebbe essere mantenuta. Tanto varrebbe concedere agli industriali, oltre i posti ad essi assegnati, nuovi posti al nome delle società per azioni, che pur sono un modo perfezionato di organizzazione del capitale, così come la cooperazione ed il mutualismo sono forme complesse di organizzazione operaia.
Contro le critiche mosse alle rappresentanze dei parlamentari, degli scienziati, dei funzionari e dei doppioni debole è la risposta; talché è da credere che, se non si trattasse di sfrattare dal consiglio personaggi illustri e benemeriti per tanti versi del paese, la loro eliminazione non susciterebbe contrasto alcuno. Una sola ragione fondata si può addurre della loro presenza: l’opportunità di avere sottomano tecnici i quali possano illuminare il consiglio nei problemi di loro competenza e possano inoltre, forti della loro competenza, far da pacieri tra le due parti operaia e padronale. Senonché sulla competenza (parlo naturalmente della competenza inerente alle cariche ed alle funzioni, in virtù di cui codesti «arbitri» ottengono la nomina, non della competenza personale, che nei casi singoli è o si presume indubbiamente grandissima) ci sarebbe molto a ridire. La competenza in siffatti argomenti non si acquista né sui libri, né nei dibattiti parlamentari e neppure con la collaborazione multiforme ad opere sociali; la si acquista invece nelle officine e nei campi, lottando per il miglioramento delle proprie condizioni di vita o subendo gli effetti di una legislazione disadatta. La sola esperienza vissuta ha valore e solo la voce di chi quella esperienza quotidianamente vive merita di avere virtù deliberativa. Nulla vieta che al consiglio intervengano anche elementi competenti in questioni riflettenti il lavoro; ma intervengano con voto consultivo, senza pesare sulle determinazioni che saranno per prendere le due parti interessate. Nulla vieta del pari che a partecipare ai lavori del consiglio siano chiamati volta a volta uomini competenti in particolari questioni. Essi ne saranno onorati ed il consiglio molto si gioverà del loro parere, il quale sarà tanto più sereno quanto minore responsabilità di voto decisivo cadrà su di essi.
Né sembri grave il pericolo che molte volte le due parti, pari in numero, degli industriali e degli operai, non riescano a mettersi d’accordo. Anzitutto molte questioni sono di indole tecnica su cui un consenso unanime o di maggioranza potrà agevolmente formarsi. Altre volte il dissenso sarà di taluni industriali o di taluni operai appartenenti a particolari industrie; né quei dissenzienti avranno tanta forza da trascinare, per motivi particolari ed egoistici, l’intiera rappresentanza della classe.
Il dissidio insanabile potrà cadere soltanto sulle grandi questioni di massima, interessanti tutta l’industria o tutta l’agricoltura. Sembra a me utilissimo che questo dissidio venga alla luce, apertamente, schiettamente, senza che delle ibride rappresentanze cuscinetto riescano a nasconderlo, ad attenuarlo, a prorogarne lo scoppio. Non dimentichiamo che il consiglio è un corpo consultivo, non deliberativo. Propone le leggi, non le delibera. Che male vi è che il parlamento si vegga squadernate dinanzi nei casi più importanti (nella grande maggioranza dei casi è improbabile che le due parti non trovino una via di accordo) le ragioni a suffragio od a contrasto di una proposta di legge? In Italia abbiamo la strana abitudine di voler far prendere all’unanimità le deliberazioni dei corpi consultivi e benanco delle commissioni d’inchiesta. Persino le relazioni di minoranza sembrano uno scandalo e si frappongono ostacoli alla loro divulgazione. Facendo così, si disconosce l’essenza dei corpi consultivi, che è di porgere consigli, i quali, finché la natura umana dura come è, saranno mai sempre divergenti. Le deliberazioni del governo e del parlamento – queste, sì, devono essere univoche acquisteranno anzi maggior valore; poiché non potranno essere prese scaricandone la responsabilità su un consiglio consultivo, in cui, come accade oggidì, le voci genuine degli interessati sono soffocate dalla grave mora delle rappresentanze cuscinetto.
Risolta la questione fondamentale di ammettere, con voto deliberativo, soltanto le rappresentanze degli interessati, sorge l’altro problema: come organizzare queste rappresentanze? Qui la disputa si impernia innanzi tutto fra coloro che vogliono far nominare i rappresentanti dalle organizzazioni specifiche professionali e quelli che vogliono dar diritto di eleggere alle organizzazioni che dire generiche. Dico subito che le mie simpatie non sono né per le une né per le altre, almeno come strumento di scelta dei consiglieri del lavoro. Ma poiché la questione fu posta, essa deve in via preliminare essere discussa.
Dicono gli specifici: il consiglio è chiamato sovratutto a dare pareri su questioni riflettenti i rapporti tra capitale e lavoro, si tratti di contratti collettivi, o della tutela contro gli infortuni sul lavoro, o delle leggi sulla durata del lavoro o sul riposo festivo. Il punto specifico della competenza del consiglio stando nel regolare i rapporti tra industriali ed operai, non tutte le associazioni o le rappresentanze delle due parti hanno ragione di nominare i consiglieri del lavoro, bensì quelle soltanto che abbiano ad oggetto specifico della loro azione lo studio e la trattazione dei rapporti tra industriali e lavoratori.
Una associazione del cuoio, o della lana, o della seta adempierà, a cagion d’esempio, ottimamente ai suoi fini, che sono quelli di promuovere il progresso tecnico dell’arte, di intervenire nella discussione dei trattati di commercio, di difendere l’industria dalle ingordige fiscali; un comizio agrario si sarà reso benemerito dell’agricoltura promuovendo l’adozione di nuovi metodi di coltivazione, incoraggiando sperimenti di concimazione, ecc. ecc.; una società di mutuo soccorso avrà potentemente contribuito all’elevamento delle classi operaie instaurando molteplici forme di mutualità. Tutti questi sono mezzi di azione utilissimi per le classi interessate; non riflettono però i rapporti fra capitale e lavoro.
Competenti sono soltanto quelle associazioni che si siano costituite nell’intento specifico di trattare le questioni del lavoro, ossia, per usare la denominazione oramai invalsa, i sindacati di mestiere, siano essi sindacati operai o sindacati industriali. Il principio è sembrato pacifico per la classe operaia, talché i relatori Abbiate, Cabrini e Saldini proponevano senz’altro di attribuire la nomina dei delegati operai alle federazioni dei lavoratori del libro, dei lavoratori edilizi, ecc. ecc., ed in mancanza di federazioni di mestiere, alla confederazione generale del lavoro. Perché non adottare lo stesso criterio per la parte industriale, chiamando a nominare i delegati, invece delle generiche unioni delle camere di commercio, od associazioni di questa o quella industria, le specifiche confederazioni generali dell’industria o federazioni di industrie particolari, sorte e specializzatesi nella discussione e nella difesa degli interessi della classe padronale di fronte alla classe lavoratrice?
La sola obiezione sostanziale che a questo modo di vedere si sia fatta è la seguente: la legislazione sociale, su cui sovratutto deve dar pareri il consiglio, è una legislazione costosa, i cui costi cadono massimamente sull’industria. Devono gli industriali vigilare affinché le riforme non riescano insopportabilmente gravose rispetto alla potenzialità economica dell’industria; e devono vigilare altresì perché i sacrifici non siano troppo superiori alla somma dei benefici che le classi lavoratrici dovrebbero ricavare. Ora, a questo compito soddisfano assai meglio le associazioni tecniche od economiche, le quali hanno per iscopo la tutela degli interessi generali dell’industria, e conoscono profondamente le condizioni sue finanziarie, che non le associazioni sindacali le quali si sono specializzate nella lotta contro gli operai ed appunto per questa eccessiva specializzazione non sono in grado di assurgere ad un giudizio sintetico della legislazione sociale, che è sopra ed oltre le classi e la quale deve essere valutata in rapporto soltanto alla potenzialità economica dell’industria.
L’obiezione, a parer mio, non coglie nel segno. Innanzitutto è vero che la legislazione sociale è al disopra delle classi ma chi deve compiere quest’opera pacificatrice, superiore alle classi, è il parlamento, non il consiglio del lavoro. Se in questo fossero rappresentate le classi ed insieme l’elemento moderatore che cosa ci starebbe a fare il parlamento? Forse a mettere lo spolverino sulle deliberazioni del consiglio; nel quale surrettiziamente verrebbe così a trasferirsi l’autorità legislativa? Meglio è riconoscere il fatto quale è: e cioè l’esistenza di due o più classi alle quali viene dato modo di esprimere in seno al consiglio del lavoro i propri desideri in ordine alla legislazione sociale; e su questi, ora concordi ed ora discordi, venga dal governo chiamato il parlamento a decidere. Opinare altrimenti è un voler trasferire la sovranità dal parlamento alle classi ed agli organi particolaristici, è un voler ricostituire, sotto nomi diversi, il regime feudale.
Né si tema che i sindacati industriali non sappiano valutare i sacrifici che la legislazione sociale imporrà all’industria. Come? uomini che passano la loro vita a discutere di aumenti di salari o di riduzione di orario ed a valutarne il peso in rapporto alla produttività dell’industria perché questo è proprio ciò che fanno i sindacati padronali – non saranno più in grado di valutare i sacrifici imposti all’industria appena essi siano la conseguenza delle regole imposte da una legge sociale? L’addestrarli a questa opera di valutazione degli effetti della legislazione sociale sembra anzi ottimo metodo per continuare e rinsaldare, in una sfera più elevata, quei rapporti tra sindacati industriali e sindacati operai che sono la più sicura speranza di efficace pacificazione sociale. Non basta predicare la pace per averla. Essa sprizza fuori dal contrasto ed è tanto più duratura quanto più a lungo le parti contendenti hanno lottato per raggiungerla.
I sindacati, operai e padronali, oggi costituiti e di fatto riconosciuti dallo stato, sono gli organi più adatti ad esprimere la volontà dell’industria e delle maestranze a cui carico e favore si elabora la legislazione sociale? Qui è il punto controverso; ed è qui che maggiormente si accaniscono le ire di parte.
Subito sorge il problema: quali saranno le associazioni sindacali a cui sarà affidata la nomina dei consiglieri del lavoro? Come si stabiliranno i connotati di queste associazioni, per sapere distinguere le «buone» dalle «spurie», i sindacati «eletti» dai «reprobi».
Che non si tratti di un problema facile è manifesto dall’accanimento posto dai socialisti nell’affermare che soltanto certe associazioni sono le «buone» e che in special modo sono da mettersi al bando le associazioni cattoliche. La scomunica si vorrà estendere certamente alle associazioni cosidette «gialle» o repubblicane, che nel Ravennate si contrappongono alle associazioni «rosse» o socialiste.
Quali siano gli argomenti con cui si vorrebbe impedire alle associazioni cattoliche o repubblicane di concorrere all’elezione dei consiglieri del lavoro confesso di non essere riuscito a comprendere chiaramente; e moltissimo mi meraviglia che quei misteriosi argomenti siano stati accettati nel Consiglio da uomini di parte liberale.
La giustificazione precipua dell’esclusione sarebbe questa: che non si debbono ammettere al diritto di voto le associazioni le quali sorgano per rompere il principio della unità sindacale in forza di una pregiudiziale di partito politico o di confessione religiosa, col condizionare l’accettazione del socio o la sua appartenenza all’associazione a dette pregiudiziali. Ammettere, si afferma, i delegati di associazioni confessionali, perché cattoliche, o perché repubblicane o socialiste, sarebbe un vero privilegio. Le associazioni debbono essere ammesse a nominare i delegati quando esse siano aperte a tutti senza chiedere professione di fede alcuna. Altrimenti esse non sono più associazioni economiche, bensì associazioni religiose o repubblicane o socialiste con vernice economica.
Chi ha fatto questo ragionamento era per fermo un uomo profondamente illiberale e giacobino. Innanzi tutto perché lo Stato dovrebbe preoccuparsi di mantenere intatto il principio della unità sindacale? In virtù di qual principio lo Stato dovrebbe dire: – è utile, è necessario che in ogni mestiere gli industriali e gli operai siano uniti in due soli sindacati, l’uno all’altro opposto? – Non certo in virtù di nessun principio, il quale sia scritto nelle nostre leggi, e che possa chiamarsi un principio liberale. Vogliono gli operai, vogliono gli industriali di un mestiere riunirsi in un solo sindacato nazionale per parte? Lo Stato non ha nulla a ridirvi; e non potrà non ammettere di fatto i membri di quel solo sindacato ad eleggere i consiglieri del lavoro. Credono invece gli operai o credono gli industriali di riunirsi in parecchi sindacati, uno per regione, o parecchi nella stessa regione, a seconda del colore politico e della credenze religiose o a seconda di altre differenziazioni ancor meno interessanti? E lo Stato non dovrà far altro che accettare questa condizione di fatto e dare il diritto di voto a tutti quelli che sono in realtà operai od industriali, qualunque sia la loro etichetta politica o religiosa. Questo spezzettamento in tanti sindacati diversi, campanilistici o partigiani, potrà essere antipatico ad alcuni cultori delle scienze economiche, potrà urtare i nervi di chi desidera l’unità sindacale e l’organizzazione accentrata; ma è uno stato di fatto che soltanto la partigianeria più cieca può rifiutarsi di riconoscere. O non sono tutti i cittadini uguali nei diritti e nei doveri?
Con qual diritto vogliamo mettere al bando i cattolici perché essi intendono far parte dei sindacati cattolici e i repubblicani di Ravenna perché si tengono stretti ai sindacati gialli e non vogliono entrare nei sindacati rossi?
Dicono i socialisti ed i falsi liberali in combutta coi socialisti: lo Stato deve riconoscere solo i sindacati neutri. Allegazione ipocrita, perché più della neutralità scritta negli statuti vale la partigianeria delle persone che si trovano a capo delle organizzazioni cosidette neutrali. Ma anche astrazion fatta dall’ipocrisia evidente dell’obbiezione, vi è una cosa sola da osservare: che cioè, per ragioni buone o cattive, spiacevoli o piacevoli a certi organizzatori od a certi economisti, vi sono degli uomini i quali non vogliono entrare in certe associazioni perché le ritengono disadatte a difendere i loro, bene o male intesi, interessi e vogliono invece entrare in altre associazioni, che hanno un’altra etichetta, occulta o palese. Gli industriali milanesi od alcuni di essi non vogliono ad esempio, entrare a far parte della Confederazione generale dell’industria, che ha sede a Torino, benché questa sia aperta a tutti. Avranno magari torto ad astenersene, ma intanto questa è la loro ferma, decisa volontà. Gli operai repubblicani di Ravenna non vogliono aderire alle organizzazioni neutre. Rompono con ciò l’unità sindacale operaia, così come alcuni industriali milanesi rompono l’unità sindacale padronale. Sarà questo un fatto lacrimevole, forse; ma è un fatto. Anzi è il solo fatto di cui lo Stato deve tener conto.
Lo Stato non è né cattolico, né socialista, né repubblicano, né partigiano delle organizzazioni milanesi né di quelle torinesi. Lo Stato, poiché non può negare a nessun uomo la libertà di agire come crede entro i limiti della legge, non può obbligare i socialisti ad entrare nelle organizzazioni cattoliche e non può, per converso, obbligare i cattolici ad abbandonare le loro leghe cattoliche e costringerli ad entrare nelle leghe neutre che essi aborrono, appunto perché neutre.
I difensori, operai o padroni, dell’unità sindacale, se vogliono veder trionfare il principio caro al loro cuore hanno una sola via dinanzi a loro: far propaganda allo scopo di persuadere gli adepti delle altre fedi ad abbandonare le organizzazioni dissidenti ed accedere all’organizzazione neutra. Il giorno in cui sarà scomparso l’ultimo sindacato cattolico o giallo, milanese o torinese, lo Stato dovrà riconoscere non il principio ma il fatto dell’unità sindacale.
Riconoscendolo prima, come oggi fa, gli esclusi hanno ragione di lamentarsi di denegata giustizia e di dire allo Stato: voi ci escludete dal diritto di voto, perché siamo religiosi, perché siamo repubblicani, perché siamo affezionati alla piccola regione nostra e diffidiamo delle organizzazioni nazionali troppo grandiose ed escludendoci, voi agite da tiranno o, se meglio vi piace, da democratico giacobino, il che è peggio di tiranno.
Senonchè la tesi liberale del diritto di rappresentanza concesso corporativamente a tutti gli operai ed industriali, qualunque sia la fede, negativa o positiva o neutra, dei loro sindacati, urta contro una difficoltà pratica. Come organizzare il suffragio? Anno per anno dovrebbe essere riveduta la lista delle associazioni sindacali costituite con specialità di fine allo scopo di discutere le questioni del lavoro. Fatica non lieve e non immune da pericoli gravi. Come impedire, ad esempio, che si costituiscano delle associazioni di falsi operai e di falsi industriali, le quali verrebbero a perturbare il risultato genuino delle elezioni? Come far sì che un operaio od un industriale, iscrivendosi a parecchie associazioni, neutre o confessionali, non riesca a pesare due volte col suo voto sulla designazione dei consiglieri del lavoro? Poiché nessun privilegio si deve sancire a favore delle associazioni nazionali contro le associazioni regionali, poiché nessun obbligo deve essere imposto a queste ultime di federarsi nazionalmente, ben potendo darsi che gli interessati preferiscano l’una all’altra forma di organizzazione, i doppioni saranno inevitabili e si andrà incontro a difficoltà pressoché inestricabili.
La difficoltà massima dell’elettorato «corporativo» sta del resto nella definizione della parola «sindacato di mestiere». Bisognerebbe trovare una definizione che ammettesse tutti i sindacati, quelli nazionali e quelli regionali o cittadineschi, i rossi insieme coi gialli ed i neri e persino, se si potesse, i sindacati dei disorganizzati e dei crumiri. Tutti costoro sono cittadini italiani, possono essere operai od industriali, e possono avere interesse a fare il mestiere del rosso o del giallo o del crumiro, ed hanno perciò diritto di voto per far valere quei loro interessi. Opinar altrimenti è un voler far risorgere le caste chiuse e negare i diritti individuali dell’uomo.
Una definizione siffatta del «sindacato di mestiere» pare a me quasi impossibile a darsi. La legge francese del 1884, che si è trovata a questo sbaraglio della definizione, ha detto che i sindacati professionali sono «associazioni di persone che esercitano lo stesso mestiere, o mestieri simili od attendono ad occupazioni connesse, concorrenti alla produzione di determinati oggetti» ed «hanno esclusivamente per oggetto lo studio e la difesa di interessi economici, industriali, commerciali e agricoli». Fare a meno di quell’esclusivamente è difficile, se non si vogliono considerare come sindacati anche delle associazioni aventi per iscopo la lettura di giornali umoristici, e lo sport della corsa a piedi, o il premio al miglior bevitore di vino dello stabilimento. Includerlo, vuol dire dar causa vinta ai dogmatici dell’unità sindacale ed agli esclusivisti sotto bandiera di neutralità. Né uno Stato monarchico potrebbe esplicitamente riconoscere, con una registrazione ufficiale presso la prefettura, un sindacato repubblicano il quale si proponga, oltre gli scopi professionali, anche l’intento di sovvertire la forma esistente di governo; e neppure potrebbe registrare un sindacato cattolico il quale invocasse il ristabilimento del potere temporale.
Il dilemma è chiaro: da un lato lo Stato liberale non può negare agli operai ed industriali repubblicani o cattolici di difendere i loro interessi di classe in seno al Consiglio del lavoro anche se essi non vogliono iscriversi ad un sindacato neutro, perché non può mettere nessun uomo al bando della società e perché è altamente impolitico, oltreché ingiusto, lasciare radicare in alcuni gruppi della popolazione il convincimento che ad essi giustizia è negata; dall’altro lato lo Stato non può in una legge sancire il principio che ci possono essere dei sindacati legalmente costituiti per cospirare contro l’ordine politico costituito o contro l’unità della patria. Dal dilemma non si esce con una definizione del sindacato: od almeno a me non è riuscito di intravvedere questa definizione.
Di qui l’opportunità della soluzione più radicale: che cioè il diritto elettorale sia dato direttamente agli operai e agli industriali singoli. È la proposta messa innanzi, in una forma un po’, grezza e certamente emendabile, dall’onorevole Luzzatti quando era ministro di agricoltura e che fu accolta con glaciale silenzio dall’attuale Consiglio del lavoro e subito mandata agli archivi. Miglior dimostrazione dello spirito nettamente settario, oggidì dominante in quell’alto consesso non era possibile dare. Le obbiezioni invero che ragionevolmente possono muoversi all’elettorato individuale diretto non sono fondamentali.
Non vale dire che la formazione del corpo elettorale sia difficile od anche difficilissima perché è ben più facile definire l’operaio o l’industriale che non il sindacato. Né si può addurre la ragione della spesa per le elezioni generali, quando la spesa sarebbe limitata finché il corpo elettorale rimanesse in gran parte assente, e sarebbe giustificatissima quando gli elettori si appassionassero alla lotta. Né è necessario che vi sia un collegio unico, a scrutinio di lista, per tutta Italia. Sulla base del prossimo censimento della popolazione e delle industrie non sarebbe impresa troppo ardua organizzare nelle industrie un collegio nazionale per ogni grande gruppo di mestieri e nell’agricoltura un certo numero di collegi corrispondenti alle maggiori divisioni regionali in zone agricole. Certo, l’organizzazione dovrebbe andar perfezionandosi per sperimenti successivi; ma qual è quell’istituto umano che sia nato perfetto?
L’obbiezione più forte – in apparenza – all’elettorato individuale è quella che la «Confederazione italiana dell’industria» riassunse dicendo che nelle regioni non organizzate gli elettori rimarranno assenti e l’elettorato individuale rimarrà privo di effetti pratici, mentre nelle regioni fortemente organizzate l’elettorato individuale favorirà i disorganizzati, ossia la «massa inerte che non comprende, che non conosce, che non sente le nuove direttive e i nuovi problemi della vita sociale» a danno degli organizzati, ossia degli «uomini più illuminati, consapevoli dell’importanza e delicatezza dei rapporti sociali da classe a classe, che tendono ad esplicare, a mezzo dei sindacati, un’azione diretta all’incremento e alla difesa degli interessi di classe».
La critica è illogica. Perché non si vede come i disorganizzati, i quali se ne staranno assenti, a confessione della Confederazione dell’industria, nelle regioni, ad esempio, del mezzogiorno, diverranno d’un tratto elettori solertissimi nelle regioni dove l’organizzazione è progredita. Si tranquillizzino gli attuali dirigenti dei sindacati operai e padronali. Difendendo l’elettorato individuale io non mi sono illuso che esso debba servire a fare effettivamente votare i disorganizzati, i crumiri ed a dare la vittoria a qualcosa di diverso dai sindacati.
Purtroppo i ribelli alle organizzazioni, gli individui insofferenti dei freni corporativi, questi veri pionieri del progresso, non andranno a votare e non saranno mai rappresentati in seno a nessun consiglio del lavoro in nessun paese del mondo. Difendendo l’elettorato individuale, intendo soltanto trovare una soluzione automatica, liberale al problema dell’unità o varietà sindacale, delle rappresentanze generiche o specifiche, ecc., ecc. Sarebbero eletti i rappresentanti di quelle organizzazioni che di fatto si fossero dimostrate più attive, più energiche, meglio atte ad accaparrare i voti degli interessati.
Io non sono di quelli i quali ritengono che, col metodo ora proposto, i delegati sarebbero l’emanazione genuina e diretta di tutti gli operai e di tutti gli industriali, anche non organizzati. Lungi da me siffatta utopia. Gli eletti nelle elezioni politiche od amministrative o professionali non sono mai gli eletti della generalità, sibbene della minoranza più audace e meglio organizzata. In fondo l’elezione non sarebbe fatta dagli elettori, sibbene dalle organizzazioni, ossia dai comitati direttivi dei sindacati operai e padronali.
Il sistema dell’elezione apparentemente individuale presenterebbe però questo grandissimo vantaggio sul sistema dell’elezione attribuita ai sindacati: che non sarebbero fissati per regolamento i nomi dei Comitati direttivi organizzatori delle elezioni.
Se si fanno eleggere i consiglieri del lavoro dai sindacati operai o padronali, noi: 1) costringiamo lo Stato a scegliere i sindacati investiti del diritto di scelta; 2) cristallizziamo questi sindacati, almeno per un certo tempo, e diamo un potere permanente ai dirigenti gli attuali comitati sindacali. È una vera oligarchia che si forma, difficilissima a spossessarsi e gelosa di tutte le nuove forze sociali sorte all’infuori della sua egida.
Se invece l’elezione è attribuita agli elettori singoli, operai ed industriali, sebbene l’elezione sia sempre fatta in realtà dai comitati sindacali, questi però non costituiscono un ruolo fisso, oligarchico. Vinceranno i comitati più abili nell’accaparrarsi gli elettori. Nell’industria tessile vinceranno, ad esempio, i sindacati operai cattolici e le associazioni industriali milanesi; nell’industria metallurgica la vittoria spetterà ai sindacati operai socialisti ed alle associazioni industriali nazionali. Domani le proporzioni muteranno e la vittoria sarà di nuovi gruppi, più numerosi e fattivi. Potrà persino darsi il caso che in qualche regione od industria arretrata dove il proletariato sia poco cosciente (adotto il grazioso linguaggio di moda), riesca persino ad essere nominato delegato uno di quegli esseri antidiluviani che hanno nome di liberali.
Elezione individuale vuol dire vittoria di quei sindacati rossi, gialli, cattolici, liberali, nazionali o regionali che riescono ad accaparrarsi di fatto, volta per volta, or gli uni or gli altri, i voti degli elettori. Ogni altra soluzione sembra a me attissima soltanto a consacrare la tirannia di alcune oligarchiche bande di devoti al principio dell’unità sindacale.