Lucri di rivalutazione, imposta e perdite
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956
Lucri di rivalutazione, imposta e perdite
Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 253-257
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Un disegno di legge concernente le rivalutazioni monetarie e il trasferimento a capitale dei relativi saldi attivi stabilisce che i saldi attivi di rivalutazione monetaria, registrati in bilanci chiusi dopo l’entrata in vigore della legge per la parte eccedente l’ammontare della rivalutazione del capitale versato e delle riserve ordinarie e straordinarie risultanti dal bilancio, si debbono considerare reddito ai fini dell’imposta di ricchezza mobile.
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Si pone qui una questione di principio.
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Può accadere che l’eccedenza predetta rappresenti un arricchimento della società a spese dei creditori. Ci troveremmo, perciò, di fronte ad un passaggio ingiustificato, dal punto di vista morale, dal gruppo dei creditori della società , al gruppo degli azionisti. Gli impoveriti e gli arricchiti ci sono noti.
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Quale soluzione diamo al quesito morale? Gli impoveriti, divenuti tali in conseguenza di un atto del principe, tengono per sé il danno, continuano a soffrire il latrocinio di cui sono rimasti vittime. Lo stato, il quale con la sua condotta fu causa del passaggio gratuito di ricchezze, del latrocinio commesso dagli uni a danno degli altri, non dice ai danneggiati: «Ecco, io cerco di indennizzarvi, sia pure solo in parte, del danno che voi avete subito»; dice agli arricchiti strizzando l’occhio: «Mettiamoci d’accordo noi due: io che sono la causa del vostro arricchimento, e voi che vi siete arricchiti ingiustamente per il fatto mio; datemi una quota del mal tolto ed io vi assolverò del peccato commesso». È un vero pactum sceleris, di cui nelle vicende contemporanee si trovano molti esempi, ma che fa un certo senso il vedere consacrato in un articolo di legge.
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L’esitazione che si prova dinnanzi ad una norma, la quale viola così apertamente la legge della morale, è rafforzata da un’altra considerazione di carattere tributario. Con la norma criticata si pone quasi inavvertitamente un precedente che sconvolge la base fondamentale della imposta sui redditi di ricchezza mobile. Sinora l’imposta medesima ha serbato il suo carattere di imposta sul reddito anche quando essa colpisce quantità economiche, le quali oggettivamente potrebbero essere considerate incrementi di capitale; ed invero le colpisce, se quelle quantità attraverso l’opera del contribuente hanno assunto la sostanza di una rimunerazione di una attività svolta dal contribuente medesimo e sono quindi diventate propriamente reddito.
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Basti citare il caso noto degli utili che negozianti di terreni e di case, banchieri ed altri intermediari ricavano dalle differenze fra il prezzo di acquisto e quello di vendita di immobili e di titoli. Non si tassa l’incremento di valore per sé, ma l’incremento di valore in quanto è frutto di una attività economica. Si osserva il principio che, in materia di tassazione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile oggetto dell’imposta è una quantità -reddito.
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Nel caso presente non si può affermare che gli azionisti di una società abbiano esercitato una attività economica rivolta allo scopo di impadronirsi del maggior valore delle attività patrimoniali acquisite con fondi forniti dai creditori. Non fu l’attività degli azionisti la quale condusse a un simile risultato, ma il fatto del principe che con la sua politica, sia pure inevitabile, fu causa dell’impoverimento degli uni a detrimento degli altri. Quel saldo attivo deriva dal nominalismo monetario; non è reddito, è un nome numericamente maggiore assunto da attività patrimoniali.
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Vale la pena di far partecipare lo stato al bottino, e per giunta farlo partecipare in nome di una imposta la quale dovrebbe rimanere innocente di tali reati?
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Il problema potrebbe essere affrontato rinviando ad un tempo successivo la sua soluzione. Senza attribuire all’imposta di ricchezza mobile un compito che non le spetta, non si potrebbe configurare un pagamento, o comunque si voglia chiamare, siffatto da scoraggiare le società dal procedere alla rivalutazione dei cespiti patrimoniali costituiti con denaro di terzi?
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Forse – per quanto in materia così delicata non sia agevole una frettolosa improvvisazione – su questa via si può giungere ad un risultato il quale non presti il fianco ad obiezioni morali e tributarie.
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3 ottobre 1948.
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Essendosi, della rivalutazione delle attività immobiliari giovate alcune imprese assicurative private per destinare parte degli incrementi numerici di bilancio così conseguiti alla copertura di perdite di esercizio, si presentò il quesito: se potesse ugualmente operare l’Istituto nazionale delle assicurazioni (I.N.A.). Giunto il relativo schema di provvedimento all’esame del presidente della Repubblica, questi opinò negativamente. Si dicono le ragioni del suo avviso.
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Il rimedio della rivalutazione, del quale non sono conosciute le conseguenze, se di dimensioni uguali, inferiori o superiori al disavanzo da coprire nel bilancio dell’I.N.A., è veramente cosa grossa perché:
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- è di pura scrittura. Un edificio resta quello che è e non muta natura fisica ed economica solo perché lo si scrive cento o mille;
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- è irrazionale. Un’impresa di assicurazione sulla vita è fondata sui conti in lire. Essa deve e può trovare nelle attività in lire quanto occorre per coprire le passività in lire. Se ciò non è possibile, bisogna indagare a quale ragione sia dovuto lo sbilancio; e provvedere a toglierla di mezzo.
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Né la rivalutazione degli immobili, né il versamento da parte del tesoro di un capitale di fondazione, possono essere logicamente fatti servire a coprire perdite, se perdite ci sono.
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Non lo possono le rivalutazioni degli immobili. Infatti se si scrivesse all’attivo un «saldo attivo di rivalutazione immobili» di quattro miliardi di lire bisognerebbe ipso facto scrivere al passivo un «fondo rivalutazione immobili», per l’identica somma. Il conto profitti e perdite non se ne gioverebbe menomamente. Si potrebbe invece di «fondo rivalutazione immobili» scrivere qualche altra parola, ad esempio: «fondo riserva ecc. ecc.», ma la sostanza non muta: tanto all’attivo, altrettanto al passivo.
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Se lo stato versasse un miliardo per capitale fondazione, all’attivo comparirebbe in qualche maniera il miliardo incassato; ma al passivo dovrebbe essere scritto un miliardo per capitale fondazione. Ci mancherebbe altro che i capitali di fondazione scomparissero per coprire perdite!
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Si osserva: è necessario escogitare qualcosa per far scomparire il disavanzo allo scopo di non screditare l’I.N.A.!
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Risposta: gli istituti pubblici non si screditano mai col dire la verità , ma solo col nasconderla.
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Se si ricorre al rimedio della rivalutazione, in un attimo i concorrenti vedrebbero di che filo bianco è cucita la scritturazione. Il disavanzo apparirebbe assai più grosso del vero e coperto per giunta con una scritturazione erronea. Le due partite massime di cosidetta perdita, ossia le provvigioni precontate e le perdite sui cambi non sono perdite, ma l’una è un credito verso gli assicurati e l’altra verso il tesoro. Crediti lunghi, ma crediti. Perché tacere la verità che non è brutta e immaginare un male che non esiste? La concorrenza ne piglierebbe argomento per supporre chi sa che altri motivi. Il male prodotto sarebbe assai più grave del pericolo al quale si vuole riparare.
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Non si vuole con le cose sopradette affermare che non si debba giungere ad una rivalutazione degli immobili. Si vuol soltanto dire che l’operazione non deve avere uno scopo, come sarebbe la copertura di perdite, non necessario, non chiaro e che sarebbe cagione di scredito; ma unicamente di raffigurare la realtà meglio di quanto oggi non avvenga. Se oggi, ad ipotesi, l’inventario si presenta così:
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Attivo | Passivo | Â |
Immobili miliardi 10 | Debiti miliardi | 10 |
 e gli immobili valgono invece cento miliardi, è logico si scriva invece: | ||
Immobili miliardi 100 | Debiti miliardi | 10 |
 | Fondo rivalutazione o riserva  |
90 100 |
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Allora si potrà cominciare a discutere che cosa si debba fare di questi novanta miliardi; e si potrà anche giungere alla conclusione che, almeno in parte, essi servano ad aumentare l’importo delle somme assicurate a favore di quei disgraziati che avendo versato lire buone che sono servite ad acquistare case, impiego se non del tutto sempre ottimo, in ogni caso migliore degli investimenti carta, si veggono ora indennizzati in lire svalutate.
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Ma rivalutare per coprire perdite equivale teoricamente a consumare lire buone che erano capitale per fronteggiare perdite di esercizio. Un istituto pubblico non può assoggettarsi a giudizi che nel caso specifico, potendosi altrimenti provvedere, sarebbero immeritati.
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È meglio che i giudizi sfavorevoli siano riservati eventualmente alle compagnie di assicurazione private le quali, destinando i ricavi scritturali derivati dalle rivalutazioni a coprire anticipi, sborsi e perdite di esercizio non hanno certamente dato prova di aver seguito le onorevoli loro antiche tradizioni.
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24 luglio 1948.