L’on. Turati e gli scioperi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/08/1901
L’on. Turati e gli scioperi
«La Stampa», 27 agosto 1901
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 417-421
L’on. Turati decisamente diventa ogni giorno più un uomo singolare.
Non voglio accennare alla polemica con Ferri, nella quale egli ha detto cose argute e ragionevoli. Voglio parlare invece dell’articolo Scioperi vani nell’ultimo numero della milanese «Lotta di classe». Non esito a dire che questo è uno degli articoli più notevoli usciti dalla penna di Filippo Turati.
In verità è da lunghi anni che il deputato di Milano scrive articoli che dovrebbero essere segnalati ogni volta per la impronta profonda che essi lasciano sull’indirizzo politico ed economico del movimento operaio italiano. Da una decina d’anni, ossia dai giorni, oramai storici, in cui l’on. Turati fondava a Milano la «Critica sociale», ho sempre letto, con assiduità costante, gli articoli di fondo che egli veniva pubblicando sulla sua rivista. Non mi sono mai annoiato leggendo la sua prosa logica, serrata, spesso geniale e sempre scintillante di vita e di arguzia.
Non seccarsi mai a leggere per dieci anni un articolista politico è un fatto meritevole di essere segnalato, sovratutto perché si tratta di un articolista che fa propaganda di una speciale dottrina ed è perciò quasi fatalmente condotto a ripetersi.
Quando penso che a distanza di pochi anni molti fra gli scritti che mi parevano più meravigliosi mi parvero insopportabili e non potei più leggere senza fastidio e senza sorriderne pagine prima grandemente ammirate, mi viene fatto di chiedermi: perché invece ho sempre continuato dai primissimi anni di studio universitario sino ad oggi e continuo ancora adesso a leggere con diletto gli articoli di Filippo Turati? Egli è che i suoi scritti non sono quelli di un teorico, che vengono a noia appena voi non guardate più le cose secondo il suo stesso angolo visuale, o di un propagandista che ripete come un pappagallo un catechismo imparato a memoria nel primo giorno in cui si chiese che cosa fosse il socialismo o la lotta di classe, e concluse – allora per tutta la vita – che erano amendue teorie degne di essere diffuse attraverso il mondo ignorante. No. Filippo Turati è uno scrittore il quale guarda in faccia le cose, non chiude gli occhi dinanzi alla realtà, e l’azione sua ed il pensiero suo adatta ai veri che la realtà – spesso dura ed ammonitrice – insegna ai pochi che osano scrutarla.
Perciò – mentre non mi riesce mai di leggere senza noia i giornali socialisti di propaganda con le loro solite «rendite dei lavoratori», «necessità dell’organizzazione», «l’imposta degli imbecilli», «i grassi borghesi che intascano i cuponi», «l’espropriazione degli sfruttatori» ed altrettali novità più o meno allegre – gli articoli di Filippo Turati non mi annoiarono mai, perché non sono la ripetizione dello stesso motivo marxista e nemmeno la solita filastrocca di luoghi comuni.
Adesso, per esempio, – ed è questa l’ultima e più singolare sua novità, – Filippo Turati si è trasformato improvvisamente in un amabile professore – niente affatto cattedratico – di scienza economica popolare. In verità non capita tutti i giorni di vedere un socialista rubare il mestiere a noi altri miserabili economisti borghesi! E sentite come egli ce lo ruba bene il mestiere!
«… non bisogna mai stancarsi – dice il socialista professore popolare della scienza di Adamo Smith – di inculcare agli operai quelle che sono verità fondamentali dell’economia, socialista e non socialista: che le leggi economiche non si lasciano forzare a capriccio; che lo sciopero è mezzo di estrema difesa, da usarsene con ogni riguardo; che l’essenziale non è lo sciopero, bensì l’organizzazione. Nove volte su dieci basta la possibilità di uno sciopero vittorioso, minacciato in condizioni propizie, per strappare ai capitalisti – che non sono degli idioti, come da taluni si vorrebbe, e subiscono la legge del loro beninteso tornaconto – tutto ciò che, nell’assetto sociale presente, essi possono essere costretti a dare: lo sciopero, una volta su dieci, non aggiunge se non danni e rovine».
Un foglietto socialista, ripetitore di luoghi comuni, aveva asserito essere dovere del vero socialista di cooperare all’eliminazione, del capitale, credendo, in ogni ora della giornata, alla verità del seguente dogma: «Ogni conflitto pacifico fra capitale e lavoro può essere inopportuno, prematuro, impreparato, ma non può mai essere ingiusto».
Subito Filippo Turati stritola codesto energumeno predicatore di scioperi inopportuni e prematuri fra le morse della logica economica, tale e quale come un qualunque economista utilitario, abituato alla scuola di Bentham a pesare accortamente sulla bilancia dell’utile le ragioni della convenienza di fare o non fare una cosa.
«Ebbene noi, falsi socialisti, protestiamo con tutta l’anima nostra. Noi diciamo che propalando simili fanfaronate, in qualunque ora della giornata ci si inganna o si ingannano le masse. E domandiamo a chi scrisse quelle righe, che ostrogoto criterio egli si fa della giustizia economica.
No, non è questo il criterio. Lo sciopero, se è inopportuno, se è dannoso, non può essere giusto. Questa giustizia metafisica, divelta dall’utilità, è cosa da preti o da ciurmadori. Non v’è giustizia che possa essere sistematicamente nociva a chi la invoca e se ne vale. L’eliminazione del profitto, nel presente assetto sociale (ed è in questo e di questo che ora si tratta), non può essere utile al proletariato, quindi non può essere giusta, se non in quanto aumenta durevolmente il salario o migliora stabilmente le condizioni del lavoratore. Se invece lo sciopero è, voi lo confessate, inopportuno; se paralizza l’industria, se intimidisce il capitale produttivo senza rialzare le condizioni del lavoro, se è destinato alla sconfitta ed all’umiliazione, esso potrà essere scusato, si dovrà compatire e soccorrere all’inesperienza di chi lo volle; ma esso, no, non è giusto».
E tanto per dimostrare che egli non recita la lezione imparata sui manualetti di Cossa e di Jevons, Filippo Turati si affretta ad esemplificare la sua dottrina con esempi pratici:
«Lo sciopero dei tranvieri della Edison. Si sa come è nato, come visse e, pur troppo, come morì. Morì votando per disperazione, a immensa maggioranza, i pieni poteri alla commissione, ossia la ripresa del lavoro, che aveva ventiquattr’ore prima respinta all’unanimità con urli di dileggio. Camera di lavoro, deputati socialisti, amici fidati e provati del personale avevano cercato ogni modo di scongiurarlo, di sostituirvi un arbitrato che fu respinto con disdegno. Il bilancio: da 20 a 30 lire di passivo, per ogni scioperante, fra il lucro cessante di tre giorni di mercede perduti e un tanto di meno nei miglioramenti che l’arbitrato avrebbe aggiudicati, che la società avrebbe concessi (è il segreto di Pulcinella) se non avesse patito i danni dello sciopero. Non parliamo di altre jatture sofferte dai tranvieri medesimi, come contribuenti, per il minor lucro del comune, a cui questo deve pur riparare col provento delle tasse, che anch’essi finiscono in qualche forma a pagare: non dei danni indiretti che provengono ad ogni categoria di cittadini – e rimbalzano in definitiva anche sui tranvieri – degli affari arenati, del tempo, del denaro, delle forze sperperate per la paralisi della circolazione.
Passiamo ai loro colleghi interprovinciali. Qui l’impreparazione fu tanta che, quando il direttore dell’impresa dichiarò le misere cifre degli utili dell’azienda, facendosene schermo a concessioni di qualche rilievo, nessuno si trovò in grado sia di controllare, sia di smentire quei dati. Non si conoscevano, neppure per approssimazione, le munizioni del nemico cui si dichiarava la guerra.
Gli interprovinciali, prima dello sciopero, cioè colla minaccia pacifica di una organizzazione appena nata, assistita dal Riscatto ferroviario, strapparono alla compagnia il riconoscimento della loro rappresentanza professionale, corporativa e politica, e 30.000 lire circa di miglioramenti, e tutto questo fu bene. Con cinque giorni di sciopero (tentato anch’esso invano di scongiurare) ne rosicchiarono, sì e no, altre 3.000. Ma perdettero un po’ più di 10.000 lire di mercedi, che, sì, prima di rifarsene! … Si acconciarono alla ripresa del lavoro con votazioni contraddittorie, coartati dalle dimissioni della loro rappresentanza, riluttanti irosamente invano alla stanchezza e alla sfiducia che li pervadeva. E lo sciopero fu condotto a quel meschino risultato coll’olio di merluzzo della intercessione del municipio, col ferro Bravais della pressione dei deputati e del prefetto. Se no riusciva ad un disastro».
Turati aggiunge che questi sono piccoli calcoli da piccoli contabili. Può darsi. Gli economisti non sono così permalosi da offendersi quando i loro calcoli della convenienza di fare una data cosa piuttosto che un’altra sono assimilati ai piccoli calcoli del dare e dell’avere di un libro mastro. Anzi, sono profondamente lieto che i capi delle classi operaie italiane comincino a sentire l’utilità di scendere fino alla volgare bisogna dei piccoli calcoli contabili. È segno che le lezioni, non nostre, ma della realtà, hanno fruttificato. È segno che l’educazione economica – e per conseguenza l’educazione morale – delle masse sta compiendo anche in Italia progressi notabili. C’è da esserne lieti. Un grande e benefico mutamento si sarebbe operato il giorno in cui gli operai non avessero più provveduto ai loro interessi tumultuariamente, in virtù di impulsi improvvisi e di ire subitanee, ma fossero stati uniti in leghe e guidati da capi intelligenti, istruiti delle condizioni economiche e commerciali delle industrie, atti a risolvere i problemi del lavoro nello stesso modo con cui si risolve il problema della compra di una balla di cotone o di un sacco di grano.
Alcuni anni fa si diceva che queste erano idee da economista borghese o da tradeunionista inglese. Oggi, uno spirito geniale e colto, come l’on. Turati, non teme di degradarsi stabilendo in lire e centesimi il conto del dare e dell’avere degli scioperi.
È un progresso grande. Purtroppo gli operai spesso non capiscono ancora l’utilità dei calcoli e non tengono conto – è una melanconica e giustissima osservazione di Turati – dei consigli che uomini competenti loro trasmettono intorno alle condizioni dell’industria, prima di mettersi in isciopero.
Le diffidenze passeranno. Giorno verrà in cui le leghe operaie sentiranno la necessità di pagare adeguatamente periti, i quali le tengano informate delle vicende dei prezzi, del costo delle materie prime, delle nuove invenzioni, ecc., e dieno consigli sulle tariffe delle mercedi e sulle clausole del contratto di lavoro in guisa da non correre il pericolo di chiedere cose incompatibili con le condizioni dell’industria.
Se ad affrettare quel giorno l’on. Turati dedicherà un po’ dell’opera sua, gli economisti, – i quali ora gli invidiano le sue brillanti facoltà di popolarizzatore efficace e di esemplificatore caustico della scienza loro, – lo metteranno nel novero dei più benemeriti cooperatori della formazione di una nuova ed eletta classe operaia.