Lo strumento economico nella interpretazione della storia
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/06/1936
Lo strumento economico nella interpretazione della storia
«Rivista di storia economica», giugno 1936, pp. 149-158
Antonio Fossati – Il pensiero economico del conte G. F. Galeani-Napione (1748-1830), Torino, 1936. Vol. centocinquantottesimo della Biblioteca già della «Società storica subalpina» ora della «Regia deputazione subalpina di Storia patria». Un vol. in ottavo di pagg. trentottesima – 2 s. n. – 479. Prezzo, lire 35.
1. Il conte Galeani Napione fu un gentiluomo e uomo di stato vissuto a lungo tra i due secoli diciottesimo e diciannovesimo. Uomo di stato, servì fedelmente la Casa di Savoia in alti uffici, fra i quali il ministero delle finanze. Gentiluomo, non recriminò vanamente, esiliandosi dal suolo natale, contro i repubblicani francesi, accettò durante il dominio di Napoleone, di servire agli studi come socio e presidente di classe dell’Accademia torinese delle scienze, rifiutò cariche amministrative e politiche. Tra gli economisti è noto particolarmente per l’elogio di Giovanni Botero (1781), primo scritto italiano nel quale degnamente si discorse di Botero come economista e si ricordò, dimostrando d’averla saputa leggere ed apprezzare, la Ricchezza delle nazioni di Adamo Smith. Il Fossati, in una diligentissima bibliografia, novera ben 110 scritti del Napione aventi attinenza diretta od indiretta con cose economiche, dei quali 18 erano già editi, 13 sono pubblicati per la prima volta in appendice al presente volume, 14 rimangono inediti in fondi archivistici noti e 65 sono noti soltanto per la citazione fattane dal Martini che del Napione scrisse la vita nel 1836 e poté consultarne l’archivio famigliare e dalla Fusini, recente (1907) ed ora irreperibile autrice di una monografia su di esso.
2. Se si eccettuino, perché già a stampa, l’elogio del Botero ed un discorso sul sostentamento degli operai filatori di seta ridotti alla disoccupazione (nel fasc. 1 della Raccolta di opere d’economia politica d’autori piemontesi, Torino, 1820), e l’inedita, dal Prato lodatissima, memoria intorno al progetto di un nuovo regolamento dei boschi del 1783 (n. 32 della bibliografia del Fossati), il meglio dell’opera economica del Napione trovasi oramai raccolto (pagg. 235 – 470) nell’appendice al volume del Fossati. Sono scritti in gran parte monetari (principii fondamentali della scienza di finanze, biglietti di credito, valore da fissarsi alla lira di Piemonte, di un nuovo sistema monetario da adottarsi, degli antichi debiti contratti in lire di Piemonte) o finanziari (creazione di un monte con cedole circolanti, sul sistema attuale delle regie finanze, sui luoghi di monte, sul ministero delle finanze) o varii (sulla scarsa mercede degli operai di campagna, su una nuova maniera di procedere alla descrizione della popolazione, sul commercio col Brasile).
Intorno ad ognuno di questi scritti, di quelli editi e degli altri ancora inediti in fondi noti, il Fossati intesse un quadro erudito e sistematico (L’Opera e l’uomo – Problemi demografici e rilievi Statistici – Problemi agricoli e fondiarii – Problemi monetari e finanziarii – Studii dopo la restaurazione), il quale riesce efficacemente a mettere in rilievo, nel pensiero e nell’opera, la figura di Napione economista e finanziere. Il libro del F. prende degnamente luogo tra i non moltissimi i quali, dal Prato in poi, impresero a narrare il formarsi di una classe politica dirigente negli stati sabaudi, tratta in minor parte dall’antica nobiltà feudale e per lo più dalla nobiltà di toga e dal medio ceto lentamente salito a grado nobiliare, classe operosa nella amministrazione di una fortuna terriera solitamente non amplissima, fornita di solida cultura in cose amministrative, rigida e non servile nell’adempimento di uffici pubblici. Che costoro possano essere detti promotori di indipendenza e di unità italiana è altro discorso; ma sembra indubitato che da quella minoranza eletta, continuamente rinnovata dal basso, furono tratti gli uomini della classe politica piemontese nel tempo del risorgimento.
3. Non potendo ragionare di tutti i problemi posti negli scritti del Napione ed illustrati dal Fossati, mi limiterò a qualche riflesso intorno ai «Principii fondamentali della scienza di finanza» che il 28 settembre del 1798 il conte Napione inviava al reggente l’ufficio del controllo generale marchese Giuseppe Massimino di Ceva. I «principii» hanno la forma di un «ragionamento» intorno ad una memoria più antica che il conte di Salmour, già presidente del consiglio di commercio, aveva dettato nel 1749 col titolo Pensamento politico economico sopra il commercio e le finanze. Il Martini, primo biografo del Napione, taccia questi di ingenuità perché confessa di aver attinto le idee fondamentali del suo scritto dal Salmour (Vita, 134).
Ma poiché della memoria del Salmour, la quale non doveva essere di breve mole se giungeva al mezzo migliaio di paragrafi, e di talune precedenti annotazioni, che ad essa si riferivano, del conte Damiano di Priocca, neppure un ricercatore esperto come il Fossati è riuscito a trovare le traccie, noi dobbiamo rifarci alle dichiarazioni del Napione per distinguere quel che è suo da quel che era stato prima scritto dal Salmour. Forse, qualcuna delle mie osservazioni intorno all’uso dello strumento economico da parte degli storici anticipa quelle che il Fossati ha rinviato, trattandosi di problemi specialmente monetari, ad una monografia, alla quale egli attende, intorno alle vicende monetarie piemontesi fra il sette e l’otto cento. Gli auguro di riuscire, nel frattempo, a risolvere la questione di attribuzione di paternità delle varie parti dei «Principii» al Napione ed al Salmour.
4. Tra le osservazioni a questi riferite, ve n’ha una singolare. Usano i trattatisti, ed usano correttamente, far merito ad Hume di quella che fu poi detta la teoria della distribuzione naturale dei metalli preziosi tra le diverse contrade del mondo. Chi può dimenticare la lapidaria confutazione data da Hume della paura dalla quale ai suoi tempi quasi tutti erano posseduti – ora siffatta paura s’è ristretta al volgo – di vedere il proprio paese privo d’oro?
«Suppongasi che quattro quinti della moneta esistente nella Gran Brettagna siano annichiliti nello spazio di una notte e la nazione sia ridotta, per quant’è al possesso di specie metalliche, allo stato in cui si trovava nei tempi degli Enrici e degli Edoardi. Quale ne sarebbe l’effetto? Non dovrebbe forse il prezzo del lavoro e delle merci ribassare proporzionatamente, ed ogni cosa vendersi a prezzo altrettanto basso come in quei tempi? qual nazione potrebbe farci concorrenza nei mercati esteri o continuare a navigare e vendere manufatti a prezzi uguali a quelli che a noi darebbero bastevole profitto? E ciò non dovrebbe in breve tempo restituirci la moneta perduta e rimetterci allo stesso livello dei vicini? Nel qual punto noi perderemmo immediatamente i vantaggi del buon mercato del lavoro e delle merci; ed, essendo provveduti con pienezza di moneta, niente più ce ne giungerebbe. Se, ora, supponiamo che la moneta della Gran Bretagna si moltiplichi nella notte per cinque, forse ché la vicenda contraria non deve verificarsi? Lavoro e merci non salirebbero forse ad altezze siffattamente esorbitanti da vietare a qualunque vicina nazione di acquistare alcunché da noi; laddove le loro merci, d’altro canto, diventerebbero relativamente a tanto buon mercato da inondarci, nonostante ogni legge proibitiva, e far uscire fuori la nostra moneta in pagamento; sinché noi fossimo ridotti allo stesso livello dei forestieri ed avessimo perduto quella grande superiorità di ricchezza monetaria, la quale ci aveva posto in uno stato di tanto vantaggio?
È evidente tuttavia che le medesime cagioni, le quali correggerebbero disuguaglianze tanto esorbitanti se queste si verificassero miracolosamente, debbono impedire che esse si producano naturalmente e devono conservare, in tutte le nazioni vicendevolmente commercianti, la massa monetaria proporzionata all’incirca alle arti ed all’operosità di ogni nazione. L’acqua, dovunque comunica, rimane sempre allo stesso livello». (Political Discourses, prima ed., pag. 82 – 84; Essays Moral, Political and Literary, ed. Green and Grose, 1, 333).
Davide Hume pubblicava questa pagina, alla quale, fra tante chiacchiere, non fu ancora replicato, nel 1752. Nel 1749 il conte di Salmour meditava perché nel Piemonte esistessero solo dieci milioni di lire circolanti in oro e in argento, quando il fabbisogno da lui calcolato ammontava a venti milioni. Non gli cade in mente che ciò possa accadere per qualche sbilancio di commercio come i più supponevano o per qualche malizia di negozianti, che era altresì credenza divulgatissima; ma pensa ai sei milioni di biglietti di finanze ed ai quattro di moneta erosa (di bassa lega divisionaria) circolanti in Piemonte, e ne conclude che non v’era posto per più di dieci milioni di oro ed argento: «che non vi potesse esistere allora maggior somma in metalli nobili, se non dopo che, col tempo, si fossero ritirate le specie suppositizie». Vera dunque, secondo il Salmour, una data massa monetaria ed una sola adatta ad un paese; s’intende una massa di monete nobili d’oro ed a queste equiparate per diritto di cambio (biglietti e moneta divisionaria erosa).
Non vi è pericolo di rimanere privi di essa. «Vano poi chiama il timore di rimanere senza il contante necessario per l’interna circolazione, qualora si ritirassero gradatamente tali specie; e dopo parecchie convincenti ragioni da lui allegate, per dileguar questo timore, dice ingegnosamente, che non fa maggior forza l’aria esteriore per entrare in un vaso stato vuotato colla macchina pneumatica, per qualunque piccolo foro che ci si apra, di quella che ne faccia il denaro forestiere per entrar in un paese priva di denaro. Ne assicura di ciò l’avidità dei negozianti di trarre a buon mercato da un siffatto paese le sostanze che vi possono trovare quando non ci fossero rimasti che i soli sassi» (pag. 379 – 80).
Non si vuole, con la citazione del brano, dire che al teorema di Hume – Ricardo debba essere dato il nome del Salmour; ma soltanto osservare che suppergiù nel tempo stesso in che l’Hume scriveva, un nobile piemontese, versato in controversie ed in negoziati commerciali, sentiva le verità che erano nell’aria del tempo, guardava con compatimento allo «spirito diretto e vincolante dei prammatici» i quali, preoccupati del pericolo «meramente immaginario» di veder uscire l’oro dal paese cagionavano «un male effettivo e reale», mentre l’oro è come l’aria che da sé entra, «per qualunque piccolo foro» nei vasi di essa vuoti. Perché non si dovrebbe correre a comprar le merci ai prezzi divenuti bassi per la fuoruscita dell’oro? In nuce, la teoria della distribuzione dei metalli preziosi nel mondo era nelle poche righe scritte nel 1749 dal Salmour.
5. Il quale doveva essere fine ragionatore se giunge a stringere assai da vicino quella che (in Teoria della moneta immaginaria, qui, fasc. 1, p. 20), ho definito clausola galianea. Vi si avvicina, in verità, solo nello scetticismo con cui giudica la possibilità di togliere la vera causa delle alterazioni monetarie, che è la variazione del rapporto commerciale fra oro ed argento, e nel consiglio di non variare il corso legale delle monete «quando la sproporzione è di poco momento», lasciando in tal caso «fare alla libera contrattazione» (ivi p. 383).
Dal non occuparsi del corso delle monete effettive per le piccole variazioni, che è la proposta del Salmour (1749) al non occuparsene affatto mai, che è il consiglio del Galiani (1750 – 51), il passo è lungo. Ma siamo sulla medesima scia ideale, il cui termine ultimo sarebbe di considerare le monete effettive d’oro, d’argento, di rame, nazionali o forestiere, connotate unicamente, come ogni altra merce qualsiasi, per il peso ed il titolo. Perché tanto baccano intorno al rapporto fra il grammo d’oro ed il chilogrammo di pane, più ché intorno a quello fra il chilogrammo di pane ed il litro di vino? chiedeva, ironicamente stupefatto, il Galiani. Qual differenza esiste fra l’uno e l’altro rapporto? Nessuna differenza di sostanza vi ha, in verità, fra le varie specie di rapporti; e la mera esigenza della semplicità nelle contrattazioni ha fatto scegliere l’un rapporto (tra grammo d’oro e unità di merce) agli altri innumerevoli rapporti per formazione dei prezzi di mercato. Ahi! quanto illusoria la speranza di ottenere in tal modo semplicità e chiarezza!
6. Negli scrittori piemontesi dal cinque al settecento una densa nube avvolge questa materia monetaria. Napione, sia che parli per conto suo o riferisca il pensiero di Salmour, non chiarisce bene la differenza fra monete effettive e moneta immaginaria; ché ad un certo punto (vedi il par. 1, Vera idea dell’aumento monetale) pare distinguere invece fra monete grosse (ad es. scudi d’oro e d’argento) che sarebbero rimaste invariate e monete inferiori, come le lire «le quali hanno successivamente servito di frazioni, sono in poco tempo diminuite della metà, sino alla reggenza di Madonna Reale Cristina, e da allora in poi anche maggiormente» (pag. 366). È così? Le lire scemarono effettivamente, come unità coniate, di peso e di titolo nello stesso rapporto in cui aumentarono le monete superiori?
Può darsi. Ma altrove (in Mario Chiaudano, La riforma monetaria di Emanuele Filiberto, pagg. 155 e 160) vedo la lira, valutata in 20 soldi nel 1562, essere recata nel 1573 a 21 e un settimo soldi, nel 1576 a 22 s. 3 d., nel 1578 a 22 s. 9 e un terzo d. senza che si conoscano variazioni corrispondenti nel peso e nel titolo di essa. Dunque, la lira non era l’unità monetaria effettiva, ma qualcosa di diverso.
Che cosa? A leggere i memoriali di monetaristi pratici del tempo, ufficiali alla zecca e consiglieri alla Camera dei conti, ed i loro moderni commentatori, si rimane perplessi. Chiaudano, scrittore di opera egregia, di cui il pregio può intendere solo chi si sia azzardato a tentare una piccola parte delle indagini e dei calcoli da lui coraggiosamente condotti a termine, parla di un grosso, dodicesima parte del fiorino, moneta di conto piemontese innanzi alla riforma del 1563, che sarebbe stato uguale al grosso battuto nelle zecche sabaude (pag. 98). E v’era in realtà un grosso effettivo, sebbene variabile in peso e in titolo (pag. 111, 114, 119); nel qual caso né grosso né fiorino sarebbero stati moneta di conto od immaginaria, sibbene effettiva (cfr. la mia Teoria della moneta immaginaria, qui, fasc. 1, pag. 4). Ma vedo il Bellero (Note sulla politica monetaria di Emanuele Filiberto in Rivista internazionale di scienze sociali, febbraio – marzo 1928, pagg. 140 e 143) distinguere tra il fiorino d’oro di Firenze, che sarebbe stato sempre moneta di conto ed il fiorino cosidetto di piccolo peso, rappresentante 12 grossi, qualunque fosse il corso di questo; e ricordare lo scudo d’oro del sole come «vera e propria moneta di conto». Il che è un insieme di proposizioni inesplicabili.
Come possono lo scudo d’oro del sole ed il fiorino di Firenze essere monete di conto, se coniate e quotate a corso variabile in grossi di fiorino? Come poteva a sua volta il grosso servire di moneta di conto se avesse avuto un corso, ossia se fosse stato quotato in un’altra moneta che, essa sì, sarebbe stata di conto? Ma da una tabella (ivi, giugno 1928, p. 38) vedo che il Bellero assume per corso del grosso e dei fiorini parvi ponderis quello che è invece il corso delle monete effettive in fiorini e grossi di fiorino. Resta il mistero del grosso effettivamente battuto di cui parla Chiaudano. Parecchi altri misteri tormentano.
La lira, creata da Emanuele Filiberto ad occasione della riforma del 1562, perde, osserva il Chiaudano a pagina 183, dal 1562 al 1580 circa il 30 per cento del suo valore; ma a pagina 182, pur riaffermando trattarsi di diminuzione del valore della lira, la fa uguale a 30 grossi nel 1562 – 73 ed a 40 nel 1578 – 80. In che senso una moneta, la quale compra un numero «crescente» di unità di un’altra moneta, può dirsi svalutantesi? In rapporto all’unità di un’altra moneta e quale?
7. Dalla nebbia che avvolge la materia monetaria non si esce se non foggiando a se stesso lo strumento di una teoria. Di che specie deve essere lo strumento? I valorosi scrittori degli Annales d’histoire économique et sociale paiono rispondere che lo strumento deve essere storico.
Parlando di una raccolta di antichi scritti monetari, uno dei direttori della rivista scrive: «è evidente che essi sono stati scelti e pubblicati secondo un criterio interamente «economistico» e niente affatto «storico» (dans un esprit tout à fait «économiste» et pas du tout «historien»); e che la grande preoccupazione dell’autore è di scoprire in Tizio un presentimento ed in Caio un’anticipazione dell’una o dell’altra delle teorie la cui successione forma oggi la trama dei moderni corsi di scienza economica; ma lo storico non può non pensare che dallo studio dei fatti (e cioè dalla politica consueta dei governi, dall’andamento reale dei prezzi, dal movimento effettivo dei cambi) si potrebbero trarre lezioni di ben altro interesse di quello di cui si raccoglie l’eco nelle raccolte di vecchi testi grazie al fatto che, qualunque cosa accada, lo stampato gode di un suo prestigio e presenta una sua comodità» (Annales, Mai 1936, pag. 306).
8. Lucien Febvre pone qui parecchi contrasti. Ed in primo luogo fra lo studio dei fatti e lo studio delle teorie del tempo a cui i fatti si riferiscono; e tra i due studi appare a lui più fecondo il primo. Non vedo il contrasto, né la possibilità di potere affermare una preferenza in generale per l’una o per l’altra specie di studio. Vi sono sempre stati fatti stupidi e teorie esposte da chi non capiva niente delle cose che vedeva accadere attorno a lui.
Perché i fatti e le teorie del passato dovrebbero essere diversi da quelli di oggi? Nove decimi dei dati statistici che sono raccolti oggi dagli innumerevoli uffici all’uopo fabbricati e dotati di impiegati e di macchine calcolatrici sono insipidi, insignificanti, raccolti per far numero, per levarsi d’attorno la seccatura di una circolare. Nove decimi delle teorie messe a stampa non sono teorie, bensì parole senza senso infilzate da gente che non ha meditato sull’argomento, che non ha niente da dire in merito, che ripete i soliti luoghi comuni che corrono attraverso le colonne dei giornali e le vociferazioni della radio; o son teorie di chi ha meditato troppo su qualche particolarissimo interesse e tira l’acqua al suo mulino coprendo l’interesse egoistico con rigiri complicati di interesse generale. Perché le cose in passato dovevano andare diversamente da oggi?
Certo, a mano a mano che si risale indietro col tempo, i dati e le teorie diventano meno abbondanti, sicché finisce di rincrescere a dover trascurare anche le briciole e le scemenze; e si tesoreggiano e si pigliano per oro in barra iscrizioni funerarie, panegirici su monumenti ecc. ecc. anche se si conoscono le bugie o le reticenze degli analoghi monumenti di tempi da poco trascorsi. Anche le adulazioni, se venerande, diventano un indice. Alla fin fine bisogna scegliere, con più o meno crudeltà, ed interpretare fatti e teorie. Con quale strumento, con quale criterio, secondo quale punto di vista?
9.- Questo è il vero contrasto ed il vero problema. Il Febvre parrebbe considerare preferibile il criterio o strumento o punto di vista «storico» a quello «economistico»; e la differenza fra quest’ultimo ed il primo parrebbe stare in ciò che l’economista cercherebbe nelle teorie antiche l’accenno precursore, l’anticipazione delle teorie moderne, laddove lo storico studierebbe teorie e fatti nella loro interezza, tali quali furono, senza preoccupazioni, per trarne fuori tutto ciò che essi possono darci, tutta la spiegazione di un’epoca, di un avvenimento, di una vicenda. Anche qui non mi pare sia colpito il punto essenziale.
Come non esiste una preferibilità genuina dei fatti sulle teorie e viceversa; ma occorre scegliere, tra i molti, i fatti e le teorie rilevanti, e sapere mettere in luce la rilevanza di certi fatti e di certe teorie e la irrilevanza di certi altri fatti e teorie; così non si vede perché l’un criterio sia preferibile in ogni caso ad un altro. Lo stesso fatto e la stessa teoria possono essere considerati con l’occhio dell’economista o del giurista o del politico; e tutti questi modi diversi di guardare possono esser fecondi di presentazioni illuminanti ed originali.
Direi che fra i diversi occhi particolari economistico, giuridico, politico e l’occhio generale dello storico la differenza sia di grado; che occhio storico pare possa essere soltanto quello rarissimo di chi possiede nel tempo stesso il senso economico e quelli giuridico e politico ed altri ancora ed abbraccia i fatti nella loro interezza e trascura i criteri in quel punto secondari o irrilevanti, concentrandosi su quello o quelli che a volta a volta sono significativi; e spiega la somma delle vicende umane, in modo che economisti, giuristi, politici, militari, artisti, poeti sono forzati a riconoscere vera la interpretazione che lo storico ha dato di quella vicenda, anche se di quando in quando il loro particolare criterio è stato dimenticato o messo in seconda linea. Purtroppo, storici così compiuti nascono a gran distanza di tempo l’un dall’altro; ma, nati, costringono tutti ad ammirazione.
10. La disputa fra cultori di storia economica, in realtà è altra. Mi pare di intravvedere nelle parole di Febvre la eco della vecchia controversia fra lo scrivere storia economica con o senza preconcetti. E certamente, storia economica, di fatti o di dottrine, non è: quella certa cosa che si scrive supponendo che un certo fattore, detto economico, sia più importante e determinante degli altri. Non val la pena di intrattenersi su questo oramai pacifico punto. Pacifico almeno tra gli economisti, i quali ai seguaci dell’economismo storico muovono, salvo casi rarissimi, un principalissimo rimprovero: di non saper niente di scienza economica e di assumere perciò come economici concetti che con l’economia hanno scarsissima parentela. – né quella certa altra cosa che si scrive per confortare la tesi che le teorie economiche sono quel che le fecero i tempi.
Che è un modo di scrivere storia il quale suppone nello scrivere inettitudine a distinguere fra teorie e teorie, fra teorie le quali non dico siano vere, che era la tesi di Pantaleoni, ma almeno aggiunsero, negando e perfezionando, qualche proposizione al corpo ricevuto dalle dottrine del tempo, nel qual caso sarà da studiare se abbiano avuto occasione fortuita da un qualche fatto del tempo o dalla scintilla del genio; e teorie qualunque, ripetizioni di vecchie dottrine o di sempre rinnovantisi errori o pregiudizi o sentimenti, che pigliano il color dei tempi o della moda o della piaggeria e sono materia di sfondo o di scorcio per lo storico intiero. – e neppure quella certa altra cosa che si scrive per narrare il succedersi di scuole e del modo con cui esse trasformarono o tentarono di trasformare il mondo: parlo dei soliti mercantilismo, liberismo, socialismo, programmismo ecc.
Che è bensì una storia importantissima; e di cui la nostra rivista dovrà occuparsi; ma piuttosto con l’occhio del filosofo o del politico o del filosofo che con quello dell’economista, il quale preferisce narrare storia di dottrine dall’una all’altra nascenti per virtù di menti creatrici applicate a ragionare sui fatti economici e sulle precedenti interpretazioni di esse.
11. Purtroppo credo che non si possa dare altra ricetta migliore del modo come si deve fare storia economica, di fatti e di idee, all’infuori di questa: fa d’uopo che lo scrittore abbia l’occhio od il senso economico. È un senso che, chi non ce l’ha, non se lo può creare. Dato che ci sia, non importa, ai fini della storia, il modo di renderlo esperto e forbito e sensibile: che si sia meditato su Ricardo o su Marshall, su Ferrara, su Pareto o su Pantaleoni, su Cournot o su Walras. Per scrivere storia economica o per elaborare gli ahimè! scarsi materiali del passato, non occorre davvero una raffinata preparazione matematica. L’essenziale è di essersi fabbricata una testa atta e comprendere in che cosa consista il problema economico, a snidarlo di mezzo alla farraggine di fatti o dati secondari, di dottrine (spiegazioni dei fatti) inconsistenti, artefatte o ridicole.
12. Mi è capitato di dovere leggere un certo numero di scritti monetaristici, antichi o recenti; ed ho ammirato spesso erudizione, rigore nell’elaborazione delle fonti, acume e dottrina. Ma raramente ho visto affrontato il problema con criterio economico. Sombart ha certamente scritto un vigoroso capitolo sul denaro nell’epoca capitalistica (vedi le pagg. 139 a 147 della traduzione – riduzione italiana di Il capitalismo moderno, Firenze 1925); ma il contrasto fondamentale, che egli crea a spiegare i fatti monetari dal duecento in poi, fra denaro di stato e denaro di scambio o metallico è uno schema giuridico – politico, non certo uno schema economico.
Con quello schema – una moneta a cui il valore è dato dal fiat del principe ed una moneta sonante, metallica voluta dai mercanti per l’uso degli scambi – noi, si e no, suppergiù riusciamo ad intuire quale fosse l’opinione dei giureconsulti ad occasione delle controversie la cui eco è contenuta nelle grandi raccolte del Budelius, del Boyss e del Tesauro. Ma appena prendiamo in mano una qualche grida monetaria o leggiamo le querele e le proposte degli ufficiali alle corti delle monete, lo schema knappiano – sombartiano della moneta di stato contro la moneta metallica non serve più. Sbalorditi, noi vediamo che re e principi dal ‘200 in poi in verità non avevano nessunissima intenzione di attribuire, essi, per atto di loro volontà, un valore alle monete.
Al di sotto delle loro imprecazioni contro la malizia dei mercanti noi vediamo che essi avevano lo stesso preciso scopo di questi: una moneta buona, vera, sana, solida, d’oro o d’argento, di peso o titolo noti. Come e perché si deviasse dall’ideale, quali gli spedienti adottati in tempi di guerre e di trambusti, non si capisce servendosi dello strumento del contrasto fra moneta di stato e moneta metallica. Confesso che lo scritto il quale più efficacemente mi ha aiutato a superare la fatica di sbrogliare quel groviglio indiavolato fu l’Essai économiquesur les mutations des monnaies dans l’ancienne France de Philippe le Bel à Charles VII di Adolphe Landry.
Ma Landry poté scrivere quel libro di storia solo perché era un economista di marca, capace di sottoporre un problema monetario del ‘300 alla medesima analisi logica alla quale, per capirne qualcosa, dobbiamo sottoporre problemi di cambi esteri, di sproporzioni fra rapporti legali e rapporti commerciali d’oro e d’argento, di disparità di poteri di acquisto nei tempi attuali. Perché mai, noi appartenenti alla confraternita economistica avremmo il diritto di ridere in coro degli spropositi che in materia di moneta e di cambi esteri ci offrono i giornali quotidiani e le relazioni parlamentari e dovremmo invece ripetere, come se si trattasse di argomentazioni serie, gli analoghi spropositi che scrittori di memorie stampate e manoscritte, ufficiali di zecca e consiglieri del re mettevano in carta intorno alle cause per cui le monete buone fuggivano dalla Savoia in Francia, dalla Francia in Savoia, dal Piemonte in Lombardia e della Lombardia in Piemonte? Perché non dovremmo sorridere a vedere piemontesi accusare genovesi e milanesi e questi quelli e tutti tre i francesi ed i francesi noi di malizia ingordigia frode nel trafugarci l’un l’altro le monete buone? Perché non cercare di renderci ragione dei fatti che accadevano con gli strumenti logici che la scienza economica moderna ci offre? In questo senso è utile rivedere e riscrivere la storia dei fatti passati alla luce della dottrina attuale. Non per sterile esercitazione accademica; ma per cercare di capir meglio quei fatti.
13. Per non rimanere nell’aria rarefatta dei buoni consigli, offro agli studiosi taluni strumenti che mi paiono utili nella interpretazione di fatti monetari passati:
- in massima, fino alla fine del ‘700, non esistono cambi esteri. Il cambio della moneta è fatto onnipresente, interno. Ogni moneta metallica, alta o bassa, effettivamente circolante, nazionale od estera, è negoziata ad un prezzo corrente ed ha perciò un cambio: che il principe si sforza di fissare e dicesi allora legale;
- ma il mercato muta a sua posta ed allora dicesi in abusivo. Ma, sebbene detto in abusivo, è un vero cambio (corso) universale, nazionale ed internazionale insieme, quotidiano di tutte le monete effettive, con un’altra entità, che non è affatto la moneta di stato immaginata da Sombart, ma un vincolo astratto (cfr. qui la mia Teoria della moneta immaginaria);
- questa entità astratta, talvolta diventa moneta effettiva per la volontà dei principi di toccar terra, di tenersi al metallo nobile. Il che richiede vieppiù l’uso dell’analisi economica, per non confondere le idee proprie e dei lettori; – il titolo basso, ad es. 300 su 1.000, di una moneta non è, per sé, indice di alto signoraggio e di colossali imposte sui consumatori di moneta. Se la moneta bassa è valutata in grida a corso basso, il signoraggio può diventare persino nullo;
- perciò la abbondanza di moneta bassa od erosa, come chiamavasi in Piemonte, non ha per sé significato alcuno. La moneta bassa non ha virtù di cacciar via la moneta d’oro o d’argento a titolo alto, se non sia emessa a corso sproporzionato, tale che convenga più pagare in moneta bassa che in alta. Ma se due monete dello stesso peso lordo, l’una al titolo di 300 millesimi e l’altra di 900 millesimi sono valutate in grida rispettivamente 3 e 9 lire, non v’ha ragione alcuna perché la bassa scacci l’altra dal mercato. Dunque l’abbondanza di monete a 300 millesimi non ha per sé medesima una qualsisia portata;
- ed in conclusione la chiave delle chiavi per la interpretazione dei fatti monetari è:
a) per le monete dello stesso metallo il rapporto fra il peso in fino ed il corso. Se per ogni unità di moneta di conto (ad es. lira), il peso in fino delle monete effettive è uguale, il sistema è in equilibrio e non vi ha interesse ad esportare nessuna delle monete correnti;
b) per le monete di diverso metallo il rapporto fra i due rapporti fra oro ed argento in pasta (barre) o in conio. Se il rapporto è uguale all’unità, il sistema è in equilibrio. I materiali per calcolare questi rapporti si trovano sparsi in libri stampati e in documenti d’archivio.
Nessuna fatica sarebbe più dura e più meritoria. Salvo casi rarissimi – eccezione memoranda in Italia i calcoli di Cesare Beccaria i libri di storia monetaria sono muti su questo punto che è quello veramente risolutivo. Epperciò gli storici stanno, stropicciando i piedi per riscaldarsi al calore intermittente di fatti secondari e irrilevanti, nell’anticamera della spiegazione di quel che accadde. V’ha forse dubbio che il mancato pieno successo di studiosi valorosissimi è dovuto all’imperfetto possesso dello strumento economico?