Lo sciopero dei Lincei
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/05/1947
Lo sciopero dei Lincei
«Risorgimento liberale», 15 maggio 1947
Nel pomeriggio di sabato 10 si teneva la consueta adunanza mensile delle due classi, fisica e morale dell’Accademia dei Lincei. I soci, arrivando, ebbero la sorpresa di vedere semichiuso il portone di palazzo Corsini e sopra incollata la scritta: sciopero degli impiegati. Le sedute ebbero luogo egualmente; i soci presentarono le loro note, dando luogo al consueto trattenimento di scambio di cognizioni in campi scientifici diversi ed inaspettati, del quale non conosco altro più raffinato e meglio atto ad inculcar modestia per la ottenuta notizia delle tante cose gravi difficili e belle che altri ha familiari e delle quali noi non abbiamo alcun sentore.
La domenica seguente si lesse sui giornali che la presidenza dell’Accademia avrebbe dato prova di intransigenza, minacciando licenziamenti ingiustificati in relazione alle esigenze del lavoro ed alle funzioni affidate dalla legge al massimo ente culturale della nazione; e si lesse altresì di comitati di agitazione i quali si sarebbero recati, insieme con un rappresentante della Camera del Lavoro, presso il sottosegretario alla pubblica istruzione, promettitore di suo pronto interessamento.
Poiché a me accade di far parte dell’illustre sodalizio, ho presentato la seguente interrogazione ai ministri dell’istruzione pubblica e delle finanze e tesoro:
«Per sapere:
1) se sia intenzione del governo di fondare, in separata sede, un istituto autonomo di assistenza per quegli impiegati dell’ex Accademia d’Italia, che non possono essere riassunti dalla ricostituita Accademia dei Lincei perché di gran lunga esuberanti alle sue esigenze;
2) se sia intenzione del governo di dare istruzioni affinché la commissione incaricata di apprestare il nuovo organico-regolamento del personale dell’Accademia dei Lincei presenti sollecitamente le sue definitive conclusioni e sia possibile dare, dopo imparziale scrutinio, sistemazione al personale che l’Accademia stessa sarà costretta a mantenere;
3) e poiché le notizie ufficiose che si hanno in proposito fanno presumere che il nuovo organico degli impiegati dell’Accademia dei Lincei per quanto ridotto in confronto dalla elefantiasi grottesca della Accademia d’Italia, assorbirà, per i suoi necessari e giusti emolumenti, e pur tenendo conto degli affidamenti ricevuti rispetto all’aumento della dotazione governativa, tutte le entrate dell’Accademia ed in breve ora le supererà, quali provvedimenti si intendano prendere affinché l’Accademia dei Lincei possa adempiere ancora al suo ufficio proprio, che non è quello di pagare stipendi ad un numero più o meno grande di impiegati, ma è invece quello di stampare e diffondere nel mondo note e memorie di soci e di studiosi, testimonianza del loro contributo al progresso scientifico e strumento necessario per consentire ad essi, grazie agli opportuni scambi con le consorelle d’altri paesi, la conoscenza dei contributi dati dagli stranieri al progresso medesimo».
Poiché non posso prevedere quando i ministri competenti daranno la opportuna risposta, non è forse fuor di luogo un breve commento. Si sa come sorsero nei secoli prima della rivoluzione francese le accademie scientifiche. Nel seicento e nel settecento alcuni amici si radunavano; ponevano problemi, li discutevano e talvolta pubblicavano memorie. Nel maggior numero dei casi, gli amici si stancavano, emigravano, morivano e della società od accademia non si sentiva più parlare. Taluna durava; attorno ad uomini dotti ed a maestri si formava un nucleo permanente; le memorie acquistavano rinomanza ed erano oggetto di corrispondenza e di scambio con società consorelle forestiere. Ad un certo punto, il breve di un pontefice o l’editto di un sovrano trasformava la società privata in pubblico sodalizio, che si fregiava col titolo di accademia, ne fissava lo statuto e determinava il numero chiuso dei soci: i quaranta dell’Accademia di Francia, i quaranta dell’Accademia di Torino, ed ora i 130 dell’Accademia dei Lincei. Far parte di un’accademia, di quella regionale o di quella nazionale diventa il desiderio, l’ambizione, il sogno degli studiosi. Non si tratta di spadini e di feluche né di stipendi. Gli accademici italiani odierni non hanno uniformi e non godono stipendi. Talvolta ricevono diarie, che per i non residenti a mala pena rimborsano le spese del vivere in città nei giorni di seduta. Non perciò le accademie vanno male; ché i soci sono orgogliosi di farne parte; e confesso che nessuna distinzione mi fece maggior piacere di quella di essere co-optato, ossia chiamato a far parte del loro numerato sodalizio, da uomini che veneravo e di cui improvvisamente diventavo astrattamente l’uguale. Ad uomini, che nella vita non hanno di solito molte probabilità di conquistare onori e ricchezze, si può perdonare l’innocente vanità di dar valore all’appartenenza – non per nomina dall’alto, ma per libera scelta di coloro che già ne fanno parte – ad un’aristocrazia di uguali.
L’innocua soddisfazione di far parte di un corpo rigorosamente numerato non è però lo scopo delle accademie; ne è tuttalpiù lo strumento. Strumento utile, perché dimostra che gli uomini agiscono anche per moventi diversi da quelli del denaro, del potere, dell’influenza sociale. C’è si un desiderio di onori, di prestigio, di influenza nel desiderio di essere co-optato in una società scientifica; ma quel desiderio si aggira in un campo assai ristretto. Il grande pubblico conosce capi di stato, presidenti del consiglio, ministri, uomini politici, giornalisti; e per le strade quando passano c’è chi dice: quel tale è il famoso, il noto pezzo grosso. Ma chi si accorge del signore che per via della Lungara si avvia a palazzo Corsini, anche se è il presidente Castelnuovo, noto in tutto il mondo come grande matematico? Chi fa attenzione ai tanti altri scienziati seri i quali si ritrovano in quelle sale a comunicarsi a vicenda i frutti delle loro ricerche? Spesso parlano un linguaggio incomprensibile ai più; e sempre quelle comunicazioni sono assaporate, come meritano, solo dai pochi che conservano, col crescere degli anni, quella particolare forma di curiosità, che si dice «scientifica», e che si compone di consapevolezza, che guai se viene meno ed allora lo studioso è morto, di non sapere nulla o di ansia di continuare ad apprendere.
Codeste congreghe di uomini, spesso ingenui e saggi, servono ad uno scopo, che altrimenti non potrebbe essere conseguito: pubblicare note e memorie che non troverebbero editori, per l’ottima ragione che nessun editore ha il dovere di spendere denari destinati a non essere recuperati mai. Le memorie di carattere rigorosamente scientifico interessano poche decine o centinaia di persone al mondo, e per giunta persone fornite del denaro che sarebbe necessario per acquistare al prezzo proibitivo che sarebbe necessario di stabilire per coprirne l’altissimo costo. Giuoco-forza è che la redazione, la scelta, la stampa e la distribuzione degli atti accademici avvengano a spese pubbliche. Solo i redditi di fondazioni o di dotazioni governative consentono invero di provvedere ad un compito il quale non può essere oggetto di una ordinaria impresa privata.
A questo primo essenziale compito, si sono aggiunti in prosieguo di tempo altri scopi secondari: assegnazione di premi, giudizi su quesiti sottoposti alle accademie, promuovimento di discussioni o di convegni scientifici. Ahimè! che la svalutazione della lira ha ridotto quasi a nulla il valore della più parte dei premi di antica fondazione e nuove fondazioni finora non ne hanno preso il posto. I Lincei col tempo potranno nuovamente distribuire premi sostanziosi, grazie alla fondazione Feltrinelli; ma per ora questa è stata feconda solo di controversie giudiziarie e di preoccupazioni finanziarie. Il testamento redatto con rara nobiltà di intenti dal Donegani annuncia ora la possibilità di notabili incoraggiamenti al progresso delle scienze chimiche ad opera dei Lincei; ma è possibilità futura posta a giusta mora di doverosi usufrutti e legati. In ogni caso le fondazioni per premi nulla aggiungono al bilancio delle accademie, poiché il loro reddito è dalle tavole di fondazione destinato agli scopi voluti dai benemeriti testatori.
Che gli scopi delle accademie siano ora quelli elencati, non sembra sia opinione dei comitati di agitazione degli impiegati delle accademie e degli istituti scientifici. Gran cammino si è fatto dal giorno in che all’origine degli accademici medesimi sbrigavano essi stessi le incombenze di segreteria e di amministrazione proprie dei loro corpi. Fu d’uopo e fu ragionevole assumere dapprima un custode, un segretario che nel tempo stesso tenesse i conti e curasse incassi e spese, e sovratutto bibliotecari addetti alla catalogazione ed all’ordinamento della suppellettile libraria che coll’andar degli anni e dei secoli si andava accumulando per ragioni di scambio e di doni ed omaggi ed oggi è patrimonio preziosissimo e spesso inestimabile messo a disposizione degli studiosi. La più parte delle accademie italiane provvede alla bisogna con numerato e devoto stuolo di impiegati che ben di rado superano le poche unità. Antiche società storiche o deputazioni di storia patria usarono in passato ed usano tuttora provvedere alla stampa di centinaia di volumi eruditissimi con l’ausilio di un solo impiegato a mezzo tempo e spesso ad un quarto o decimo di tempo. Non ricordo di quanti impiegati disponesse la gloriosa Accademia dei Lincei prima della fascistica sua soppressione; ma non dovevano superare di molto la dozzina. L’Accademia d’Italia inaugurò, dopo qualche iniziale riserbo, una nuova tradizione e quando essa fu travolta vantava ben 105 impiegati e noverava fra essi anche segretari privati, cuochi e non so se camerieri dell’ultimo presidente. Le vicende della guerra e della emigrazione dell’Accademia a Firenze ed al Nord, ridussero l’esercito burocratico dell’Accademia a 70; e sono questi 70 che si vorrebbero ora accollare alla ricostituita Accademia dei Lincei. Il commissario prima e poi l’attuale consiglio di presidenza tentarono di ridurre lo stuolo a 50, ma, incredibile a dirsi, lettere pervenute dal ministro dell’istruzione, confortate dal consenso del ministro del tesoro e da decisioni del Consiglio di stato ingiunsero all’Accademia di riassumere e pagare tutti i 70.
A questo punto si impone mettere dinnanzi all’opinione pubblica il problema nella sua assurda nudità. L’unica entrata apprezzabile dell’Accademia è la dotazione governativa, la quale sinora è quella stessa della soppressa Accademia d’Italia, ossia 5 milioni e 600 mila lire. Ragguardevole entrata prima della guerra; oggi non bastevole a pagare gli stipendi di una modesta quota dei settanta. Anche se, come pare debba accadere, la dotazione verrà cresciuta a 15 milioni, essa sarà appena bastevole a pagare lo stipendio ai 39 impiegati che un organico in corso di elaborazione avrebbe fissato come necessari al funzionamento dell’Accademia. Tenuto conto dei 13 mesi, degli assegni famigliari, delle trattenute per imposte e quote di previdenza, potrà il capitolo stipendi ed assegni varii ai 39 impiegati limitarsi ai 15 milioni? Da quali fonti l’Accademia dovrebbe trarre i mezzi per far fronte al sovrappiù? ed a provvedere alle riparazioni del costoso palazzo e di quelli della Farnesina ed alla illuminazione e riscaldamento di esso? Per tirare innanzi, l’Accademia sta consumando i fondi suoi disponibili anche quelli che nel bilancio erano dichiarati intangibili. Oramai non resterebbe che por mano ai capitali delle fondazioni, sottomettendoci noialtri amministratori alla giusta sanzione di andare in galera per peculato; ma anche con questi spedienti delittuosi non si riuscirebbe a varcar l’anno. Non perciò io chieggo al tesoro di aumentare la dotazione allo scopo di mantenere i 70 od i 50 od anche i 39 impiegati. Quando si è persuasi, come credo siano tutti senza eccezione i soci dei Lincei, essere doveroso ridurre al minimo le spese per il funzionamento del sodalizio, quando si è persuasi che il numero degli impiegati che taluno vorrebbe imporre all’Accademia sarebbe grandemente nocivo a quel buon funzionamento; quando si è convinti che non 70, non 50 e non 39, ma al più una ventina di impiegati decorosamente pagati e devoti al loro dovere sono richiesti dalle esigenze di qualunque cresciuto lavoro utile del sodalizio – ed il lavoro utile si fa senza pompa e senza fracassi -; si ha il dovere di non chiedere al tesoro dello stato contributi per fini dannosi all’istituto ed allo stato.
Il problema della vita delle istituzioni scientifiche deve essere affrontato. Esse stanno tutte morendo per lenta inanizione. Una delle più illustri accademie italiane ha una dotazione la quale oggi non basta a pagare il compenso che pure è richiesto dalle esigenze della vita per un mezzo custode; quando almeno un custode intiero sembra necessario per la mera preservazione di una suppellettile libraria di valore stupendo. Basterebbe sopprimere lo spreco indegno che si fa da enti pubblici per sussidiare pubblicazioni edite con gran lusso di carta patinata e di illustrazioni allo scopo di gettare il ridicolo sul nostro nome, perché antiche e reputatissime collezioni potessero seguitare a far onore grande all’Italia in tutto il mondo. Le briciole cadute dal banchetto dei lavori pubblici inutili e dei sussidi a fondo perduto ad imprese lavoranti a costi superiori ai ricavi basterebbero a consentire ad istituzioni secolari di adempiere al loro ufficio. In fondo non si tratta di dare, ma di restituire il mal tolto. Università, accademie, società storiche ricevevano in moneta buona 100 e seguitano a ricevere in moneta deprezzata le stesse 100 o poco più. La magistratura, altra essenziale colonna dello stato, è avvilita, perché i magistrati sono lasciati languire per fame. Frattanto lo stato si è convertito in un gigantesco ospizio di carità, il quale mantiene 1.500.000 impiegati, forse un decimo della popolazione attiva italiana.
È tutto un lavoro a vuoto, divenuto fine a se stesso, il quale non può non partorire diminuzione del prodotto sociale nazionale, disoccupazione e miseria. Il caso dell’Accademia dei Lincei è illuminante. Spendere tutti i redditi dell’istituto per pagare gli impiegati vuol dire non produrre nulla. La produzione di un istituto di cultura sono i volumi di memorie che esso pubblica. Questo e non altro. Se le imprese pubbliche e private lavorano parimenti tutte a vuoto e non producono nulla, di che cosa potranno mai vivere i lavoratori? Il piccolo dramma della maggiore istituzione di cultura italiana è il dramma della intiera produzione italiana, la quale tende a restare soffocata dal crescere spaventoso del numero di coloro che la vorrebbero regolare, indirizzare, promuovere. Produrre idee, scoprire qualcosa e comunicare altrui idee e scoperte val bene quanto produrre beni materiali. Dobbiamo davvero rinunciare ad aver parte nella nobile gara internazionale della creazione delle idee nuove? Se si, si consegnino le chiavi di palazzo Corsini agli impiegati e questi si mettano al posto dei soci.